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Cutusìo e la lezione di meraviglia in “Cùntura” di Nino De Vita

CUNTURAdi Ada Bellanova 

Brevi lezioni di meraviglia [1] di Rachel Carson, biologa e madre del movimento ambientalista, che nel 1963 con Primavera silenziosa rivelò al mondo i pericoli legati all’uso di pesticidi e fertilizzanti, è il racconto delle escursioni fatte dalla studiosa con il nipotino di tre anni, attraverso foreste e campi, nell’osservazione e nell’ascolto della natura. In queste pagine l’autrice si sofferma sulla disponibilità alla meraviglia da parte dei bambini e stimola negli adulti, attraverso il recupero dell’attitudine infantile, il desiderio di una comunione con il mondo vivente troppo spesso trascurata o negata nella contemporaneità con conseguenze ecologiche disastrose.

La letteratura è, per l’ecocritica – prospettiva di studio che nasce dalle questioni ambientali della contemporaneità e da una nuova e diffusa sensibilità collettiva verso i temi di protezione e tutela e che si propone di analizzare proprio la funzione dei testi letterari nell’educazione ambientale – [2], un modo per farci riflettere sulla conservazione della natura, sul nostro rapporto con gli altri esseri viventi, per aiutarci a riconoscere nomi, storie e anche l’eloquenza di ciò che sembra muto [3], e per produrre una spinta al cambiamento.

A volte le scelte di temi e dinamiche narrative e la costruzione retorica, che devono essere analizzate perché si ricavi il senso del testo, riescono a suscitare stupore e meraviglia, proprio come fa la Carson con suo nipote durante le passeggiate incantate nella natura del Maine, il che, non solo per i bambini ma anche per gli adulti, può essere un prezioso strumento per far attecchire la conoscenza.       

brevi-lezioni-di-meravigliaAlle origini di un racconto

Ogni sera un papà racconta alla figlia bambina, inventando sul momento, un cunto. Questo papà, che è un poeta, complici le obiezioni della piccola alle ripetizioni non sempre precise delle storie, decide di fissare ogni cosa, di scrivere nel suo dialetto e poi di tradurre in italiano.

È questa la genesi di Cùntura. Nino De Vita comincia a lavorare a questi racconti in versi nel 1989 [4]. L’opera esce quindi per Mesogea nel 2003, inserendosi nell’itinerario dialettale iniziato con Cutusìu (2001). Ma l’autore non ha mai smesso di lavorarci, di arricchire, affinare, come dimostra la versione aggiornata [5] uscita per la collana Novecento/Duemila della casa editrice Le lettere (2023), a cui farò riferimento in queste pagine.

Al fascino del cunto destinato all’infanzia si lega in questi testi l’eredità della favola antica. Protagonisti dei ventuno racconti sono infatti quasi sempre gli animali: lucertole, volpi, lombrichi, maiali, ricci, pesci, asini e molti, moltissimi uccelli, a cominciare dalle gazze ladre del primo racconto, che hanno inoltre come vicini di ‘casa’ dei cardellini, fino all’assemblea di passeri, piccioni, tortore, fringuelli, pettirossi, merli, upupe e molti altri del penultimo testo. E sono animali, proprio come nella favola antica, dotati di voce, sentimenti e raziocinio, esseri capaci di interagire tra di loro e con gli esseri umani con i quali condividono lo spazio.

Il quale spazio è fatto di nidi, recinti, aie, case, campi coltivati, fossi, tutti nel perimetro della contrada di Cutusìo, ovvero, nella realtà, quel particolare angolo di Marsala che ha di fronte lo Stagnone con Mozia e gode anche, a tratti, della vista delle Egadi, il luogo in cui il De Vita è nato nel 1950 e dove vive tuttora. Un luogo dell’anima del poeta, ma anche, per tutti, catalizzatore di riflessioni a proposito del nostro rapporto con l’ambiente. 

fosse-chitiI nomi (e le ‘cose’)

La poesia di Nino De Vita in Cùntura vive di incantevole precisione, conserva l’attitudine all’osservazione attenta e innamorata che era già nei versi in italiano di Fosse Chiti, del 1984 [6]. L’autore osserva con cura e salva piante, insetti, uccelli chiamandoli con il loro nome e, in questo modo, porta l’attenzione del lettore su una biodiversità ricchissima, avvisandolo nello stesso tempo di una perdita di conoscenze e del nesso tra i nomi e le ‘cose’ – come scrive Calvino ne La strada di San Giovanni [7], non siamo più in grado di riconoscere «né una pianta né un uccello» – o addirittura insinuandogli l’amaro dubbio che tanta ricchezza non esista più. La modalità letteraria, che deve molto anche alla formazione scientifica dell’autore, testimonia una sua familiarità con i vari esseri viventi di Cutusìo che nasce dall’appartenenza ad un mondo e una cultura contadini. 

