di Alessandro D’Amato [*]
Riuscire a elaborare un ragionamento complesso intorno alla relazione epistolare intercorsa, a inizio Novecento, tra Raffaele Pettazzoni e Giuseppe Pitrè appare quantomeno rischioso. Tuttavia, il poter disporre di un’unica testimonianza epistolare certa rende questa impresa non di meno estremamente stimolante, nel tentativo di ricostruire le relazioni intellettuali tra i due studiosi e, al tempo stesso, innestarle all’interno di uno scenario che, in quegli anni, viveva un fermento inedito. Interessarsi del rapporto tra Pitrè e Pettazzoni vuol dire anche fare i conti con due padri fondatori delle discipline demoetno- antropologiche italiane. Due figure estremamente differenti tra loro, ma accomunate da una passione unica nel condurre le rispettive ricerche, con rara scrupolosità e dedizione.
L’unica lettera di cui disponiamo, conservata presso l’Archivio Pitrè dell’omonimo Museo Etnografico Siciliano di Palermo, è scritta da Raffaele Pettazzoni in data 18 gennaio 1911. All’epoca, dunque, Giuseppe Pitrè – che era nato a Palermo il 22 dicembre 1841 – stava quasi raggiungendo la soglia dei settant’anni, aveva ormai alle spalle uno sterminato elenco di pubblicazioni monografiche e saggistiche e, soprattutto, aveva ottenuto un unanime riconoscimento a livello internazionale, che lo portò a intraprendere fitte corrispondenze con studiosi del calibro di Max Muller, Paul Sebillot, Francis J. Child, Thomas F. Crane, Friedrich S. Krauss, solo per citarne alcuni. Inoltre, da poco meno di una settimana, il 12 gennaio aveva inaugurato, con una importante e densa prolusione presso l’Università di Palermo, il primo insegnamento accademico in Italia della nuova disciplina chiamata Demopsicologia.
Raffaele Pettazzoni, di oltre quarant’anni più giovane – nato a San Giovanni in Persiceto (Bo), il 3 febbraio 1883 – muoveva in quel periodo i primi passi nell’ambito di quelle che, da Cirese in poi, abbiamo iniziato a etichettare come scienze demoetnoantropologiche. Laureatosi in Lettere all’Università di Bologna (1905), Pettazzoni si era subito dopo trasferito a Roma per frequentare la Scuola italiana di Archeologia, presso la quale conseguì il relativo diploma nel 1908. Pochi mesi dopo, ricevette l’incarico di ispettore nell’amministrazione delle Antichità e Belle Arti al Museo Preistorico Etnografico e Kircheriano di Roma. Rispetto ai suoi iniziali interessi archeologici, qui Pettazzoni iniziò una progressiva svolta in direzione di ambiti di interesse etnografici e folklorici, dai quali poi, in particolare nel corso degli anni venti, derivò la sua definitiva consacrazione storico-religiosa.
Quando, dunque, Pettazzoni scrive a Pitrè, ci troviamo di fronte, da un lato, un giovane e valoroso studioso, che compie i primi passi verso un ambito di studi per lui ancora pienamente da scoprire; dall’altro, una figura di ricercatore affermato in tutto il mondo che, dopo anni di fatiche, ha da poco finalmente ottenuto anche una consacrazione accademica e che, al tempo stesso, ha ormai intrapreso la fase discendente della parabola della propria esistenza (Pitrè morirà a Palermo solo cinque anni dopo).
Ma proviamo a contestualizzare ulteriormente le ragioni che condussero Pettazzoni a rivolgersi a Pitrè. Nel 1910, Pettazzoni frequentò assiduamente la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, alla ricerca di documentazione bibliografica utile per un saggio sul ‘rombo australiano’ che stava nel frattempo preparando. Già in questa fase, così come sarebbe poi accaduto in seguito, Pettazzoni risentiva di una forte influenza teorico-metodologica del tardo evoluzionismo britannico. Basti pensare ai rapporti di amicizia che negli anni a seguire stabilì con personaggi del calibro di James G. Frazer e Robert R. Marett. All’autore del Golden Bough si deve la partecipazione di Pettazzoni – unico italiano a prendervi parte – al congresso giubilare della Folk-Lore Society, tenutosi a Londra nel 1928. L’anno successivo, invece, fu grazie all’intermediazione di Pettazzoni se Giuseppe Cocchiara poté frequentare i corsi di Antropologia sociale tenuti da Marett all’Exter College di Oxford.
