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Geografie dei bordi, fra narrazioni, paesaggi e progettualità

copertinail centro in periferia

di Giuseppe Sorce

Arrivano in Italia i primi e impattanti e innegabili effetti concreti del cambiamento climatico. Potrei mettere la data di oggi, una di qualche anno fa oppure una data a caso del 2025. Sapevamo che prima o poi avremmo fatto esperienza degli effetti tangibili del cambiamento climatico anche qui, anche in Italia, uno dei Paesi del G8, uno dei Paesi che gode della fortuna, per dirla alla Diamond, di essere in quella particolare area geografica privilegiata del nostro pianeta che ha fatto da base a processi storici e culturali tali da farci ritenere oggi noi italiani, noi europei, individui di gran lunga più fortunati di altri.

Anche qualora si volesse assumere un prospettivismo storico diverso, l’Europa è oggi l’Europa soprattutto per cause prettamente geografiche. Più largamente: l’Occidente è oggi l’Occidente per cause prettamente geografiche [1] .

Qualche settimana fa dialogavo con un alunno di una scuola in cui ho insegnato per breve tempo, un mio alunno, un ragazzo migrante, veniva dalla Tunisia. In quegli istanti che, sono ore per le sinapsi, pensavo: “è una persona così sveglia e responsabile, profonda, eppure si ritrova a dover ricominciare tutto, lontano da casa, sforzandosi di imparare una lingua profondamente diversa dalla sua, a iniziare d’accapo a frequentare le scuole, barcamenarsi in un mondo molto diverso dal suo e che purtroppo troppo spesso lo guarda con sospetto e diffidenza. Cosa ha lui in meno di un suo coetaneo statunitense, magari meno sveglio, meno sensibile, che però può frequentare un’accademia militare e diventare ufficiale, che si può permettere una casa, auto e una moto o un ragazzo francese o danese che può fare l’università praticamente gratis e provare a costruirsi un percorso di vita che lo possa avvicinare il più possibile alla piena realizzazione di sé?”. La risposta è semplice. Fin troppo. E mentre gli tacevo questo ragionamento lo stesso non feci con la risposta e gliela dissi, ma non pensando a chissà chi, bensì facendo il confronto con me stesso, il suo “prof”. Stavamo parlando del fatto che da Menfi, sul litorale agrigentino, nelle giornate migliori, si riesce a vedere Pantelleria e la Tunisia è proprio lì dietro, così, avendomi lui raccontato del suo “viaggio” in mare, gli dissi soltanto: “alla fine, basta nascere qualche metro più in là ed è tutto diverso ed è tutto più difficile. È davvero un’ingiustizia”. È la più grande ingiustizia del mondo se ci pensate. Bastava nascere qualche metro più in là. Questo succede nel nostro mondo, nel mondo che abbiamo costruito.

Purtroppo però il nostro mondo, anzi, il nostro modo di pensarlo e abitarlo, ha prodotto qualcosa che trascende i bordi geografici e i confini politici: il cambiamento climatico, la crisi climatica.

Andiamo però con ordine perché queste parole vogliono anche offrire uno sguardo a Territori marginali, oscillazioni tra interno e costa, un volume che raccoglie diversi saggi a cura di Silvia Lanteri, Davide Simoni e Valentina Rossella Zucca edito da LetteraVentidue edizioni (settembre 2021). Il titolo del volume ci offre già l’appiglio per rimanere aggrappati proprio a quella costa, a quei bordi, a quegli spazi che separano e uniscono, raccolgono e talvolta dividono geografie, storie e mondi. È nell’introduzione di Lanzani che ci viene presentata la struttura del libro che si articola sapientemente attraverso molteplici geografie e paesaggi, micromondi della costa italiana ed alcuni suoi territori interni.

«Laddove la campagna e la montagna boscata incontrano ancora il mare» scrive Lanzani [2], i borghi e i centri storici marini, spiagge e il loro retro, «alla foce dei fiumi», grandi impianti e periferie industriali, ordinaria urbanizzazione diffusa costiera, infrastrutture di mobilità lungo la costa e verso l’interno. Sono questi quelli che Lanzani chiama i «contesti» geografici su cui riflettono i contributi in volume, i quali si articolano in tre sezioni ove vengono discussi trasversalmente e con sguardo multidisciplinare le «connessioni ecologiche», geografiche, culturali, umane, storiche, sociali e politiche dei territori oggetto di studio.

