di Ninni Ravazza
Uno degli interrogativi che da sempre appassiona gli antropologi di tutto il mondo e spesso li fa scontrare è a chi appartenga la primigenia tra Mito e Rito, momenti fondamentali della vita sociale dell’individuo fin dalla notte dei tempi. “Ma com’era cominciato tutto?” si chiede a più riprese Roberto Calasso [1], e la stessa domanda mi sono posto io non so quante volte negli anni trascorsi assieme a pescatori e marinai in quel mare Mediterraneo che da millenni accumula culture e storie mai cancellate, creando mitologie e ritualità che sono rimaste immutabili nel tempo.
Questo scritto non ha la presunzione di essere un saggio sulla dicotomia fra i due “momenti” (non ne avrei la capacità né la dovuta competenza, sono un sommozzatore-scrittore non un antropologo) ma soltanto la personale riflessione su un tema che mi ha visto appassionato spettatore, lettore attento di dinamiche sociali e culturali vissute all’insaputa degli stessi protagonisti ma chiara espressione di saperi arcaici perpetuatisi nei secoli.
Il mare da sempre è un grande catalizzatore di saperi e conoscenze che non distrugge col passare degli anni ma piuttosto stratifica diventando un enorme contenitore formativo arricchito con l’apporto delle singole generazioni che si alternano sulle barche e sulle sue sponde, e in questo senso ritengo che il continente liquido possa bene fornire indicazioni inequivocabili sul rapporto fra l’Uomo e i suoi basilari riferimenti religioso-culturali.
Perché si possa leggere nelle attività alieutiche il profondo rapporto tra l’essere umano e il mondo del soprannaturale cui appartengono il Mito e il Rito, è necessario che l’attività di pesca sia legata non solo alla perizia del marinaio ma anche all’imponderabile, dettato dalla Natura e dal Caso. È qui che è possibile rintracciare ancora oggi gli archetipi di comportamenti messi in atto per contrastare o allearsi con le forze naturali che l’uomo non può piegare ai propri voleri, o anche comprendere le motivazioni che sovrintendono a una scelta di vita che può presentare più incognite sia dal punto di vista dell’esito finanziario, sia da quello della stessa sopravvivenza.
Due sono le attività principali nelle quali il marinaio/pescatore si è trovato a confrontarsi con miti e riti: la pesca del corallo e quella del tonno, “pesche speciali” per le loro caratteristiche [2], entrambe attività alieutiche in cui preponderante è l’alea soggetta a numerose variabili indipendenti dal volere dell’uomo e dalle sua capacità: condizioni atmosferiche (tempeste, venti, correnti sottomarine), inquinamenti, presenza di pesci molesti, incidenti di navigazione …; entrambe riconducono al legame intimo fra l’uomo e il mistero della natura, ma partono da premesse affatto diverse e si sviluppano su percorsi paralleli che non si intrecciano nonostante il comune denominatore sia sempre l’essere umano e la sua ricerca del tesoro sommerso che deve attirare nella trappola preparata (la tonnara) o andare a trovare (“spegnare”), anche col rischio della vita come nelle leggende plutoniche delle “truvature” [3] negli abissi marini invisibili dalla superficie.
Il rais non può essere sicuro dell’arrivo dei tonni come il sommozzatore non conosce a priori se lo scoglio individuato sia pieno di prezioso corallo o di gorgonie senza valore. L’uomo è solo davanti alla Natura, da sempre, e con essa deve confrontarsi abbandonando il suo status materiale per proiettarsi in un mondo che prescinde dalla concreta realtà fisica.
“Ma com’era cominciato tutto?” ci chiediamo con Calasso. Se per Jean-Claude Schmitt «Il mito è un insieme di rappresentazioni nel quale un gruppo sociale proietta i suoi desideri o cerca una giustificazione di se stesso» [4] e per Antonino Cusumano «Ciò che sul piano delle mediazioni tecniche i pescatori mettono in opera è dunque strettamente correlato a modalità di relazioni e modelli di rappresentazioni simboliche orientati a porre ciascuna sequenza di processi lavorativi entro un adeguato orizzonte protettivo» [5], sulla base della mia pluridecennale esperienza di sommozzatore corallaro e subacqueo di tonnara, attento osservatore dei comportamenti umani in questi due mondi [6], vorrei azzardare una tesi che nulla ha di scientifico ma che mi ha emotivamente coinvolto: la pesca del corallo appannaggio di pochi coraggiosi che sfidano le profondità nasce dal Mito, unica motivazione che può giustificare l’enorme rischio che si corre praticandola; la pesca del tonno così soggetta all’imponderabile crea il Rito, proprio per ribattere ai possibili imprevisti che farebbero perdere pesci e guadagno.