Non stupisce, dunque, se tematiche e metodi dell’evoluzionismo di oltre-Manica permearono l’epistemologia pettazzoniana. Ne consegue che i principali oggetti della sua attenzione furono le sopravvivenze culturali e le superstizioni magico-religiose, da indagare mediante un approccio ipercomparativista. A riconferma di tale utilizzo estremo della comparazione, rileviamo l’ac- costamento tra il rombo australiano e ‘lu lapuni’ siciliano all’interno del saggio che vide la luce nel 1911 [1]. Da un lato, un arnese diffuso tra gli aborigeni con finalità rituali religiose, utilizzato durante i riti di iniziazione per via di quel rumore, simile al muggito del toro (non per niente, il rombo è localmente conosciuto come bull-roarer), in grado di incutere timore nei giovani iniziandi isolati dal resto della comunità. Dall’altro lato, un oggetto impiegato soprattutto con finalità ludico-fanciullesche o pratiche, da parte dei pastori che si servivano di tale attrezzo per riprodurre un suono finalizzato a richiamare le greggi o, più frequentemente, allontanare da esse gli animali selvatici.
Al fine di effettuare la suddetta comparazione, nei locali della Biblioteca romana Pettazzoni consultò i Giuochi fanciulleschi siciliani (1883) di Pitrè e alcuni fascicoli dell’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», periodico che lo stesso Pitrè, con la collaborazione dell’amico e collega Salvatore Salomone Marino, aveva fondato nel 1882. In quella stessa fase storica, tuttavia, Pettazzoni aveva già pronta del cassetto un’altra pubblicazione, un saggio di Etnografia dantesca, dedicata allo studio comparativo del rituale della ‘grave mora’, cerimoniale lapidatorio descritto dall’Alighieri nella Divina Commedia (Purgatorio), cui fu sottoposto Manfredi, poiché scomunicato, da parte delle truppe francesi. Il saggio pettazzoniano, ancora una volta, effettuava una spregiudicata comparazione tra la pratica descritta da Dante e alcune analoghe usanze di popolazioni selvagge dell’Asia, dell’America settentrionale e dell’Oceania, presenti tuttavia presso le più arretrate tra quelle europee: «anello di congiunzione fra i costumi degli antichi trogloditi africani e le credenze degl’infimi volghi dell’Europa moderna».
Probabilmente, quando Pettazzoni “scoprì” l’«Archivio» di Pitrè, dovette immaginarlo come il contenitore ideale per ospitare tale saggio. È a questo punto che, su carta intestata “Museo Preistorico-Etnografico e Kircheriano”, il 18 gennaio 1911 Pettazzoni scrive a Pitrè:
«Chiarissimo Signor Professore,
alla Biblioteca ‘Vittorio Emanuele’ di qui l’ultimo fascicolo, esposto nella sala dei Periodici, del suo ‘Archivio per lo studio delle Tradizioni Popolari’ porta la data del 1907.
Disperando di avere dalla Biblioteca stessa una spiegazione esatta del fatto, mi permetto di rivolgermi direttamente a Lei per chiederle se la Biblioteca non sia al corrente, oppure se in realtà è avvenuto qualche ritardo o sospensione nella pubblicazione dell’Archivio.
Le sarò molto grato, se Ella avrà la bontà di soddisfare alla mia domanda, anche perché all’Archivio io avevo destinato un mio scritto che, nel caso, potrei subito mandarle.
Perdoni, chiarissimo professore, la libertà che mi prendo, ma mi creda suo devotissimo
Dr. Raffaele Pettazzoni,
del Museo Etnografico e Preistorico
(Via del Collegio Romano, 26)»
Pettazzoni, però, ignorava almeno due elementi fondamentali. In primo luogo, il fatto che già Pitrè, nel 1900, aveva scritto un saggio, intitolato Le tradizioni popolari nella Divina Commedia, comprendente chiari riferimenti all’usanza della ‘grave mora’ e utili informazioni relative alla diffusione di pratiche analoghe, tanto nel sud Italia, e in Calabria in particolare, quanto in area alpina [2]. In secondo luogo, Pettazzoni non poteva essere a conoscenza che le pubblicazioni dell’«Archivio» erano definitivamente cessate dopo l’uscita dei primi due fascicoli del 1909.
