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Giudeo-arabo tra identità, relazione e incontro

Frammento della Genizah del Cairo redato in giudeo-arabo in alfabeto ebraico

Frammento della Genizah del Cairo redatto in giudeo-arabo in alfabeto ebraico

di Alessandro Perduca 

«È indispensabile, secondo me, che gli studi orientalistici assumano anche agli occhi della generalità la loro funzione effettiva, che è quella di integrare la visione totale dello sviluppo spirituale della nostra civiltà».

Giorgio Levi Della Vida [1] 

Le giudeo-lingue offrono una prospettiva di studio interessante e articolata. Come nota Benjamin Hary mentre le lingue vengono tradizionalmente studiate e analizzate geneticamente per famiglie e derivazione o tipologicamente per struttura sintattica, le giudeo-lingue sono da inserirsi in un quadro che comprende al contempo fattori storici, religiosi e sociolinguistici [2]. La loro stessa definizione ha occupato a lungo gli studiosi perché pare, ad esempio, molto improbabile trovare criteri che le accomunino in un insieme omogeneo. Definite di volta in volta come lingue a vario titolo funzionali alla vita ebraica in un dato territorio, lingue di contatto formatesi a seguito della diaspora, veicoli di espressione della vita ebraica, costituiscono un insieme variegato e complesso con tratti comuni e differenze specifiche in senso parimenti diacronico e sincronico.

Risultato della dispersione, migrazione e diffusione degli ebrei in Asia ed Europa a far tempo dal primo secolo dell’Era volgare, esse offrono testimonianza di un processo complesso e multiforme di inserimento, assimilazione e affermazione identitaria. L’adozione di norma della scrittura ebraica ne attesta l’appartenenza confessionale e la presenza di elementi ebraici e aramaici nel lessico, sintassi e morfologia, la relazione con il corpus testuale della tradizione. Dal punto di vista della autopercezione, i parlanti ne hanno variamente testimoniato il grado di incomprensibilità con le lingue del territorio dove le comunità ebraiche erano inserite e all’esterno venivano percepite come incomprensibili in virtù dell’adozione della scrittura ebraica e delle loro peculiarità lessicali e morfosintattiche.

La loro catalogazione e classificazione è relativamente recente e ha preso avvio in un periodo che già iniziava a testimoniare il declino e la scomparsa a contatto con i processi di assimilazione e trasformazione della modernità. Sparso in un continuum geografico che spazia dalla Penisola iberica al Caucaso e all’Iran, questo gruppo linguistico comprende circa sedici lingue, tra le quali Yiddish, giudeo-spagnolo (variamente conosciuto come Judezmo o Ladino) e la galassia giudeo-araba si segnalano storicamente come le più significative, conosciute e studiate. L’espulsione degli ebrei dalla Penisola iberica nel 1492 e le migrazioni dall’Europa centrale e orientale hanno diffuso alcune varianti fino al continente americano e al Sud Africa [3].

Versione in arabo con caratteri ebraici della Guida di Maimonide

Versione in arabo con caratteri ebraici della Guida di Maimonide

La definizione di giudeo-arabo si applica alla variante di arabo utilizzato dagli ebrei e ai suoi caratteri distintivi rispetto alle comunità religiose circostanti. Si tratta di per sé di una entità disomogenea e si riferisce alle varianti sia scritte sia parlate della lingua nello spettro geografico della presenza ebraica laddove si parla arabo.

Nello studio della storia che precede l’avvento dell’Islam, la presenza di Ebraismo e Cristianesimo assume sempre più una fisionomia definita e gli ebrei in Arabia parlavano sicuramente arabo prima della diffusione del messaggio di Muḥammad, ma non è stata trovata alcuna prova che il loro arabo avesse un carattere proprio [4]. Dopo le conquiste islamiche del VII secolo, ebrei e cristiani, pur mantenendo le proprie religioni, adottarono gradualmente l’arabo come lingua principale, soprattutto nei centri urbani. Tuttavia, le comunità ebraiche rurali della Mesopotamia mantennero l’aramaico per secoli, con alcuni gruppi isolati che lo preservano fino ad oggi. Per i primi tre secoli dell’era islamica, gli ebrei di quell’area continuarono a scrivere in ebraico e aramaico, anche se l’arabo iniziò ad imporsi. Mette conto ricordare che l’aramaico e l’ebraico furono mantenuti proprio in quelle zone che erano sede delle accademie di studio e conservazione della tradizione rabbinica e che avrebbero dato vita alla redazione del Talmud babilonese (Sura, Nahardea e Pumbedita) [5]. I primi testi giudeo-arabi compaiono nell’VIII e IX secolo scritti in caratteri ebraici.