“Ma com’è che tutto è cominciato?” … non ho la risposta ma ho la consapevolezza di avere vissuto quegli istanti fondativi, perché «in mare non esistono un inizio né una fine, qui tutto è per sempre» [7].
«In principio fu, dunque, il mito, la prima esperienza del comunicare e del conoscere …» [8]
Ore sette del mattino, la costa si vede appena filtrata dall’umidità della notte sul mare. Lo scandaglio ha disegnato una pettata [9] dagli ottanta ai novanta metri, l’habitat ideale del Corallium rubrum, il sommozzatore indossa la muta e prepara le bombole. Tra pochi minuti sarà là sotto dove «il limite dell’impossibile è vicinissimo» [10]; seduto sul bordo della barca «il corallaro abbassa la maschera … come una celata» [11]. Moderno cavaliere che ha sostituito la lancia con la picozza cerca il tesoro ma non è sicuro di trovarlo, per impossessarsene dovrà beffare gli Incanti posti a sua difesa [12], se ci riuscirà ritornerà alla superficie con la sua “truvatura” dal colore del sangue, se invece l’immersione risulterà infruttuosa cambierà zona e l’indomani proverà ancora e dopo ancora, finché avrà spegnato il tesoro, o magari l’Incanto ne avrà ragione prendendogli la vita.
Perché ha rischiato così tanto, cosa l’ha spinto alle dure sveglie all’alba, alle navigazioni nel freddo del mattino, ad aggiungere ogni giorno un metro in più alla profondità di quello precedente, a sfidare le correnti, la narcosi [13], i pescicani e le tempeste, ben sapendo che ogni immersione potrebbe essere l’ultima?
«Ti voglio rivelare, o Gilgamesh, una cosa nascosta / il segreto degli dei ti voglio manifestare / Vi è una pianta, le cui radici sono simili a un rovo / le cui spine, come quelle di una rosa, pungeranno le tue mani; / se raggiungerai tale pianta con le tue mani troverai la vita». E Gilgamesh, eroe sumerico, andò a cercare la pianta della vita: «… aprì un foro, / poi si legò ai piedi grandi pietre, / e si immerse nell’Apsi, la dimora di Enki; / egli prese la pianta sebbene questa pungesse le sue mani […] questa pianta è la pianta dell’irrequietezza; / grazie ad essa l’uomo ottiene la vita […] Anch’io voglio mangiare la pianta e così ritornerò giovane …». Questa avventura alla ricerca della vita risale al XIX secolo prima di Cristo ed è tra le opere letterarie più antiche conosciute [14].
I pescatori di corallo, e io con loro, hanno cercato a lungo la giovinezza nel silenzio ovattato della profondità. Belli di fama e di sventura, perché spesso alla gloria effimera dell’eroe che quotidianamente sfida l’abisso si accompagna il disastro degli incidenti invalidanti e talvolta anche mortali, delle stagioni andate male in cui le perdite sono superiori ai guadagni, del dolore per la morte dei cari compagni di immersione, della rinuncia dopo tante delusioni. Ricchezza e miseria si alternano veloci ma spesso è la seconda a prevalere. Ciononostante il richiamo della profondità è stato sempre fortissimo.