In ogni caso, è altamente probabile che all’invio della lettera in questione, Pettazzoni abbia fatto seguire, così come era già nelle sue intenzioni iniziali, anche la spedizione della bozza del proprio lavoro dedicato all’etnografia dantesca. Così come è fortemente ipotizzabile che lo stesso Pitrè gli abbia risposto e non sia stato affatto tenero nei confronti del più giovane studioso. Per lo meno, questa è la sensazione che se ne ricava, dando una scorsa alla seconda (e definitiva) testimonianza di cui disponiamo: una minuta di lettera pettazzoniana, priva di data ma certamente successiva a quella del 18 gennaio 1911, conservata presso il relativo archivio della Biblioteca Comunale ‘G.C. Croce’ di San Giovanni in Persiceto e messami a disposizione nell’ormai lontano 2006, dal sempre lucido e infaticabile prof. Mario Gandini, tutore delle carte di Pettazzoni e suo impareggiabile esegeta e biografo:
«Felice di essermi incontrato con il più insigne dei nostri folkloristi, credetti tuttavia di non dover distruggere il mio lavoro. Concepito da un punto di vista piuttosto etnografico che folkloristico, esso parve a me, e spero che parrà anche a Lei, non del tutto superfluo. Esso viene, mi sembra, a dare una conferma etnografica al risc[ontro] che Ella aveva così felicem[ente] intuito e stabilito sul terreno specifico del folklore»
A quanto pare, interpretando il contenuto di questa minuta, Pitrè dovette far notare a Pettazzoni alcune gravi carenze interne al suo lavoro, la più grave delle quali relativa all’assenza di specifici riferimenti comparativi di natura folklorica. Non sapremo mai se il medico palermitano gli suggerì di distruggere il lavoro fin lì svolto (così come trapelerebbe, interpretando filologicamente quanto riportato nella suddetta minuta). Per quel che ne sappiamo, negli anni a venire, tenendo conto dei suggerimenti pitreiani, Pettazzoni rimise mano al suo testo, arricchendolo di contenuti e modificandone la forma. L’Archivio Pettazzoni, infatti, contiene quattro successive redazioni del saggio in questione. Due di esse sono certamente precedenti alla lettera del 18 gennaio 1911 e costituiscono verosimilmente la versione che Pitrè ebbe modo di leggere e valutare in anteprima. Le altre due stesure, invece, sono susseguenti e costituiscono un’evidente reinterpretazione dell’elaborazione originaria, riportando all’interno anche le citazioni dal saggio di Pitrè del 1900.
Pettazzoni ebbe modo di pubblicare immediatamente il suo saggio; anzi, ci rimise mano dopo parecchi anni ma diede ad esso un’importanza notevole, sia da un punto di vista simbolico che contenutistico. Deduciamo tale considerazione dal fatto che lo studioso persicetano decise di riservare il suo scritto sulla ‘grave mora’ come contributo d’esordio di quella che, nel 1925, divenne la prima rivista italiana di studi storico-religiosi, che lo stesso Pettazzoni fondò (e diresse) insieme a Carlo Formichi e Giuseppe Tucci: le prime 65 pagine del primo fascicolo di «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» si aprono, infatti, con il saggio pettazzoniano, che ebbe il titolo definitivo La “grave mora”. Studio su alcune forme e sopravvivenze della sacralità primitiva [3]. Con La “grave mora”, dunque, si apriva un’importante stagione nell’ambito degli studi umanistici italiani, pensando al ruolo che gli SMSR avrebbero avuto, negli anni a venire, all’interno del dibattito accademico e alla centralità del ruolo assunto da Pettazzoni, sia a livello nazionale che internazionale. Basti ricordare, a titolo esemplificativo che, nel gennaio 1924 era divenuto il primo titolare di una cattedra italiana di Storia delle religioni e, negli anni cinquanta, già accademico dei Lincei, divenne presidente dell’Associazione Internazionale per la Storia delle Religioni (IAHR).
Al netto delle critiche sollevate nel 1911 da Pitrè e dell’antecedente cessazione delle pubblicazioni dell’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», la mancata collaborazione di Pettazzoni con la rivista fondata da Pitrè e Salomone Marino si configura pertanto come una chiara occasione sfumata. A distanza di anni, infatti, avremmo considerato come un prezioso tassello quello costituito dalla presenza, all’interno dell’«Archivio», di uno scritto del futuro storico delle religioni. L’evidente differenza di età, di interessi e di approcci teorico-metodologici tra Pitrè e Pettazzoni, inoltre, fece il resto, precludendo ogni possibilità che tra i due potesse stabilirsi un rapporto più fecondo.
