di Ferdinando Mirizzi
Non ricordo di avere mai incontrato personalmente Giuseppe Profeta, ma il suo profilo intellettuale e i suoi testi mi rimandano agli anni della mia prima formazione, maturata presso l’Istituto di Storia delle tradizioni popolari dell’Università di Bari sotto l’insegnamento di Giovanni Battista Bronzini e l’assistenza premurosa e rigorosa di Elisa Miranda, rispettivamente relatore e correlatrice della mia tesi di laurea nel 1980. Ricordo che, all’interno dell’Istituto, si parlava allora di Profeta come di un collega di Bronzini, con il quale aveva condiviso la comune appartenenza alla scuola di Paolo Toschi e un orientamento di studio fortemente ancorato alla filologia e a un impianto di tipo storicista. E non è un caso che egli abbia voluto dedicare il suo ultimo libro, incentrato su uno dei temi cardine delle sue ricerche, quello dell’antropomorfismo vascolare [1], su cui egli aveva già pubblicato un saggio nel 1973 [2], ai «Maestri insigni Paolo Toschi, Giovanni Bronzini, Alberto Cirese», condensando in tal modo una comunità scientifica solidale e segnata da rapporti di stima e amicizia che, all’uscita dagli anni del secondo conflitto bellico, si poneva in una condizione di continuità con la densa tradizione degli studi sulle tradizioni popolari italiani nati nella seconda metà dell’800 con Giuseppe Pitrè. Successivamente, pur nel rispetto del magistero di Toschi e con diverse occasioni di convergenza sul piano accademico, i suoi allievi avrebbero preso strade differenti.
Se, infatti, Cirese avrebbe partecipato attivamente al dibattito degli anni Cinquanta sulle nuove prospettive di analisi aperte dalla conoscenza degli scritti gramsciani per poi promuovere una sostanziale rifondazione degli studi sulle tradizioni popolari, che preferì denominare studi demologici, prima di virare definitivamente su temi e prospettive di antropologia delle varianti, Bronzini sarebbe rimasto più a lungo legato a prospettive di ricerca che coniugavano una specifica attenzione alle dinamiche della storia a procedure epistemologiche e modelli di indagine propri degli studi letterari e filologici, pur dimostrando, specie negli ultimi tre decenni della sua attività di studioso, una particolare attenzione alla lezione gramsciana e curiosità e aperture verso le nuove teorie e tematiche antropologiche che si erano diffuse nel nostro Paese nella seconda metà del ’900 e che fecero approdare anche lui negli ultimi anni di docenza all’insegnamento di Antropologia culturale.
Quanto a Profeta, egli avrebbe a sua volta assunto una posizione autonoma, nel vario articolarsi degli studi, già prima di diventare professore ordinario nel 1975 in un complesso concorso a Cattedra, che rispecchiò allora la decisione ministeriale di accorpare in un unico settore disciplinare, denominato allora “Gruppo 48” disciplina Etnologia, suddiviso in due sottogruppi, 48A e 48B [3] – della cui commissione faceva parte Bronzini in rappresentanza dell’ambito demologico – , con un giudizio positivo, anche se espresso a maggioranza, per il valore di alcuni specifici contributi, come il volume sui Canti nuziali del popolo italiano [4], e per «la ricchezza di documentazione e per la costruttività delle indagini, nonché per l’apertura mostrata nei lavori recenti verso nuove tematiche e metodologie» [5].
Ciò che sembra caratterizzare i suoi studi è la ricchezza della documentazione prodotta su ognuno dei temi affrontati, derivante da indagini sul terreno condotti soprattutto in area abruzzese e laziale, senza trascurare comparativamente altre aree dell’Italia centrale e oltre, ma soprattutto da una puntigliosa attività di ricerca negli archivi e nelle biblioteche, evidente ad esempio nel suo lungo e continuativo studio sul culto di San Domenico a Cocullo e sul ruolo nella relativa festa di serpenti e serpari all’interno di una logica connessa al patronato antimorso. Proprio tale studio, che dopo precedenti libri e saggi ha trovato la sua espressione più matura in una monografia pubblicata nel 1998 [6], dimostra come egli sia sempre stato interessato al problema storico delle origini delle tradizioni locali e molto meno alla considerazione della loro funzione nei contesti sociali contemporanei, nei quali spesso lamenta un loro uso strumentale per finalità di tipo turistico e in ragione di logiche di carattere consumistico. Il che rivela una posizione teorica e metodologica che lo pone in una consapevole continuità con la tradizione demologica, anzi demopsicologica, italiana e di sostanziale estraneità con i più recenti sviluppi verificatisi nel campo dell’antropologia dei patrimoni culturali.