Prima di inoltrarci nel terreno dell’analisi vorrei soffermarmi sul comparto delle immagini presenti in volume. Ogni contributo infatti contiene ed è contenuto da un parallelo lavoro fotografico di diversi autori ma che in comune hanno il respiro stilistico oltre che colorimetrico. La scelta del bianco e nero infatti, a mio parere, si confà perfettamente sia alla prospettiva stilistica che retorica dei contributi sia all’impostazione editoriale di tutto il volume. Dall’impaginazione al font, tali scelte rendono tutto il testo un prodotto più fruibile anche a lettori non specialisti rendendo il movimento fra i contributi più interessante attraverso una scelta grafica leggera e precisa fatta di preziose carte geografiche, fotografie e mappe.

Al fine di dare l’idea della struttura e delle prospettive che nel suo complesso questo testo ci offre e contribuisce a costruire nell’ambito di una più grande riflessione geografica sul nostro Paese che mai probabilmente sarà completa grazie alla diversità degli ecosistemi e alla ricchezza delle culture e di luoghi che lo popolano, mi soffermerò rapidamente su qualche contributo.

diamondSull’importanza di costruire immagini e scenari, una Sicilia pulviscolare scrive Silvia Lanteri [3],  la cui l’attenzione verso il territorio è coadiuvata dall’attenzione verso le narrazioni che lo popolano, lo abitano e lo pensano. Senza infatti mai dimenticare l’impalcatura culturale che regge ogni territorio, sia esso “disegnato” su una mappa, sia esso quello vissuto ogni giorno dagli abitanti, questa riflessione mette in luce quello che è lo spirito che anima tutto il volume, ovvero la prospettiva multidisciplinare, la contaminazione di veduta e l’ibridazione dello sguardo. In modo particolare Lanteri pone quell’attenzione, centrale, sull’idea di geografia come pensiero di un luogo che si configura come un vero e proprio micro-mondo, un insieme di «micro-realtà». Il saggio segue poi una riflessione su tutti quegli spazi che rappresentano in Sicilia un elemento di novità nelle narrazioni proprio dei territori ove sorgono – utile oltre che interessante qui, come in tutto il volume, la raccolta di fotografie che accompagna il testo, in questo caso di Gianluca Basile e alcune anche di Lanteri stessa. Il Farm Cultural Park di Favara, le esperienze nella periferia di Mazara del Vallo e nel quartiere San Berillo a Catania, il festival Ypsigrock di Castelbuono e via dicendo rappresentano un «pulviscolo effervescente» come li definisce l’autrice, spazialità particolari, iniziative come la Fiumara d’Arte lungo gli argini il fiume Tusa, opere coinvolte in processi «di riattivazione» del territorio, alcuni dei quali

«hanno a che fare con l’industria creativa e la costruzione di nuove narrazioni urbane derivanti da essa; altri sono legati a festival ed eventi, e si confrontano con temporalità variabili, ma sempre a intermittenza; altri ancora presentano sperimentazioni sociali e comunitarie dalle geografie variabili, localizzate talvolta nelle periferie urbane, talvolta nei piccoli centri sparsi per la regione; altri hanno a che fare con il recupero di pratiche e tra dizioni che riattivano piccole economie locali; alcuni si distinguono per la propria portata in termini di trasformazione dello spazio, imprimendo dei segni tangibili sul territorio, altri creano o rafforzano reti immateriali, lavorando per sistemi. Alcuni sono il risultato di processi di iniziativa pubblica, altri vengono finanziati e realizzati da attori privati. Questa costellazione di iniziative e micro-trasformazioni mette in luce un interessante ‘agire tattico’ per piccole progettualità plurali che accetta al suo interno un certo grado di fluidità e incompiutezza, ma che necessita di essere collocato all’interno di cornici e immagini di cambiamento più ampie e sistemiche».