Il giudeo-arabo può essere periodizzato cronologicamente. Hary propone una distinzione in cinque fasi: giudeo-arabo preislamico, giudeo-arabo antico (dall’VIII al IX secolo), giudeo-arabo classico (dal X al XV secolo), tardo giudeo-arabo (dal XV al XIX secolo) e giudeo-arabo moderno (a far tempo dal XX secolo) [6]. Nella prima fase esisteva sicuramente una presenza di vocaboli di origine ebraica ed aramaica legata agli ambiti cultuali e religiosi, ma non consta lo sviluppo di una letteratura. Solo dopo la conquista islamica iniziò uno sviluppo dialettale autonomo e un utilizzo della lingua scritta. Nel secondo periodo la produzione scritta consiste fondamentalmente di materiale epistolare. Il periodo classico si può far iniziare con la traduzione del Pentateuco ad opera di Sa‛adyah ben Yōsēf al-Fayyūmī (882-942). Questo testo che si imporrà come modello paradigmatico inaugura il periodo classico della lingua chiamata anche giudeo-arabo medievale; tale lingua, pur in presenza di idiotismi dialettali e fenomeni di ipercorrettismo, segue il modello della lingua araba classica.

La produzione letteraria è vastissima in ogni campo: filosofia, teologia, esegesi, grammatica e filologia, legge religiosa, ritualistica fino a comprendere corrispondenza commerciale e privata. Costituisce la lingua legata al floruit della produzione filosofica e teologica del medioevo ebraico: la lingua utilizzata in vari registri da Ibn Paqūda (seconda metà dell’XI secolo), Ibn Ezra (1055- 1138 ca), Yehuda ha-Levi (1085-1141), Maimonide (1138-1204). Il giudeo-arabo utilizzato in questa fase mostra una duttilità d’uso che consiste nella relazione fra lingue (arabo ed ebraico) e fra registri differenti di lingua, afferenti rispettivamente all’arabo classico e al giudeo-arabo. Valgano due esempi. Abū Ibrahīm Iṣḥāq ibn Barūn (morto a Malaga nel 1128) è l’autore di un’opera di comparazione linguistica e di filologia semitica intitolata Kitābu al-muwāzana bayna al-luġati al-‘ibrāniyya wa al-luġati al-‘arabiyya (il libro del confronto fra le lingue ebraica ed araba); in questo testo l’autore, oltre a mostrare una conoscenza approfondita del Corano e della poesia araba, fa interagire arabo, ebraico e giudeo-arabo che utilizza per illustrare la grammatica ebraica a partire dalle categorie della tradizione grammaticale dell’arabo classico. Maimonide, padrone del registro classico, lo adatta a seconda del pubblico di lettori al quale si rivolge: le opere mediche, ad esempio, appartengono al registro arabo classico, mentre le lettere convergono verso il giudeo-arabo colloquiale.

s-d-goitein-una-societa-mediterraneaIl XV secolo testimonia la quarta fase, la penetrazione di elementi dialettali del parlato nella lingua scritta e vede la nascita dello šarḥ, sostanzialmente una parafrasi di testi sacri o liturgici ebraici in giudeo-arabo. Concepito per un pubblico digiuno di ebraico e aramaico appresi nei curricula di studi religiosi, offre una messe di opere divulgative, religiose, liturgiche, omiletiche e di narrativa popolare. La fase del giudeo-arabo moderno è caratterizzata da un’estensione dello šarḥ e dalla creazione di una vera e propria letteratura popolare di istruzione e intrattenimento che linguisticamente si caratterizza per una massiccia presenza delle forme della lingua parlata in contesti informali e quotidiani. Hary ha coniato il termine ‘multiglossia’ [7] per indicare lo spettro di variazione linguistica fra le varie fasi del giudeo-arabo: spettro che si concretizza in un’aderenza ipercorrettiva al modello classico nella fase medievale per convergere verso una base dialettale sempre più evidente nelle fasi posteriori. Hary definisce compito dello studioso quello di «differentiate among the different layers of that variety: the layer of Classical Arabic elements, the layer of the šarḥ, the layer of colloquial elements that penetrate the written language, and the mixed layer of colloquial and standard elements» [8].

L’uso dell’alfabeto ebraico, pur in presenza di un fenomeno linguistico non omogeneo, ha caratterizzato inconfondibilmente il giudeo-arabo scritto distinguendolo come tradizione unica all’interno delle comunità ebraiche di lingua araba e costituisce il punto di partenza per le analisi delle peculiarità di questo idioma. Tale uso, «spesso spiegato, se non altro a livello manualistico, come un fenomeno di enclavizzazione religiosa e di conservazione di un sistema grafico che la tradizione rabbinica aveva sacralizzato allo scopo di preservarne l’identità» [9], ha una sua problematicità, così come testimoniano i documenti presenti nella Genizah del Cairo [10]. In un periodo compreso fra l’XI e il XIX essa è servita come deposito dei manoscritti non più in uso. Le autorità rabbiniche avevano decretato la sacralità della scrittura a partire dalla santità della lingua e stabilito, oltre alle norme per la stesura dei rotoli della Scrittura, «il fatto che un documento scritto in alfabeto ebraico, una volta divenuto obsoleto o inutilizzabile, non può essere distrutto ma deve essere abbandonato alla sua naturale decadenza fisica» [11].