Divenire un corallaro era il passaggio obbligatorio per entrare nell’aristocrazia dei sommozzatori, per addivenire allo status di semidio capace di raggiungere mondi preclusi alla maggior parte degli uomini. Non era stato forse il figlio di Zeus re degli Dei a dar vita al corallo uccidendo Medusa per liberare la bella Andromeda? Perseo sfida il mostro mettendo a repentaglio la propria vita, non ha la certezza di vincere ma vuole sfidare il pericolo, sa bene che potrebbe morire trasformato in fredda pietra ma non desiste, riesce nell’impresa, recide la testa alla Gorgone figlia di Forco e la pone “sulla rena” coprendola di “ramoscelli acquatici” che «freschi e ancor vivi ne assorbono nel midollo / la forza e a contatto col mostro s’induriscono, / assumendo nei bracci e nelle foglie una rigidità mai vista […] Ancor oggi i coralli conservano immutata la proprietà / d’indurirsi a contatto dell’aria, per cui ciò che nell’acqua / era vimine, spuntandone fuori si pietrifica» [15].
Sono pochi i corallari che conoscono il mito di Perseo e di Medusa ma tutti nell’istante in cui superano lo specchio del mare, porta magica per un mondo “altro”, diventano eroi epici, semidei alla ricerca della pianta dell’eterna giovinezza che strapperanno al profondo solo dopo aver vinto la battaglia col mostro. Come Perseo anche il corallaro ritornato tra i suoi simili «enumera i vari pericoli corsi nel suo lungo viaggio; / quali mari e quali terre abbia intravisto dall’alto, / quali stelle abbia raggiunto col suo battito d’ali …» [16]. «Il mythos è ciò che dà vita al logos» dice Antonino Buttitta [17]: la “parola” per narrare di imprese impossibili e sfide mortifere; così il sommozzatore tornato uomo di terra racconta, novello Omero e al tempo stesso sua creatura Odisseo, narra la sua epopea, espone «il fascino di questa storia, che è di tutti i cacciatori di tesori, di oro e smeraldi, di diamanti e uranio: inseguire febbricitanti un miraggio di ricchezza …» [18].
Molto spesso però il sogno di ricchezza non è stato il solo sprone per un mestiere così duro e pericoloso ma piuttosto è stato arricchito e nobilitato proprio dalla straordinarietà fine a se stessa del gesto e allora la narrazione assume caratteristiche non solo epiche ma addirittura estetiche: «L’acqua era molto limpida, quando ho visto uno scoglio in lontananza con tutto l’alone bianco intorno, non ci credevo … era pieno di corallo fiorito» racconta nel suo libro autobiografico Paolo Bencini, uno dei sommozzatori italiani più famosi [19]. Un “alone di luce” in fondo al mare, mai ho letto o sentito una similitudine più bella e poetica. Anche io ho visto il corallo in fiore sugli scogli sommersi e sono rimasto incantato dallo spettacolo, ma solo Bencini è riuscito a rendere appieno la bellezza di quella visione con poche semplici parole: «un grande alone di luce, come se ci avessero acceso tante lampade». La meraviglia dell’eroe stupito davanti al miracolo della natura.
Paolo Bencini, e tanti altri come lui, ha continuato per decenni a pescare il corallo, fin quando un grave incidente gli ha impedito le immersioni; più volte aveva abbandonato il mestiere ma poi era sempre tornato nell’abisso perché lui in realtà non cercava semplicemente il “pesce d’oro” di Teocrito che una volta catturato consente di lasciare il mare per una vita più serena [20] ma più o meno consapevolmente seguiva la traccia segnata migliaia di anni addietro da eroi a lui ignoti eppure tanto simili. Paolo conosceva benissimo i pericoli cui andava incontro ogni giorno immergendosi “nella dimora di Enki”, il suo libro lo chiude con l’elenco degli amici colleghi corallari morti a mare per non aver saputo evitare lo sguardo di Medusa (quarantatré, però questa cifra è errata per difetto e non aggiornata) ma ha proseguito lo stesso nella sua ricerca dell’eterna giovinezza fin quando gli è stato possibile.
Un monile di corallo, strappato all’abisso a costo di sacrifici e pericoli, ancora oggi rivela la sua utilizzazione simbolica: «Tanto nella loro funzione ornamentale, quanto in quella di status, quanto ancora in quella magico-apotropaica, l’uso e la valorizzazione culturale del corallo manifestano infatti, anche nelle loro espressioni più moderne, il desiderio per lo più inconsapevole di connettersi a tempi arcaici per quivi fondare la propria patria elettiva» [21].