A questa prima occasione mancata, tuttavia, occorre aggiungerne sinteticamente un’altra, per comprendere la quale occorre ancora una volta riposizionarci nel corso dell’anno 1910. Più esattamente, nel periodo tra il 30 aprile e il 6 maggio, quando la città di Palermo ospitò il Congresso Geografico Italiano, nel corso del quale l’etnografo Lamberto Loria (altro padre fondatore disciplinare) e il suo collaboratore Francesco Baldasseroni annunciarono la nascita della Società di Etnografia Italiana. In questa circostanza, Baldasseroni lesse pubblicamente lo statuto della neonata associazione. Loria, invece, tenne un discorso durante il quale riassunse la storia degli studi etnografici svolti fino a quel momento in ambito nazionale; e, pur trovandosi a Palermo, il nome di Pitrè fu citato una sola volta, en passant, senza che Loria si soffermasse particolarmente sui meriti di colui il quale, da circa un anno, aveva inaugurato il Museo Etnografico Siciliano. Per Pitrè, tale atteggiamento dovette apparire come la classica goccia in grado di fare traboccare un vaso già colmo da tempo. I rapporti tra i due, d’altronde, così come testimoniato, ad esempio, da Raffaele Corso in uno scritto del 1925 [4], non furono mai particolarmente idilliaci. Questa tensione si ripercorse nell’episodio appena tracciato e in ciò che accadde pochi mesi dopo.
Nell’ottobre 1911, quando a Roma si svolse il I Congresso di Etnografia Italiana, Pitrè declinò l’invito fattogli pervenire dallo stesso Loria, adducendo motivazioni familiari legate alle condizioni precarie di salute del figlio. Ma soprattutto, cosa che ci fa parlare di seconda occasione mancata, nei primi mesi dell’anno seguente, Pitrè rinunciò alla proposta di scrivere qualcosa per «Lares», neonata rivista sorta proprio in quel 1912 da una costola della Società di Etnografia Italiana e, ad oggi, il più longevo tra i periodici italiani di ambito demoetnoantropologico. In particolare, Loria proponeva a Pitrè di recensire la prima monografia pubblicata da Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna [5].
Il rifiuto di Pitrè, giustificato con un sovraccarico di impegni dovuti al completamento di un volume della sua collezione “Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane”[6] indusse la redazione di «Lares» a rivolgersi a Sergio Sergi, cui si deve la stesura della suddetta recensione [7]. Ma soprattutto, a noi ci offre la possibilità di mostrare come gli antichi e recenti rancori non fossero, da parte di Pitrè, del tutto superati, rammaricandoci così per non aver mai avuto l’opportunità di godere della presenza di uno scritto dello studioso palermitano all’interno dello storico periodico oggi pubblicato a Firenze.
Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
Note
[*] Testo della relazione presentata al Convegno internazionale di studi, Pitrè e Salomone Marino a cento anni dalla morte, tenutosi a Palermo (23-26 novembre 2016).
[1] R. Pettazzoni, Un rombo australiano, in «Archivio per l’Antropologia e la Etnologia», XLI, 1911: 257-270.
[2] G. Pitrè, Le tradizioni popolari nella Divina Commedia, in «Archivio per lo Studio delle Tradizioni Popolari», XIX, 1900: 521-554.
[3] R. Pettazzoni, La “grave mora”. Studio su alcune forme e sopravvivenze della sacralità primitiva, «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», I, I, 1-2, 1925: 1-65.
[4] R. Corso, Valutazione dell’opera di Lamberto Loria, in «Il Folklore Italiano», I, I, 1925: 121-123.
[5] R. Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, Società Editrice Pontremolese, Piacenza 1912.
[6] Nel 1913, in effetti, comparvero gli ultimi due titoli della collezione, composta in totale da 25 volumi. Si tratta di Cartelli, pasquinate, canti, leggende, usi del popolo siciliano. Con un’appendice di tradizioni delle colonie albanesi di Sicilia (Reber, Palermo 1913) e di La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano (Reber, Palermo 1913).
[7] M. Gandini, Raffaele Pettazzoni nell’anno cruciale 1912. Materiali per una biografia, in «Strada Maestra. Quaderni della Biblioteca comunale ‘G. C. Croce’ di San Giovanni in Persiceto», 36-37, 1994: 223-224.
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Alessandro D’Amato, dottore di ricerca in Scienze Antropologiche e Analisi dei Mutamenti Culturali, vanta collaborazioni con le Università di Roma e Catania. Oggi è un antropologo freelance. Esperto di storia degli studi demoetnoantropologici italiani, ha al suo attivo numerose pubblicazioni sia monografiche che di saggistica. Insieme al biologo Giovanni Amato ha recentemente pubblicato il volume Bestiario ibleo. Miti, credenze popolari e verità scientifiche sugli animali del sud-est della Sicilia (Editore Le Fate 2015)
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