Un millennio circa di depositi testuali eterogenei permette agli studiosi di valutare aderenze e distanze dalla prescrizione religiosa, la ricostruzione di un arco amplissimo di vita ebraica e restituisce un’immagine variegata e sorprendente: non solo consta la riscrittura su testi sacri, ma la presenza di manoscritti della Bibbia con alfabeto arabo e persino una copia del Corano in caratteri ebraici. L’uso dell’alfabeto arabo per le scritture ebraiche è stato ricondotto alla polemica della comunità caraita nei confronti delle autorità rabbiniche e testimonia una vivace dialettica fra innovazione e tradizione nell’approccio alla tradizione scritta, lontano dalle dinamiche della modernità, ma possibile solo in un ambiente fecondo di scambi culturali e dialogo fra identità.

Esiste dunque un mantenimento prevalente del sistema di scrittura che attraversa le fasi storiche dello sviluppo del giudeo-arabo. L’ortografia del giudeo-arabo antico si caratterizza come spelling fonetico mutuato dalla pronuncia dell’arabo a partire dalla pratica scribale utilizzata per l’ebraico rabbinico e l’aramaico e lontana da quella dell’arabo classico [12]. Lo si nota nella resa difettiva della trascrizione delle vocali lunghe: salām סלם («pace») o in quella in scriptio plena delle vocali brevi /i/ e /u/ al-ḥikmah אלחיכמה («sapienza»). Le lettere arabe ḍāḍ e ẓā’, non avendo equivalente in ebraico, vengono rese con la sola dalet; la lām dell’articolo determinativo non viene scritta quando è assimilata con le lettere solari (ad esempio: אסלם al-salām); la tā’ marbūṭa viene rappresentata con taw nella pronuncia dello stato costrutto. Il fatto che la grafia rispecchi di fatto la pronuncia vernacolare può essere valutato dal fatto che tenga in conto il fenomeno della ’imāla (l’innalzamento palatale della ā di fronte a vocali palatali in alcuni dialetti).

Haggadah con traduzione in giudeo-arabo

Haggadah con traduzione in giudeo-arabo

Il giudeo-arabo utilizzato a partire dal X secolo presenta una grafia che si attaglia alle convenzioni dell’arabo classico. Le vocali lunghe vengono rappresentate con segni vocalici mentre quelle brevi senza. Per restare agli esempi precedenti: salām סלאם e al-ḥikmah אלחכמה. La lām dell’articolo viene rappresentata come nella grafia classica anche laddove vada assimilata alla pronuncia della consonante solare seguente. La tā’ marbūṭa viene resa con he. Le lettere arabe ḍāḍ e ẓā’ sono rappresentate con ṣade e ṭet provviste di un punto diacritico sovrastante a imitazione delle lettere arabe che rappresentano i suoni enfatici corrispondenti, così come le lettere ḵā’ e ġayn sono rappresentate dai grafemi ebraici kaf e gimel con l’aggiunta spesso di un punto diacritico. Il giudeo-arabo tardo, posteriore al XV secolo, abbandona l’imitazione della grafia classica per tornare a convenzioni mutuate dall’ebraico rabbinico e dall’aramaico come, ad esempio, la finale lunga /ā/ rappresentata con he secondo la grafia ebraica e aramaica e introduce come tratto caratteristico la grafia con doppio waw e doppio yod delle consonanti interne /y/ e /w/ per distinguerle dalle matres lectionis.

Secondo gli studiosi le caratteristiche della grafia tardo giudeo-araba rispecchiano usi locali variegati desumibili da un ampio corpus disteso su un’area geografia molto ampia nel quale riprese della grafia classica, tratti tipici del giudeo-arabo classico e grafia dell’ebraico rabbinico e dell’aramaico si compenetrano e si ibridano. Come bene illustra Geoffrey Khan, nel Medioevo la scrittura ebraica continuò a essere utilizzata nella tradizione letteraria ebraica e aramaica, mentre la lingua subì una evoluzione sua propria. L’adozione della scrittura araba da parte di alcuni ebrei caraiti riflette sociologicamente il loro grado di integrazione culturale con il mondo islamico, particolarmente intenso tra il X e il XIII secolo. I Caraiti [13], non legati alla tradizione rabbinica, scrissero opere in arabo classico utilizzando la scrittura araba, sebbene destinate a un pubblico ebraico. Nonostante, quindi, la forma linguistica fosse araba, argomenta Khan, il contenuto di questi testi era ebraico, rendendoli giudeo-arabi in termini di funzione comunicativa [14]. Tuttavia, la trasmissione testuale complicava la classificazione: alcuni testi in scrittura araba venivano copiati in caratteri ebraici e viceversa, rendendo difficile stabilire quale fosse la scrittura originale. Inoltre, gli ebrei spesso redigevano bozze in ebraico di documenti destinati a funzionari musulmani, ma la versione finale era in arabo, il che ne rendeva incerta la definizione.

La tradizione giudeo-araba fu influenzata da vari modelli, come dimostra l’adozione dell’ortografia giudeo-araba classica da parte di Sa‘adya Gaon nella sua traduzione del Pentateuco. Il fenomeno dell’uso della scrittura ebraica per testi arabi non fu limitato agli ebrei: alcune prime stamperie europee, ad esempio, la adottarono in assenza di caratteri arabi disponibili.

In sintesi, la definizione di giudeo-arabo dipende sia dalla forma linguistica che dalla funzione comunicativa, e il confine tra le due categorie rimane fluido a causa della trasmissione testuale e delle scelte ortografiche adottate nel tempo.