Gioiello indossato da uomini e donne, talismano, medicina miracolosa, protettore dei neonati, prezioso fiore degli abissi, ornamento di Santi e Madonne, materia prima di straordinarie opere d’arte, il Corallo nasce dal Mito e ad esso appartiene in eterno.
“Disse lu tunnu, chi sugno ‘nfatatu ca tutti state in spiranza di mia?” [22]
Ore sette del mattino, la costa si vede appena filtrata dall’umidità della notte sul mare. La muciara nera scavalca i cavi di summo [23], il rais si leva il berretto e saluta la tonnara … “Santo, buongiorno”; analogamente farà nel tardo pomeriggio uscendo dal recinto di rete cui ha affidato le sorti della pesca: “Buona notte, buona sorte, buona Tonnara”. Non è solo un groviglio di corde e cime quell’edificio sommerso che i tonnaroti hanno creato a fine aprile e smantelleranno a metà giugno, è piuttosto una entità viva, pulsante, con una propria volontà, guai a mancarle di rispetto. Da essa dipendono il benessere della comunità dei pescatori di tonni e la ricchezza del padrone che alla fine deciderà se proseguire l’attività o sospenderla per una mala pesca lasciando nelle difficoltà economiche i pescatori.
La tonnara è lì, in mezzo al mare, bloccata da migliaia di metri di cavi e centinaia di ancore, impossibile spostarla altrove se i pesci non arrivano. Perché tutto vada bene l’unica speranza è di farsi amici gli Dei del mare, alleati i Santi protettori dei pescatori, complici le potenze numinose che sovrintendono alle correnti e ai marosi, affinché non sopravvengano incidenti e i tonni arrivino numerosi. Nasce così una serie di comportamenti rituali che da tempo immemorabile vengono reiterati per contrastare forze sovrumane altrimenti indomabili.
Non c’è stata nei secoli tonnara ove prima dell’immersione le reti non siano state benedette da un sacerdote «in cotta e stola color violaceo» [24] che poi accompagnava rais e tonnaroti in processione fino al mare; questo rito perdura ancor oggi nelle ultime tonnare italiane in attività, a Carloforte e Portoscuso in Sardegna. Già nel 1700 l’abate Francesco Cetti sottolinea come in tonnara «preme l’osservazione della religione da cui giudica di dover dipendere non poco il buon esito della pesca» [25]. Non c’è stato rais che uscendo dal porto la mattina presto non abbia recitato le preghiere per il buon esito della pesca, o che non abbia posto sopra l’intersezione delle reti che immettono nelle camere della tonnara un’alta croce con le icone dei Santi protettori dei pescatori; in alcuni impianti le immagini della Madonna venivano immerse insieme alle reti a inizio della stagione perché la madre di tutte le madri, e dunque anche delle famiglie dei tonnaroti, vegliasse sui pescatori e sul loro lavoro [26]. A Bonagia un pescatore aveva il compito di adornare di fiori la teca del Signore appesa sul muro esterno della tonnara, una presenza tanto importante per i rais locali da giustificare la perdita della stagione quando per un indispensabile restauro fu rimossa dal suo alloggiamento e mancò per tutti i mesi della pesca [27].
I fiori, altro oggetto del rito in tonnara. Fiori di primavera rossi e gialli e blu, simbolo di vita per esorcizzare la morte che è elemento indispensabile in tonnara: la morte dei tonni significa vita per i tonnaroti, modesto guadagno che comunque assicura la sopravvivenza della famiglia e il mantenimento delle pacifiche dinamiche sociali. Se la “camera della morte” dove avviene la mattanza non veniva chiamata col suo nome “ufficiale” dai tonnaroti ma piuttosto appellata “corpu” (corpo fecondo, che regala i tonni) o anche “naca” (culla, per la sua conformazione ma anche perché nella sua rete si allevavano i frutti del lavoro), nella giuntura tra reti della tonnara e camera della morte venivano intrecciati i fiori colorati della primavera che occultavano la “custura l’erva” (cucitura di erbe) barriera invisibile tra la vita e la morte.