Se il lavoro di Lanteri si concentra appunto sul rapporto fra le narrazioni dei territori e l’“industria culturale” che opera nel territorio stesso in qualità di produttrice di narrazioni differenti che arricchiscono il territorio e la sua percezione, il contributo di Navarra, per esempio, si concentra invece su una geografia e una geologia del paesaggio. Intrattenendosi su alcuni casi di studio ed esperienze sul campo, dalle quali probabilmente sono tratte le fotografie dell’autore stesso che accompagnano la riflessione, a proposito quindi di tomografia e mappe, possiamo leggere che unire geografia e geologia ci

«apre la possibilità di riconsiderare lo spazio in chiave nomade concentrandosi sulle tracce che si cancellano e si spostano con il tragitto, ma anche su quei frammenti archeologici che affiorano, come permanenze, dopo un evento traumatico. La rappresentazione del movimento avviene attraverso mappe mentali che deformano la geografia mettendo in discussione le distanze reali, in modo da evidenziare nuove coordinate fornite dagli elementi caratterizzanti il territorio in una prospettiva sia antropologica che psicologica. Elementi deformati, raddrizzati e riposizionati permettono di realizzare nuove carte oggettive nelle quali le linee di movimento, come le fiumare, costituiscono gli assi fondamentali sui quali regolare le relazioni tra i diversi oggetti e individuare possibili nodi eccezionali e nuove configurazioni».

latourÈ questo un punto chiave per tutta la riflessione geografica. Molto spesso infatti si è indotti a pensare le discipline della terra come agli antipodi, geografia e geologia. Pochi e audaci sono invece i lavori e le ricerche che ne riapprofondiscono gli intrecci, oggi soprattutto ineludibili a causa del ritorno di Gaia [4] nel destino dell’uomo e quindi nel dibattito che alle volte intercorre troppo rigidamente chiuso nelle scienze umane.

Rimanendo sulla scia dell’ibridazione, necessaria, fra discipline e approcci, fra presente e passato della Terra e dei territori, dei luoghi e degli spazi, Pietro Clemente indaga il paesaggio sardo «che non si vede» [5]. Nel suo testo è lo sguardo antropologico a guidare la riflessione che inevitabilmente si serve del racconto sociale, del dialogo fra presente e passato, della storia geo-culturale del territorio e dei miti che lo hanno popolato e che lo hanno “inventato” [6]. «La Sardegna si presenta ora con l’appeal del mare, con la mitologia delle sue zone interne e pastorali, della sua archeologia, dei suoi cibi, ma il suo backstage è eroso fino all’estremo» condensa Clemente in un passaggio, perché il pensiero geografico deve necessariamente scavare sia verso l’interno dello spazio che verso l’esterno, le profondità, del racconto dei luoghi e degli spazi. L’autore riflette quindi sui miti dell’Isola per parlarci poi delle sulle sue ricerche sullo spazio turistico della Costa Smeralda, e ciò non ci deve stupire perché è questo il modo di costruire un pensiero geografico di ampio respiro, poiché le mappe non ci dicono tutto, le mappe lasciano fuori, iconizzano, bidimensionalizzano ciò che invece è verticale, profondo, interno ed esterno appunto, fratturato e ricomposto, frastagliato e collinare. Dati e storie devono animare il pensiero geografico per cogliere idiosincrasie, paradossi, contrasti e chiaroscuri [7], che sono gli elementi che fanno di un luogo un “luogo”, cioè uno spazio che è sempre diverso da un altro spazio [8]. È così che più avanti Clemente ci parlerà approfonditamente di Armungia di cui vale la pena citare l’introduzione, giusto poche righe, perché è lì che coagula l’epistemologia alla base della ricerca su e del luogo.

«Il caso di Armungia è forse una metafora della Sardegna attuale, della sua difficoltà ad essere originale, del suo nascondere in una identità conclamata la mancanza di una memoria storica. La testimonianza di chi come me conosce la Sardegna dal 1942, è legata al desiderio che essa si ritrovi nella storia complessa e originale del suo ’900, non nei miti del mondo nuragico e della legge delle chiudende. Miti che servono ad opporre un passato glorificato a un futuro negato. La Sardegna è cambiata, è ibrida, complessa, eccezionale, spopolata, possiede ancora in nuce le risorse di una possibile trasformazione mirata alle zone interne». 