Haggadah in arabo con titoli ebraici

Haggadah in arabo con titoli ebraici

Il giudeo-arabo in ogni periodo della propria evoluzione ha mostrato una forte influenza dal dialetto arabo vernacolare parlato dagli ebrei nelle relative zone di insediamento, ma la lingua dei testi scritti è sempre stata ovviamente più complessa, unitaria e letteraria. La lingua del pensiero e della teologia medievali mirava a un livello linguistico aulico ispirato all’arabo classico o post-classico. Tuttavia, vi era una costante presenza di tratti dialettali nei testi, nonostante gli sforzi di aspirare ad una forma di arabo più raffinata e letteraria: ne risultava una lingua oscillante tra il vernacolare e l’arabo letterario, definita medioarabo. Il concetto di multiglossia proposto da Hary [15] intende fotografare questa situazione comunicativa e ricettiva della lingua, dove la quantità di elementi vernacolari variava a seconda del genere del testo e dell’intenzione comunicativa: come già ricordato per gli scritti di Maimonide, le sue lettere private contenevano molti più elementi dialettali rispetto ai suoi scritti letterari più formali, destinati a un pubblico erudito. La presenza di elementi dialettali nei testi giudeo-arabi aumentò e nei testi più tardi, soprattutto dopo il XV secolo, essi diventarono preponderanti, con variazioni regionali tra Egitto, Siria, Iraq e Nord Africa.

L’arabo post-classico e le varianti dialettali influenzarono fortemente il giudeo-arabo tardo. Due fenomeni interessanti sono rappresentati dall’ipercorrezione e dall’ipocorrezione. Nella prima spesso gli scrittori tentavano di correggere le forme dialettali sostituendole con forme dell’arabo classico, ma sovente fuori contesto e ricavandone usi che non erano corretti né nella lingua letteraria né nel dialetto parlato. Riprendendo gli esempi di Khan, nella frase lam yaktubūna («non hanno scritto») nella quale si esprimerebbe, secondo la regola classica, la negazione del passato con lam seguito dall’imperfetto iussivo, viene applicato in modo scorretto il suffisso plurale -ūna, dove, secondo l’arabo classico, ci si aspetterebbe yaktubū. Nell’ipocorrezione, lo scrivente tenta invece di correggere una forma dialettale, ma erra, creando una forma ibrida che non è corretta in nessuna delle due lingue. Un esempio è la parola bāqiyūn al posto della forma vernacolare corretta bāqiyīn (nei dialetti parlati il plurale sano -ūn è sostituito da īn) o della forma araba classica corretta bāqūn («i resti»). Anche il pronome relativo allaḏī in contesti vernacolari, invece della forma dialettale illi, rappresenta una pseudo-correzione, in cui allaḏī viene usato come una forma invariabile mutuata dal classico, ma senza la distinzione di genere e numero [16]. La regione in cui un testo veniva scritto influenzava significativamente la lingua, specie verso il periodo tardo. Nei testi medievali, come quelli della Genizah del Cairo, si riscontra una differenziazione regionale meno pronunciata, mentre nei testi giudeo-arabi egiziani successivi i testi presentano i dimostrativi dialettali , , dōl posposti al sostantivo (ad esempio: kitāb dā, «questo libro»), una sintassi propria del dialetto egiziano. Un tratto distintivo del giudeo-arabo è, come abbiamo rilevato, la presenza di numerose parole ebraiche e aramaiche, soprattutto in ambito religioso e legale. Le parole ebraiche venivano però adattate alla morfologia araba. I verbi ebraici venivano coniugati come verbi arabi seguendone le forme derivate e sostantivi ebraici assumevano forme di plurale arabo o adattavano forme di plurale fratto (ad esempio: sadādīr come plurale di siddūr, «libro di preghiera») in luogo dell’ebraico siddūrim.

A differenza della sua controparte scritta, il giudeo-arabo parlato costituisce una varietà complessa e disomogenea di dialetti che variano notevolmente a causa della dispersione geografica, dei modelli di migrazione storica e delle influenze sociali delle comunità ebraiche; esse parlavano dialetti distinti dai loro vicini musulmani e cristiani, influenzati da fattori come la migrazione, l’interazione culturale e la differenza religiosa. Questi dialetti rivelano tratti fonologici, morfologici e lessicali unici. Sviluppatisi dopo le conquiste arabe con le comunità ebraiche che adottarono l’arabo, essi hanno mantenuto tratti linguistici distinti anche se oggigiorno costituiscono una porzione assolutamente residuale, essendo molti dei parlanti emigrati in Israele dopo il 1948. Lo studio di questi dialetti si pone all’interno di differenze dinamiche, primariamente la differenza fra dialetti sedentari e beduini che si è intersecata con la traiettoria storica dell’insediamento delle comunità ebraiche nel mondo arabo posteriore alla conquista islamica.