La sua collocazione nel filone classico e storicista degli studi italiani sul folklore, di cui egli a più riprese ha riaffermato l’importanza, è attestata anche da altre sue ricerche, come quella riguardante il culto delle “Sette Madonne Sorelle”, le cui testimonianze rimandano soprattutto alle aree abruzzese e campana [7]. Ed è proprio su una meticolosa ricognizione delle fonti letterarie e demologiche riferibili a tali aree che poggia la sua analisi delle credenze sulla moltiplicazione della Madonna in sette santuari, come fossero entità sacre e salvifiche diverse, ciascuna specializzata nel risolvere una specifica crisi o uno specifico male. Profeta definisce il fenomeno come una forma di «magnificazione del nume», corrispondente a un processo con cui la logica popolare considera più potente la Madonna se ci sono più Madonne e più probabile, di conseguenza, l’ottenimento della grazia invocata. Nell’analisi di tali temi, basati sull’atto del credere e, quindi, sulla fede e sulla fiducia che dal credere derivano, il compito del folklore e della demopsicologia è quello da una parte di documentare i racconti sulle credenze diffuse a livello popolare, dall’altra di far luce sulle funzioni non evidenti, spesso occulte, che ispirano l’agire umano in una dimensione che si rivela universale.
Il tema della logica alla base delle credenze e delle narrazioni popolari aveva ispirato, tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, l’analisi riservata da Profeta a un altro tema: quello delle leggende di fondazione dei santuari, a cui egli aveva dedicato prima una relazione al V Congresso della Società internazionale per le ricerche sulla narrativa popolare, svoltosi a Bucarest nel 1969, poi un articolo in un numero del 1970 della rivista «Lares» [8]. In entrambi i casi la documentazione a supporto era costituita da un centinaio di testi di leggende raccolte in Abruzzo, i quali nella prima occasione gli avevano consentito una presentazione del tema in maniera complessiva, con riferimento tanto agli aspetti morfologici dei documenti narrativi quanto a quelli connessi alle radici storiche, letterarie e psicologici dei motivi; mentre nella seconda l’approfondimento dell’«analisi morfologica limitatamente al livello delle funzioni, secondo il metodo adottato da Propp per le fiabe di magia» [9]. Il saggio pubblicato in «Lares» attesta l’attenzione riservata da Profeta alle analisi di tipo morfologico e, più in generale, fondate sulla relazione tra il mito e la narrazione fiabesca riportabile non su un piano estetico-letterario, bensì su quello della ricerca comparativa tesa a cogliere gli elementi costanti e ricorrenti, pur nel variare dei personaggi e delle azioni.
Ecco, mi sembra evidente che Profeta, pur collocandosi coerentemente nel solco della citata tradizione culturale e scientifica definita dallo storicismo italiano e dalle metodologie filologiche, sia stata costantemente sensibile alle suggestioni degli orientamenti di carattere strutturale e semiologico, a prescindere dai quali difficilmente si capirebbero i suoi studi sulla vascolarità universale, per i quali rimando alla lettura diretta del suo testo già citato del 2020, nel quale dimostra peraltro piena cognizione di aspetti connessi all’analisi simbolica e alle istanze materialistico-culturali, oltre che alla prefazione scritta da Pietro Clemente [10] e alla interessante recensione di Giovanni Pizza pubblicata nella rivista «Anuac» [11].