I tonnaroti amavano i pesci eppure li uccidevano per necessità e così a Pizzo Calabro cantavano che “a tutti li tunni circamo perdonu” [28], e il tonnaroto-affabulatore di Bonagia Pio Solina con rara sensibilità comunicava il passaggio tranquillo dei tonni nel “corpu”: “passaro soavi soavi”. Soavi: «con un andare che dà ai vari sensi e nell’animo un’impressione di dolcezza delicata e gentile» (dall’Enciclopedia Treccani). Nessuna violenza ma piuttosto grande serenità in queste fasi che pure preludevano alla cruenta mattanza.

) Processione alla tonnara Saline in Sardegna (inizi ‘900, da S. Rubino, La tonnara Saline, La Celere, 1994)
Le cronache delle tonnare sono intrise di riti che affondano le radici nei secoli trascorsi e si sono mantenuti pressoché identici negli anni: la venerazione per Sant’Antonino protettore dei pescatori la cui statua lignea a Bonagia veniva posta a poppa di una barca e per tredici giorni, dal primo di giugno alla data della sua ricorrenza, accompagnava i tonnaroti al lavoro per sovrintendere alla pesca nel periodo in cui si aspettavano i più ricchi branchi di tonni; la comunicazione all’intero borgo dell’arrivo dei primi pesci col suono della campana della tonnara che invitava tutto il paese alla festa per l’inizio della stagione di pesca; le processioni festose portando in spalla il primo tonno pescato; le elemosine offerte ai monasteri per tenere buoni chiese e divinità [29]. Non sono mancati neppure i rituali poco cristiani e molto pagani come la “fecondazione” del corpu a cura di una donna di vita che veniva invitata a “bagnare” le acque simile alla dea Demetra/Cerere fecondatrice dei campi [30].
Rituale pagano era anche disegnare sulle barche delle tonnare simboli apotropaici discendenti dagli occhi della buona sorte dei naviganti dell’antichità: non più sfuggenti palpebre a guidare la prua, ma stavolta semplici cerchi tratteggiati con mano insicura sulle poppe quadre di “varcazze” e muciare. I tonnaroti richiesti del perché di tale simbolo immancabilmente rispondevano di non saperlo ma che «da sempre si fa così, porta fortuna» [31].
Fiori e preghiere, elemosine e processioni, non sempre però erano sufficienti ad assicurare una positiva conclusione della stagione di pesca: «… avevo tutto ben preparato, ma gli elementi li controlla Dio e l’uomo nulla può, bisogna rassegnarsi» scriveva nel suo Diario il rais Vincenzo Oliva di Scopello a fine stagione nel 1942, quando una tempesta distrusse le reti di fibra vegetale facendo fuggire 400 tonni già in tonnara [32].
Dio, la Natura, il Fato … i rais si confrontano con essi, sanno di essere più deboli e di dipendere dalla loro volontà, e cercano il modo di farseli amici. Inventano i Riti che possano creare un contatto tra realtà diverse e contigue, tra il mondo degli Dei e quello degli uomini.
Com’è che tutto ha avuto inizio?
Ore sette del mattino, un guerriero sumero passeggia sulla riva del Mar Persico dove sfociano i fiumi sacri Tigri ed Eufrate, guarda il mare e sotto la superficie intravede una pianta che fluttua alla corrente, immerge le mani e la ruba agli scogli … la pianta come d’incanto si irrigidisce, diventa dura pietra, rossa come il sangue. L’aria le ha donato la forza, non è più languida alga. Il guerriero serra al petto quella pianta divenuta pietra, combatte e doma il nemico, ora ha lui la stessa forza della pianta. Torna a casa, spezza un ramo della pianta rossa e lo pone nella culla del figlio che piange per il freddo, se ha protetto lui in battaglia farà lo stesso col bambino nato da pochi mesi. Anche la giovane moglie pretende per sé un ramo della pietra che sembra una pianta, lei non andrà a combattere ma ne desidera la forza per restare giovane e bella. Nel villaggio si sparge la notizia della pianta che regala invincibilità e giovinezza, tutti la vogliono e per impossessarsene sfidano le acque agitate dalle correnti e i nemici accorsi a tendergli un agguato. Come un baleno la voce corre per tutto il mondo conosciuto, c’è un arbusto magico dello stesso colore del sangue in grado di difendere chi lo possiede dai nemici, dalle malattie e dalle sventure. Da allora l’uomo lo cercherà dappertutto e per farlo sfiderà i mostri del mare e il Fato … a volte lo troverà, altre si perderà nell’inseguirlo.