j-blau-a-grammar-of-mediaeval-judeo-arabicI dialetti arabi beduini e sedentari differiscono nella pronuncia, nella grammatica e nel vocabolario a causa di fattori storici e geografici. I dialetti beduini, parlati dalle tribù nomadi nei deserti e nelle aree rurali, conservano caratteristiche più classiche, come il suono /q/ in qalb («cuore»), mentre i dialetti sedentari, che si trovano nelle città e nelle comunità insediate, spesso lo portano a /ʔ/ (ʔalb) o /g/ (galb). Anche la pronuncia di jīm varia, con i dialetti beduini che usano /dʒ/ o /ɡ/ (dʒamal), mentre i dialetti sedentari possono usare /ʒ/ (žamal) o /ɡ/ (gamal «cammello», in arabo egiziano). Grammaticalmente, i dialetti beduini conservano forme classiche, come il prefisso b- per le forme di imperfetto (binaktib, «scriviamo»), mentre i dialetti sedentari spesso semplificano o modificano queste forme (bnaktib o mniktib). Anche i pronomi e i suffissi possessivi tendono ad essere più conservatori nel discorso dei beduini. Per quanto riguarda il vocabolario, i dialetti beduini conservano parole arabe più antiche, mentre i dialetti sedentari incorporano più vocaboli stranieri a causa del commercio e dell’influenza urbana. Socialmente, i dialetti sedentari, specialmente quelli urbani, sono spesso stimati come più prestigiosi a causa della loro associazione con l’istruzione e le relazioni professionali, mentre i dialetti beduini sono talvolta visti come più tradizionali o rurali. Nonostante queste differenze, entrambi i gruppi dialettali sono reciprocamente comprensibili a vari livelli e riflettono la ricca diversità linguistica del mondo arabofono [17].

Gli ebrei assumevano varietà urbane, mentre i musulmani adottavano varietà beduine. Le comunità ebraiche, inoltre, essendo perlopiù urbane, tendevano a uniformarsi alla lingua dei coloni musulmani nelle principali città. In alcuni casi, gli ebrei erano anche agricoltori, come nel nord dell’Iraq. Le differenze tra dialetti ebraici e non ebraici sorsero a causa dei diversi modelli di migrazione, della segregazione sociale e dell’influenza di elementi ebraici e aramaici. Il grado di differenza tra i dialetti ebraici e islamici variava a seconda della regione. In alcuni luoghi, i dialetti ebraici hanno conservato caratteristiche arcaiche perse nell’arabo islamico, in altri, i parlanti ebrei evitavano attivamente alcuni marcatori linguistici ebraici considerandoli di minor prestigio sociale. Alcuni dialetti hanno anche incorporato influenze spagnole, berbere e curde a causa delle migrazioni storiche e delle interazioni con le popolazioni vicine, creando variazioni interne alle medesime varianti sedentarie utilizzate da ebrei e non ebrei: è questo il caso degli insediamenti dal Nord Africa all’Egitto in epoca medievale o dell’arrivo degli ebrei dalla Spagna dopo il 1492.

Fra i dialetti ebraici sedentari e i dialetti musulmani di tipo beduino esistono differenze fonologiche: il dialetto ebraico di Baghdad conserva /q/ (qəltu «ho detto»), mentre i dialetti islamici usano /g/ (gilit, «ho detto»); usano spesso una fricativa velare /ġ/ per la apicale /r/, in particolare nella posizione finale; presentano ’imāla (innalzamento palatale della ā lunga) più frequentemente dei dialetti islamici. A livello morfologico, ad esempio, il suffisso del perfetto della prima persona singolare, nei dialetti ebraici è -tu (qəltu), mentre nei dialetti islamici è -it, mentre il suffisso possessivo singolare di terza persona è -u nella variante ebraica e -a in quella islamica.

Esistono poi differenze fra i dialetti sedentari ebraici e islamici: a Fez, il dialetto ebraico unisce /s/ e /š/, /z/ con /ž/ mentre il dialetto islamico no; i dialetti ebraici spesso sostituiscono /q/ con la glottidale /ʾ/ o la presenza di rotiche uvulari in alcuni dialetti dove i dialetti islamici usano la r trillata o a colpo secco. Sempre a Fez, i dialetti ebraici fondono il perfetto femminile della terza persona con le forme della prima persona (ktəbt, «ha scritto»), mentre quelli islamici mantengono forme distinte (kətbət); i dialetti ebraici mancano di alcuni elementi aumentativi nella formazione dei verbi che si trovano nei dialetti islamici. In alcune aree, come il nord dell’Iraq, i dialetti ebraici hanno sviluppato innovazioni convergendo verso le lingue di contatto: curdo e neo-aramaico. Le differenze lessicali si fanno marcate nell’uso riconducibile al culto, alla vita comunitaria, al rito e allo studio della tradizione, ma tutto dipende contestualmente dal grado di istruzione, cultura religiosa e posizione sociale del parlante, laddove innovazioni e arcaismi possono fare la loro comparsa.