Complessità appunto, ibridazione. Nella sezione del volume dedicata in particolare alla Sardegna troviamo fra le altre anche la riflessione di Cassu [9] che ci descrive le aree marginali dell’Isola cioè appunto le aree costiere, indagandone il presente e l’articolazione spazio-temporale. Così come in questo e in altri contributi, le emergenze morfologiche, idrogeologiche, paesaggistiche e urbanistiche, frutto delle pratiche antropoceniche, dell’abitare e della complessa storia e geografia dei territori marginali italiani (quelli discussi ma anche tutti gli altri), rappresentano infatti il focus parallelo di tutto il volume. Non solo le coste quindi ma anche l’entroterra (centro per esempio della riflessione di Dini, In Sardegna non c’è il mare[10] come zone marginali, liminari, ove passato storico-politico e presente climatico si incontrano. Se la prima sezione del volume tratta di Geografia allargate, la terza in chiusura è un viaggio localizzato nella vallata di Solanas. Questo spazio descritto e studiato incarna lo spirito di tutto il volume, perché convoglia gli sguardi sulle città e sulle aree interne attraverso la visione geografica, fra ciò che è e ciò che si può immaginare e pensare su e di un territorio in termini anche futuribili, di progetto.

«Volgendo lo sguardo verso una lettura più ampia, nelle giornate di lavoro sul campo sono state costruite nuove immagini possibili, muovendo dalle matrici ambientali del suolo e dell’acqua in tensione con i temi dell’abitare temporaneo e permanente, dei modelli di turismo altri, della micro-produzione e della cura del paesaggio. L’acqua del rio che si riprende i suoi spazi diventa quindi un’opportunità per ridefinire alcuni margini e lasciare il giusto spazio a quello che per la maggior parte del tempo è un letto asciutto sul quale affacciarsi, pronto ad accogliere gli inspessimenti stagionali in una serena convivenza. I suoli che ancora mantengono una memoria agricola, tutti i residui di culture locali e di macchia, costituiscono un’importante infrastruttura ambientale che potrebbe strutturare alcune operazioni di riordino urbano necessario. Lavorando sullo spessore ecosistemico di questo suolo e sul suo disegno in sezione, si potrebbero riequilibrare alcune questioni legate agli usi e al loro impatto climatico-ambientale (Silvia Lanteri, Davide Simoni, Valentina Rossella Zucca) [11].

geogrfIl contributo prosegue nella proposta di progetti e workshop come «ipotesi di nuove possibili narrazioni intrecciate ad una fruizione lenta del territorio, un abitare familiare domestico intimo e una trama turistica plurima che permetterebbe di superare l’eccessiva specializzazione balneare». A guardar bene, le proposte degli autori [12] sono numerose nel volume e sono volte a «riscrivere i paesaggi» (Nifosì) [13] in quanto atto reale ossia in quanto processo dalla molteplice valenza: riscrivere i territori marginali non significa solo dare linfa economica alle aree in questione ma allo stesso tempo significa anche fornire un’immagine del futuro reale di questi territori.

Il cambiamento climatico, le attività antropoceniche, gli errori e gli abusi sul territorio gravano per primi sui territori marginali appunto perché sono quelli più fragili e più esposti. Le coste non turistiche, le zone dell’entroterra, la valli di raccordo di centri più grandi e urbanizzati, sono i luoghi in cui la crisi degli ecosistemi verrà prima a galla poiché sono luoghi meno ricchi, di minore interesse per gli apparati istituzionali, meno protetti. Per questo una visione geografica progettuale diventa necessaria. Attivare narrazioni arricchenti, sostenere chi abita i luoghi con immaginari nuovi che si contrappongano all’abbandono, alle esondazioni, agli allagamenti, alle incurie. E in questo, Territori marginali riesce nell’intento non solo di mettere a fuoco certi luoghi appunto, le loro storie, le loro criticità, ma anche in quello di gettare luce di su scenari possibili e immaginari alternativi e futuribili. Certo, a tal proposito, da notare l’assenza nel volume il concetto-parola “Antropocene”, di cui si intuiscono i pericoli e le fragilità, ma che non può essere eluso soprattutto se proprio, come in questo caso, se ne discutono poi gli effetti, le complicanze, le dinamiche. Poteva anzi essere messo alla prova, l’Antropocene, come macro-narrazione del mondo del presente e del futuro, dei luoghi quindi e dei territori. Territori marginali si propone comunque come sguardo prezioso su quei loghi critici che spesso ci abitano in modo inconsapevole, e abitano le narrazioni geografiche in maniera sommessa, tanto più subliminale e potente quanto più è evidente il tentativo di ignorarli. Perché i paesaggi, anche quelli “che non si vedono”, soprattutto quelli che non si vedono, sono la prima e l’ultima difesa che abbiamo per fronteggiare le complessità e le sfide del mondo a venire.

Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022 
Note
[1] Si veda Diamond J. 2014, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi.
[2] Lanzani A., Un viaggio progettuale lungo le coste italiane dopo la stagione della crescita e a fronte di crescenti fragilità, in Territori marginali, oscillazioni tra interno e costa, a cura di Silvia Lanteri, Davide Simoni e Valentina Rossella Zucca (a cura), LetteraVentidue edizioni: 12-22.
[3] Dagognet F. 1977, Néo-Géographie. Une épistémologie de l’espace concret, Paris, Librairie
Philosophique J. Vrin; Lanteri S., Sull’importanza di costruire immagini e scenari. Una Sicilia pulviscolare in Territori marginali, oscillazioni tra interno e costa, a cura di Silvia Lanteri, Davide Simoni e Valentina Rossella Zucca (a cura), LetteraVentidue edizioni: 38-55.
[4] Latour B. 2017, Facing Gaia. Eight Lectures on the New Climatic Regime, Polity Press.
[5] Clemente P., Per una antropologia storica del paesaggio. Note sulla Sardegna, in Territori marginali, oscillazioni tra interno e costa, a cura di Silvia Lanteri, Davide Simoni e Valentina Rossella Zucca (a cura), LetteraVentidue edizioni: 138-155.
[6] Precisa Clemente: «Credo sia importante, per un antropologo, ma anche per chi si avvicina allo studio di un luogo, sapere che quest’Isola ha prodotto molte mitologie su sé stessa. La psicologa sarda Nereide Rudas ha cercato di leggere in questo una sorta di consolazione collettiva, una specie di risarcimento per le lunghe e sventurate vicende di marginalità e di subordinazione e ha visto nelle molteplici rivendicazioni e proclamazioni di identità speciali un che di narcisistico» (Clemente: 143)
[7] Per esempio, Dini ci dice che «leggere il territorio sardo attraverso la lente degli studi sulle aree montane e pedemontane può essere utile per comprendere meglio un luogo anch’esso caratterizzato da forti contrapposizioni: polarizzazioni e abbandoni, centralità delle aree costiere e perifericità dei territori interni, cementificazione e wilderness, spazi fortemente urbanizzati e aree rurali» (Dini: 229).
[8] Farinelli F. 2003, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Torino, Einaudi.
[9] Casu A., Echi dal margine in Territori marginali, oscillazioni tra interno e costa, a cura di Silvia Lanteri, Davide Simoni e Valentina Rossella Zucca (a cura), LetteraVentidue edizioni: 208-227.
[10] Dini R., “In Sardegna non c’è il mare”. Appunti per un’esplorazione geografico-progettuale dell’entroterra in Territori marginali, oscillazioni tra interno e costa, a cura di Silvia Lanteri, Davide Simoni e Valentina Rossella Zucca (a cura), LetteraVentidue edizioni: 228-243.
[11] Lanteri S., Simoni D., Zucca V. R., Il caso della vallata di Solanas, nel Sud Sardegna in Territori marginali, oscillazioni tra interno e costa, a cura di Silvia Lanteri, Davide Simoni e Valentina Rossella Zucca (a cura), LetteraVentidue edizioni: 246-293.
[12] Una parziale rimozione di infrastrutture obsolete e problematiche e un parziale rafforzamento-ripristino del paesaggio naturale consentirebbero al mare di invadere nuovamente parti di costa» (ibidem) questione aspra che affligge gran parte del territorio costiero italiano.
[13] Nifosì C., Tra mare e terra. L’acqua nel disegno litoraneo in Territori marginali, oscillazioni tra interno e costa, a cura di Silvia Lanteri, Davide Simoni e Valentina Rossella Zucca (a cura), LetteraVentidue edizioni: 92-109.

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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof.  Franco Farinelli.

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