Ore sette del mattino, il pescatore sgomento vede fuggire il grande tonno che la sera prima aveva rinchiuso in un recinto di pietre nella pozza di mare creata dalla bassa marea. Si dispera, con quel pesce avrebbe sfamato la famiglia e il villaggio. Lui aveva preparato per bene le cose, l’esca e le grandi pietre per imprigionare il tonno, ma al sorgere del sole i marosi avevano travolto tutto e il pesce era fuggito. Cos’altro poteva fare? Nessuno conosceva una trappola migliore di quella che egli aveva realizzato. Il Dio del mare, ecco chi avrebbe potuto aiutarlo. Ma il Dio avrebbe ascoltato le suppliche di un povero pescatore che ben poco aveva da dargli in cambio? Un dono povero e le sue preghiere, questo solo poteva offrirgli. Così il giorno successivo si recò in riva al mare e affidò alle onde che provenivano da levante i fiori gialli della gariga siciliana raccolti sul finir della notte quando erano ancora madidi di rugiada. Vide i petali delle calendule allontanarsi spinti dai raggi del sole nascente, e subito dietro loro arrivò il tonno che aspettava. Questa volta aveva preparato un recinto di pietre più alto e solido, il pesce ci finì dentro e lui poté finalmente infilzarlo come i Lestrigoni fecero con i compagni di Odisseo [33]. Il dio del mare aveva accettato il suo dono. L’indomani sulla riva il pescatore innalzò un alto palo in cima al quale aveva scavato con la punta della lancia il volto del nume. Allo scendere della corrente di levante arrivarono due grandi pesci che finirono la loro corsa nel recinto di pietra benedetto dal Dio.
Letture tra le onde del mare
Se escludiamo il marlin de “Il vecchio e il mare”, la balena di “Moby Dick”, i delfini di “Orcynus Orca” e di sfuggita le acciughe dei “Malavoglia”, il Pesce spada in una nota canzone di Domenico Modugno, pochissimi abitanti del mare hanno avuto grande dignità letteraria come il Corallo e i Tonni. I primi sono in qualche modo protagonisti di eccelsi capolavori della letteratura mondiale, ma si è trattato solo di singole presenze in opere uniche. La loro vita “dotta” si è consumata nelle pagine di un libro. Il corallo e i Tonni invece hanno un posto e un ruolo a sè stante nella bibliografia mondiale. Saggi, trattati, studi antropologici e scientifici, rassegne iconografiche, mostre d’arte e preziosi relativi cataloghi, documentari televisivi, film e financo fiabe [34] hanno avuto quali ispiratori, protagonisti, scenografia, storia, ambientazione, la pesca del tonno e del corallo. Perché? Qual è il comune denominatore? La risposta non è difficile seppure si presti a molteplici interpretazioni.
Tonni e coralli possono essere ricchezza o rovina per chi li cerca, e su questa dicotomia nei millenni si sono sviluppate le storie avventurose in cui l’Uomo si è sempre ritrovato a sfidare la Natura, uno dei motivi fondativi della narrazione epica. Odisseo non fronteggiava forse quotidianamente gli irosi dèi? Il suo multiforme ingegno gli permise di sfuggire alle loro ire e proseguire nel suo viaggio carico di nostalgia. Così il corallaro si è trovato a contrapporsi a Medusa che cercava di trasformarlo in pietra perpetuando il mito di Perseo, e il rais ha inventato l’artificio per placare il furore di Borea impegnato ad affondare le sue muciare invocando l’aiuto delle potenze numinose sensibili ai suoi messaggi di rispetto e sottomissione. Il Mito si è incrociato col Rito nei mari della memoria e insieme hanno costruito il castello della conoscenza mediterranea, crocevia di saperi e culture.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
1) Roberto CALASSO, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, 1988: Cap. I, passim
2) “Speciali” sono definite alcune particolari attività alieutiche nella periodica “Relazione” che la Marina Mercantile Italiana pubblica, pur con diverse interruzioni, dal 1885 al 1930: pesca del tonno, del corallo, delle spugne, delle sardelle e alacce. Cfr. Maurizio GANGEMI, Pesche “speciali” in Sicilia tra Otto e Novecento …” in G. Doneddu – A. Fiori (a cura di) “La pesca in Italia tra età moderna e contemporanea”, Edes, 2003: 539-segg.