Manoscritto medico in giudeo-arabo e grafia ebraica

Manoscritto medico in giudeo-arabo e grafia ebraica

Con la migrazione degli ebrei di lingua araba in Israele, elementi dei loro dialetti hanno influenzato l’ebraico israeliano moderno: i verbi di origine araba sono stati adattati all’ebraico e le strutture sintattiche arabe influenzano le espressioni ebraiche moderne come le strutture preposizionali nei dialetti giudeo-arabi hanno influenzato l’ebraico colloquiale. Molte comunità ebraiche svilupparono anche lingue segrete che mescolavano elementi lessicali ebraici e aramaici riadattati a costrutti grammaticali arabi. Gli orafi ebrei caraiti egiziani usavano yaffet («dare un buon prezzo», da יפה yafe, «buono, gentile») come linguaggio in codice; la medesima cosa valeva per tabù linguistici o espressioni offensive che dovessero passare inosservate. A titolo esemplificativo delle dimensioni linguistiche, sociologiche e identitarie presenti nel giudeo-arabo, riportiamo un breve excursus sul lessico del giudeo-arabo parlato in Egitto in epoca moderna, scegliendo fra gli esempi riportati dall’analisi di Gabriel M. Rosenbaum [18]. In Egitto, musulmani e cristiani copti utilizzano un dialetto pressoché identico [19]. Le variazioni locali si formano per fattori geografici piuttosto che etnici. Gli ebrei del Cairo e di Alessandria parlano un’unica lingua, sebbene influenzati dai dialetti circostanti, custodiscono elementi distintivi. Ci sono tratti fonetici, fonologici, grammaticali e sintattici comuni nonostante il contesto di comunicazione, gli elementi lessicali particolari, invece, si rivelano principalmente nelle interazioni tra ebrei.

Nel XX secolo, circa il 98% degli ebrei egiziani viveva nelle grandi città, Cairo e Alessandria. Oggi, la comunità ebraica è quasi scomparsa in Egitto. Inoltre, il numero di quelli che parlano giudeo-arabo egiziano all’estero è in lenta diminuzione, con la lingua che rischia di estinguersi. Il vocabolario utilizzato dagli ebrei in maniera esclusiva contiene ovviamente parole ebraiche e aramaiche, ma anche parole che vengono usate in modo diverso dai non-ebrei, parole derivate dall’italiano, dal francese e dal giudeo-spagnolo. Le strutture in cui questo lessico si incorpora sono quelle del dialetto arabo egiziano. L’organo centrale della comunità è designato variamente con el-kumminutē o el-komminutā rispettivamente dal francese communauté e forse dall’italiano comunità; bēt es-sinyōr, suo sinonimo, tradisce l’origine sefardita dove sinyōr designa il rabbino capo e bēt la sua sede in un sintagma arabo con assimilazione dell’articolo el- con la lettera solare seguente. Alcune parole ed espressioni sono altrimenti puramente arabe come ’erāya che significa «lettura» e si riferisce per i musulmani alla declamazione del Corano, mentre per gli ebrei designa un servizio funebre. Gli arabi del Cairo utilizzano gabal «montagna» con l’articolo el-gabal per indicare il cimitero. Per il sabato, šabbāt convive con l’arabo sabt e il suo derivato sabbet, ad esempio nell’espressione taʽāla sabbet ʽandena, («vieni a trascorrere lo šabbāt con noi»). Un’espressione come ʽid el-wezza («giorno dell’oca») non trova comprensibilità fuori dall’uso ebraico, indicando la festa di Shavuot attraverso un uso culinario.

Ricorrono espressioni in arabo dialettale ricalcate sull’ebraico, come l’VIII forma verbale araba ’eṭṭabal riferito all’immersione di una donna nel bagno rituale ricavato dalla radice ebraica טבל ṭbl. Il vocabolario inerente alla vita religiosa, al culto e alle cerimonie è ovviamente di origine ebraica: purīm/burīm, la festa di Purim, che mostra un’oscillazione nella pronuncia, non esistendo la bilabiale sonora nel dialetto egiziano. Parole ed espressioni ebraiche vengono utilizzate in modo difforme rispetto all’ebraico: ḥaḫām, («saggio, studioso») è usato per «rabbino»; un’espressione come ’adonāy ’emēt, (lett. «Dio è verità / veritiero») non esiste in ebraico e viene usata come esclamazione nel senso di «davvero?!». Un’espressione come Ḥazzān bistanna ’addīš («un cantore in attesa del Kaddish») vuole intendere chi attende un’opportunità. Al cripto-gergo degli orafi caraiti abbiamo già fatto riferimento, ma esistono parole per designare gli appartenenti ad altre religioni: gōy, definizione utilizzata nel mondo ebraico per riferirsi a non-ebrei e solitamente tradotto con «gentile», si riferisce ai musulmani, gli ebrei si riferiscono a se stessi come benē ‘ammenu, («figli del nostro popolo») e chiamano i cristiani ‘arerīm, plurale ebraico di ‘arēr e derivato dall’ebraico ‘arēl, («non circonciso»); un altro esempio di cripto-lingua è šatta’ dalla radice שתק štq, «tacere», per tacitare in presenza di non-ebrei. Le formule di giuramento comprendono sintagmi mistilingui: arabo we, wu, wa, be, («giuro per, per la vita di, per»), o weḥyāt, («per la vita di…») con aggiunta di una componente ebraica; be’emet ha-torā («per la verità della Torah»), wes-sēfer, («giuro sul libro, [la Torah]»); weḥyāt el-harambām («per la vita di Maimonide»).