Nel concludere queste mie brevi note, in occasione del suo novantanovesimo compleanno, credo che nella fase che attualmente attraversano gli studi antropologici sull’Italia – eredi della tradizione demologica a cui Giuseppe Profeta appartiene di diritto e di fatto –, i quali guardano alle pratiche sociali fondate sui patrimoni culturali quali elementi utili per la comprensione dei processi di costruzione identitaria che connettono nella contemporaneità i contesti locali alla dimensione del mondo globale, bisognerebbe considerare con attenzione le sue ricerche e la sua produzione testuale, fondate sull’atto del documentare come base indispensabile per qualsiasi ricostruzione interpretativa dei fenomeni studiati. Senza indulgere alla tentazione di considerare tali studi alla stregua di attività conoscitive di tipo classificatorio, sono convinto che occorra invece considerarli come esiti di procedure di ricerca supportate e segnate da interessi teorici ed ermeneutici dotati di significato solo se sostenuti da metodiche empiriche e, quindi, da attività di documentazione estensive e continuative.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
Note
[1] Si veda, in particolare, G. Profeta, L’acqua e il vaso nella vascolarità universale, Ortona, Edizioni Menabò, 2020.
[2] Cfr. Id., La logica del recipiente: ricerca su funzionalismo e antropomorfismo vascolari, in «Lares», XXXIX, 1973: 209-291.
[3] Si veda la dettagliata e documentata ricostruzione di quel concorso a Cattedra operata da E.V. Alliegro, Antropologia italiana. Storia e storiografia 1869-1975, Firenze, SEID, 2011: 525-530.
[4] G. Profeta, Canti nuziali nel folklore italiano, Firenze, Olschki, 1964.
[5] Cfr. E.V. Alliegro, Antropologia italiana cit.: 529.
[6] G. Profeta, Il serpente sull’altare. Il patronato antifebbrile di San Domenico di Cocullo e la sua metamorfosi antimorso. Ecologia e demopsicologia di un culto, L’Aquila-Roma, Japadre, 1998.
[7] Id., le Sette Madonne Sorelle e la magnificazione del nume. Avvio ad una demopsicologia delle credenze, L’Aquila-Roma, Japadre, 1997.
[8] Id, Le leggende di fondazione dei santuari (Avvìo ad un’analisi morfologica), in «Lares», XXXVI, 1970: 245-258.
[9] Ivi: 245.
[10] P. Clemente, Il corpo della terra. Prefazione a G. Profeta, L’acqua e il vaso cit.: 5-12.
[11] G. Pizza, Recensione a G. Profeta, L’acqua e il vaso cit., in «Anuac», XIX, 2020, n. 2: 191-194.
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Ferdinando Mirizzi, professore ordinario di Discipline demoetnoantropologiche presso l’Università degli Studi della Basilicata, Dipartimento di Culture Europee e del Mediterraneo: Architettura, Ambiente, Patrimoni Culturali (DiCEM), di cui è stato direttore dal 2012 al 2020. Fa parte del collegio docenti del Dottorato di Ricerca in “Cities and Landscapes: Architecture, Archaeology, Cultural Heritage, History And Resources”. È presidente della Società Italiana di Antropologia Culturale (SIAC) e, inoltre, dell’Osservatorio Scientifico Regionale “Edward C. Banfield” per la salvaguardia del patrimonio etno-antropologico della Basilicata e del Comitato Tecnico Scientifico del Museo della Cultura Arbëreshe di San Paolo Albanese (Pz). È componente del Consiglio Scientifico presso l’Istituto Centrale per i Patrimoni Immateriali, ha fatto parte del Comitato Tecnico Scientifico per la redazione delle Linee Guida finalizzate alla progettazione del Museo Demoetnoantropologico dei Sassi a Matera ed è socio fondatore della Società Italiana per i Musei e i Beni Demoetnoantropologici (SIMBDEA) e del Centro Internazionale di Ricerca e Studi sul Carnevale, la Maschera e la Satira. È direttore responsabile della rivista «Archivio di Etnografia» e della Collana «Etnografie» ed è componente dei Comitati Scientifici della Collana “Antropologia Culturale e Sociale”, edita dalla Casa Editrice Franco Angeli, e “delle riviste «Antropologia», «Lares», «Il De Martino».
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