3) Ricchissima è la letteratura sulle “truvature”, leggende plutoniche che rimandano a tesori nascosti sotto terra, spesso frutto di orrendi misfatti, che si possono conquistare solo superando difficili e rischiose prove (così il tesoro viene “spegnato”)
4) Jean-Claude SCHMITT, Mito e storia nell’Occidente medievale, in “Nuove Effemeridi”, Guida, anno IV n.14/1991: 49
5) Antonino CUSUMANO, La memoria del mare, in “Nuove Effemeridi”, Guida, anno VIII n. 30/1995: 8
6) Avere partecipato alla pesca del corallo e del tonno principalmente per passione e non solo per motivi economici mi ha permesso di coglierne gli aspetti più belli e “colti”, riportati poi in numerose pubblicazioni
7) Ninni RAVAZZA, Il mozzo e l’ammiraglio, Magenes, 2024: Esergo
8) Antonino CUSUMANO, Sirene, la voce del mito, in N. Ravazza “Sirene di Sicilia”, Magenes, 2010: 11
9) “Pettata”: parete verticale sommersa, falesia sottomarina. È l’habitat ideale del Corallium rubrum
10) Gianni ROGHI, La febbre rossa, in “Mondo Sommerso” n. 6 anno VIII, 1966
11) ibidem
12) “Incanto” nella leggenda delle truvature è l’anima (spesso un Moro) messa a guardia del tesoro
13) Narcosi da aria compressa o ebbrezza da profondità: alterazione reversibile della coscienza provocata dall’effetto anestetico di alcuni gas respirati a pressioni superiori a quella atmosferica. Si manifesta a partire dai 30 metri circa
14) Epopea di Gilgamesh: 258-301
15) OVIDIO, Metamorfosi, l. IV
16) ibidem
17) Antonino BUTTITTA, Editoriale, in “Nuove Effemeridi”, Guida, anno IV n.14/1991: 2
18) G. ROGHI cit.
19) Paolo BENCINI, Un alone di luce giù nel blu, Quick, 2023: passim
20) TEOCRITO, Idilli, XXI “I pescatori”
21) Sergio TODESCO, L’albero di sangue. Divagazioni antropologiche sul corallo, in N. Ravazza (a cura di) “Un fiore dagli abissi”, Pro loco San Vito lo Capo, 2006: 211
22) Antica rima siciliana (XVII sec.) riportata da F.M.E. e G, MARCHESE DI VILLABIANCA, in Le tonnare della Sicilia, ms del XVIII sec. qui nella edizione Giada, 1986, a cura di Giovanni Marrone: 52; successivamente anche da G. PITRÈ in Usi e costumi. Credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo 1889: 517
23) I cavi, recentemente di acciaio rivestito da fibra vegetale, che mantengono in superficie le reti della tonnara grazie ai galleggianti a essi strettamente legati
24) Giuseppe PITRÈ, La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, Palermo 1912: 375
25) Francesco CETTI, Anfibi e pesci di Sardegna, in “Storia Naturale di Sardegna” Sassari 1778, qui nella edizione a cura di A. Mattone e P. Sanna, Ilisso, 2000: 422
26) cfr. Macrina Marilena MAFFEI, La tonnara di Procida nel racconto dell’ultimo rais in N. Ravazza (a cura di) “La terra delle tonnare”, Pro Loco San Vito lo Capo, 2000: 90; analoga tradizione veniva perpetuata nella tonnara di Scopello (testimonianza raccolta da N. Ravazza in occasione di un incontro con alcuni tonnaroti in data 1 febbraio 2006)
27) La circostanza è riportata in Ninni RAVAZZA, Diario di tonnara, Magenes 2005-2019: 186-segg.; idem, L’occhio in cima all’albero, Magenes 2022: 111-segg.