Poesia (qasida in giudeo-arabo marocchino)

Poesia (qasida in giudeo-arabo marocchino)

Concludiamo questa breve rassegna tratta dal saggio di Rosenbaum con una tenera cantilena che si sussurra ai bimbi per farli addormentare: ḫud el-bezza weskut / ḫud el-bezza wenām / ummak er-robbīsa / wa-būk el- ḥaḫām, («prendi il capezzolo e quietati, prendi il capezzolo e dormi, tua madre è la moglie del rabbino e tuo padre è il rabbino»), che altro non è che l’ebraicizzazione di ḫud el-bezza weskut / ḫud el-bezza wenām / ummak es-sayyeda / wa-būk el- imām («prendi il capezzolo e quietati, prendi il capezzolo e dormi, tua madre è una signora e tuo padre è l’imam»), cantilena utilizzata dalle madri musulmane. Questo excursus, seppur limitato, mostra come il giudeo-arabo abbia attraversato frontiere di inclusione e esclusione, prossimità e lontananza, logiche di imprestito linguistico e di affermazione identitaria che lo hanno reso un mezzo linguistico duttile e sorprendentemente agile.

Il ruolo del giudeo-arabo come lingua a sé stante è stato un argomento discusso ampiamente per molti anni. Alcuni, come David Cohen e Israel Friedlander, sostengono che il giudeo-arabo non sia una lingua indipendente, ma piuttosto una variante dell’arabo, influenzata dalla cultura ebraica e dal vocabolario religioso, creando un’esperienza di immersione nella cultura e nella religione. Altri, come Joshua Blau e Norman Stillman, sfidano questa visione sottolineando le caratteristiche linguistiche, socioculturali e ortografiche uniche del giudeo-arabo, che lo rendono un linguaggio unico e affascinante [20]. Questi studiosi mettono in luce la sua scrittura distintiva, le influenze lessicali ebraiche e aramaiche, e il suo uso all’interno delle comunità ebraiche, sostenendo che funziona come qualcosa di più di un semplice dialetto. Inoltre, le differenze strutturali nella pronuncia, nel vocabolario e nella grammatica tra il giudeo-arabo e l’arabo parlato dai musulmani rafforzano ulteriormente la sua unicità, come se fossero due mondi a sé stanti. La presenza di testi scritti in giudeo-arabo per il pubblico ebraico, con contenuti incentrati su temi ebraici, conferma ulteriormente la sua classificazione come lingua o etnoletto a sé stante, piuttosto che un semplice dialetto dell’arabo.

Inoltre, l’evoluzione storica del giudeo-arabo, dal giudeo-arabo preislamico al giudeo-arabo moderno, mostra una traiettoria linguistica plasmata da fattori culturali, religiosi e geografici che si intrecciano in modo unico e affascinante. L’influenza dell’ortografia ebraica nelle fasi successive del giudeo-arabo cerca di preservare l’identità ebraica in ambienti prevalentemente arabofoni, con un’attenzione particolare alla lingua e alla cultura dell’identità religiosa.

Grammatica ebraica per studenti di lingua araba

Grammatica ebraica per studenti di lingua araba

Il fenomeno della traduzione parola per parola dai testi sacri ebraici in giudeo-arabo, spesso a scapito delle convenzioni grammaticali arabe, rivela la profonda connessione tra lingua e tradizione religiosa, creando un’esperienza di immersione nella cultura e nella spiritualità ebraica. Inoltre, gli studi sui dialetti giudeo-arabi, come quelli parlati a Fez e Baghdad, dimostrano che spesso erano incomprensibili per i parlanti arabi non ebrei, rafforzando ulteriormente il loro status di entità linguistica a sé stante. Le ricerche recenti hanno riconosciuto sempre più il valore del giudeo-arabo, sottolineando il suo ruolo di lingua di comunicazione e di simbolo culturale nelle comunità ebraiche di diverse epoche storiche. Hary e Martin Wein hanno persino introdotto una categoria classificatoria per le lingue delle comunità religiose: religioletto [21]. Partendo dal presupposto che la religione e il confronto con essa siano un fondamento dell’attività comunicativa, le varietà linguistiche utilizzate in forma scritta o orale da una comunità in tempi e luoghi specifici assumono la caratteristica di varietà specifica e di autonomia tipologica. Esiste in questa considerazione la descrizione di atti linguistici legati a circostanze pragmatiche (migrazione, assimilazione, enclavizzazione, trasmissione, conservazione, solo per citarne alcune) che tendono a rendere autonoma una concrezione linguistica. Questi autori propongono tratti distintivi per il giudeo arabo come elemento autonomo dell’insieme definito delle giudeo-lingue, segnatamente e in sintesi: l’uso dell’alfabeto ebraico; l’incorporazione di elementi ebraici e aramaici in una complessa relazione lessicale, grammaticale e sintattica; la capacità traduttiva della lingua in grado di rendere accessibili testi cristiani e musulmani; conservazione e innovazione di elementi; una definizione propria. A tale proposito il giudeo-marocchino si autodefinisce, ad esempio, il-‘arabiyya dyalna (che si potrebbe rendere, senza troppo celiare, con «l’arabbu nostru»); l’esistenza di generi letterari specifici e di un immaginario testuale proprio.

Le definizioni linguistiche sono sempre legate a una dimensione estrinseca di fattori sociali e culturali, di autopercezione e percezione esterna che rende l’oggettività difficile (si pensi a tale proposito alla differenza, oramai superata dalla linguistica, fra lingua e dialetto in termini di opposizione corretto/scorretto, grammaticale/non-grammaticale), e forse inutile da un punto di vista euristico. La storia del giudeo-arabo mostra ancora una volta la complessità e la non-linearità delle relazioni umane. Il giudeo-arabo attraversa la storia e apre uno squarcio sulle relazioni fra ebrei, arabi e cristiani e la capacità adattiva e relazionale del mezzo linguistico come espressione di umanità piena, in dialogo e conscia di sé. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025 
Note
[1] G. Levi Della Vida, Scritti sull’Islam, Edizioni della Normale, Pisa 2019: 18.
[2] B. Hary, Multiglossia in Judeo-Arabic: With an Edition, Translation, and Grammatical Study of the Cairene Purim Scroll, Brill, Leiden: 71.
[3] Multiglossia in Judeo-Arabic: 73.
[4] Sulle problematiche storiche e sulla storia della penisola araba e della sua cultura precedente l’avvento dell’Islam, cfr. J. Van Steenbergen, Storia del mondo islamico, Morcelliana, Brescia 2024: 25-54; per le strutture e le problematiche linguistiche, la nascita e lo sviluppo della lingua araba e dei suoi dialetti con inquadramento storico, cfr. O. Durand, Dialettologia araba, Carocci, Roma 2009, e con prese di posizioni originali, K. Versteegh, The Arabic Language, Edinburgh University Press, Edinburgh 2001.
[5] Sulla presenza ebraica in Mesopotamia, Babilonia e la formazione delle accademie di studio, cfr. G. Stenberger, Introduzione al Talmud e al Midrash, Città Nuova, Roma, 1995: 24-27.
[6] Multiglossia in Judeo-Arabic: 75-78.
[7] Multiglossia in Judeo-Arabic: 79.
[8] Multiglossia in Judeo-Arabic: 82 («differenziare tra i diversi strati di quella varietà: lo strato degli elementi arabi classici, lo strato dello šarḥ, lo strato degli elementi colloquiali che penetrano nella lingua scritta e lo strato misto di elementi colloquiali e standard»).
[9] P. Capelli, Giudeo-lingue e giudeo-scritture?, in Contatti di lingue-contatti di scritture: multilinguismo e multigrafismo dal Vicino Oriente antico alla Cina contemporanea, a cura di D. Baglioni e O. Tribulato, Edizioni Ca’ Foscari-Digital Publishing, Venezia 2015: 162.
[10] Sulla Genizah lo studio monumentale in cinque volumi di Shelomo Dov Goitein è stato compendiato in un volume, disponibile anche in traduzione italiana (S.D. Goitein, Una società mediterranea, Bompiani, Milano 2002).
[11] Giudeo-lingue e giudeo-scritture?: 162.
[12] Gli esempi riportati di seguito per quanto attiene alla grafia, alla morfologia e sintassi sono desunti da G. Khan, Judeo-Arabic in Handbook of Jewish Languages, Brill, Leiden 2016: 22-63.
[13] Sui Caraiti, le peculiarità della loro appartenenza al giudaismo e le loro tradizioni, cfr. J.F. Faü, Les Caraïtes, Brepols, Turnhout 2000.
[14] Judeo-Arabic: 32.
[15] Multiglossia in Judeo-Arabic: 79.
[16] Judeo-Arabic: 35.
[17] Dialettologia araba: 164-167.
[18] G.M. Rosenbaum, The Arabic Dialect of Jews in Modern Egypt, «Bulletin of the Israeli Academic Center in Cairo», 25, 2002: 35-46.
[19] Sui dialetti egiziani, cfr. The Arabic Language: 159-154. Per un frasario connotato confessionalmente è ancora utile la panoramica offerta dal classico C.A. Nallino, L’arabo parlato in Egitto, Hoepli, Milano 1939.
[20] Multiglossia in Judeo-Arabic: 103-105.
[21] B. Hary, M.J. Wein, Religiolinguistics: On Jewish-Christian, and Muslim-defined Languages, «International Journal of the Sociology of Language», 220, 2013: 85-108.

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Alessandro Perduca è un anglista e germanista di formazione, con esperienza universitaria di insegnamento e ricerca. Si è occupato di letteratura inglese premoderna, moderna e contemporanea in diversi interventi e articoli. Si interessa di storia delle idee in chiave comparatistica e interculturale. Ha all’attivo contributi e studi su Shakespeare, la poesia romantica, Conrad, Auden e Heaney, oltre a numerose traduzioni. Ha tradotto Le ali spezzate di Kahlil Gibran per le Edizioni San Paolo e pubblicistica in lingua tedesca nel campo della teologia e delle scienze dell’antichità. Docente di lingua e cultura inglese nella scuola secondaria, lavora attualmente presso il liceo classico statale ««Salvatore Quasimodo” di Magenta (MI).

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