28) Canto dei tonnaroti di Pizzo Calabro, in Le Tonnare di Pizzo, Jaca Book, 1991: 10
29) Per un esauriente panorama dei riti religiosi e folcloristici in tonnara cfr. : Giuseppe PITRÈ, Usi e costumi cit.: 515-segg.; Ninni RAVAZZA, Diario di tonnara cit.; Giovanni ZOPPEDDU, Diario di tonnara, film in selezione alla Festa del Cinema di Roma 2018 (tratto dall’omonimo libro)
30) Raimondo SARÀ, Tonni e Tonnare, Libera Università di Trapani, 1983: 71
31) cfr. Gabriella D’AGOSTINO, I simboli delle barche, in “Nuove Effemeridi”, Guida, anno IX n. 34/1996
32) Diario del rais Vincenzo Oliva in La Tonnara di Scopello, tesi di laurea di Marcella Oliva, Università degli Sudi di Palermo, Facoltà Lettere e Filosofia, a.a. 1977-78
33) Odissea, X: 124
34) Riccardo BACCHELLI, Lo sa il tonno, Isbn Edizioni, 2010.
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Ninni Ravazza. Giornalista e scrittore, è stato subacqueo delle tonnare siciliane e sommozzatore corallaro. Ha organizzato convegni e mostre fotografiche sulla cultura del mare e i suoi protagonisti. Autore di saggi e romanzi, per l’Editore Magenes (Milano) ha scritto: Corallari (2004); Diario di tonnara (2005 e 2018); Il sale e il sangue. Storie di uomini e tonni (2007); Il mare e lo specchio. San Vito lo Capo, memorie dal Mediterraneo (2009); Sirene di Sicilia (2010; finalista al “Premio Sanremo Mare” 2011); Il mare era bellissimo. Di uomini, barche, pesci e altre cose (2013); Il Signore delle tonnare. Nino Castiglione (2014); San Vito lo Capo e la sua Tonnara. I Diari del Secco, una lunga storia d’amore (2017); Storie di Corallari (2019); L’occhio in cima all’albero (2022; finalista al Premio letterario “Carlo Marincovich” 2023); Il Mozzo e l’Ammiraglio (2024, in finale al Premio letterario “Carlo Marincovich” 2025) . Dal libro Diario di tonnara è stato tratto l’omonimo film diretto da Giovanni Zoppeddu, prodotto dall’Istituto Luce Cinecittà, in selezione ufficiale alla Festa del Cinema di Roma 2018, di cui l’Autore è protagonista e voce narrante. Tra gli altri suoi libri dedicati al mare: L’ultima muciara. Storia della tonnara di Bonagia (Trapani, 1999-2000-2004); La terra delle tonnare (Trapani, 2000); Il tonno fatato (Sassari, 2003); Un fiore dagli abissi. Il corallo: pesca, storia, economia, arte, leggenda (San Vito lo Capo, 2006); Pesca, stabilimenti e trasformazione del pescato in provincia di Trapani (Università di Bari, 2006); Epos, eros e thanatos. Il mondo immutabile della tonnara (Venezia, 2010); L’ultimo rais della tonnara Saline. Storia di Agostino Diana (Sassari, 2011); I Suoni del Lavoro. Canti e preghiere dei pescatori siciliani (San Vito lo Capo, 2012); Nicolino il pescatore (Palermo, 2018); I tonni, i cavalier, le feste, gli amori. Storia della tonnara di San Giuliano (Trapani, 2019); Rais. Una storia di mare (Trapani, 2020); Cianchino. L’isola delle illusioni (Roma, 2023, finalista al Premio letterario “Carlo Marincovich” 2024). Ha vinto il Premio Nazionale di Giornalismo “Pippo Fava” (1987); il Premio Nazionale “Un video per un Museo” dell’HDS Italia (2001), sezione Mediterraneo, con il video “La tonnara nascosta”; il Premio Internazionale “Orizzonti Mediterranei” 2002 per il sito internet www.cosedimare.com; nel 2018 per il suo impegno in favore del mare gli è stato conferito il Premio Unesco.
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