L’uso del dialetto poi è fondamentale per ‘chiamare’ con precisione la natura – e quindi distinguere, conoscere –, competenza che è compatibile con l’esperienza del contadino nel suo mondo. «Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà», scrive Pasolini [8]. La particolare scelta linguistica denuncia allora, qui come nelle altre raccolte, una perdita di diversità, di alterità, che è legata alla trasformazione del paesaggio e, quindi, non solo risponde al desiderio di salvare le parole – «[…] sta finendo tutto, la mia lingua si sta annacquando. Nessuno più la capirà […]» – [9], ma ha anche un’implicazione etica straordinaria perché è volta al recupero della memoria e alla salvaguardia dell’ambiente e degli esseri che lo abitano in quanto solo attraverso il dialetto si tocca la vera natura e la diversità delle cose [10].

de-vita-antologiaQuali sensi e quale punto di vista?

Rachel Carson avvisa che la conoscenza che viene dal nominare animali e piante rischia di essere sterile se non è accompagnata da emozioni e impressioni dei sensi [11]. Posto che la lettura è percezione condizionata dal punto di vista proposto nella narrazione e che è indispensabile perché si realizzi che il lettore si proietti con la sua immaginazione nello spazio narrato (con fatti, personaggi, oggetti…), attivando una vera e propria esperienza corporea oltre che emotiva [12], riflettere su sensazioni e emozioni attivate in chi legge Cùntura è necessario per comprendere quanto la straordinaria precisione di De Vita nel nominare la natura trovi in queste terreno fertile.

L’embodiement in recinti, orti, case, tane, fossi, campi di Cutusìo avviene con tutti i sensi. Il lettore ‘vede’ la natura da vicino, a tratti con una lente di ingrandimento scopre con meraviglia ciò che è piccolissimo, come il corpo bavoso color cenere e gli occhi sulle antenne della lumaca, le gambe storte e la pelle rugosa del grillotalpa, la vita minima su una foglia di peperone o in un buco del muretto, l’assemblea accesa degli abitanti dell’orto (’U cuntu ra casèntula), o come i vermi e le crosticine nel cuore dei semi di un campo preso d’assedio dagli uccelli (’U spavintapàssari). Esperienze tattili o gustative inedite o insolite sono quelle del nido dei cardellini, morbido, di bambagia (’I carcarazzi), o l’andare solleticante delle formiche su un tronco di pero (Ricursa attangalati), o il dolciastro delle radici dell’erba del cucco (’U rrizzu).     

Dominanti però sono le sensazioni uditive, il ronzio del calabrone, il gracidare delle rane, il fruscio delle lucertole, la voce grossa del maiale, lo nzirrichinzìrrichi del tarlo, e il verso di tantissimi uccelli, come quello stonato delle gazze, le cantatine dei forapaglia, il grido del piviere, lo straordinario concerto dell’alba «un picchiuliu, / un picchiulari a turnu, / un ciuciuliu allèchiru», tutti suoni che vengono facilmente trascurati o coperti nella realtà. Questa esperienza di ascolto allora si rivela un felice strumento di scoperta della ricchezza ecologica, e, attraverso il piacere genuino di una passeggiata infantile nel verde, ci interroga sulla nostra familiarità con la colonna sonora della natura in un tempo di prevalente segregazione cittadina che conosce la variazione dei cinguettii per lo più nella cornice dei documentari.

Chi legge si trova però anche immerso in un singolare flusso comunicativo: gli animali di Cùntura hanno una ‘voce’, parlano, dicono, e per quanto ciò possa essere perturbante, soprattutto quando si rivolgono agli esseri umani – si veda il caso dello scorfano sofferente che, appena pescato, suscita compassione e paura, con il suo dolente e affannato «’A fami…avia fami…» (’U scòrfanu) –, il lettore deve accogliere questa modalità come possibilità conoscitiva.

 Il punto di vista da assumere è variabile. La percezione che si chiede di condividere può essere quella di chi vede, ascolta, sente anche da molto vicino, e quasi sempre è dalla parte degli animali, come dimostrano diminutivi affettuosi – «armicedda pia» per la lucertola curiosa (’I vucciardi) – o commenti empatizzanti – ad esempio nel racconto del maiale che con occhi di bambino stupito osserva la grande aia e i suoi abitanti (Cc’eranu tutti ammezzu ri l’ariuni) –. Al lettore capita allora di sorridere e sentirsi vicino agli esseri viventi, provando tenerezza per loro o indignandosi e amareggiandosi, proprio come fa il narratore. A questa prospettiva però si alterna quella dei personaggi stessi ovvero degli altri residenti dello spazio di Cùntura. In questo modo l’autore riconosce validità alle istanze della natura, spesso trascurate, e, attraverso di esse, finisce col dire qualcosa anche dell’essere umano che risulta non solo soggetto ma anche oggetto di osservazione. Attraverso le scelte narrative e retoriche, il poeta permette al lettore di vedere i limiti di una prospettiva monofocale basata su un antropocentrismo dell’io nello spazio e nell’ambiente [13]. 

iovinoL’oikos e i suoi abitanti           

Nell’ambiente-casa di Cùntura – ambiente inteso, dal punto di vista ecologico, come spazio di relazione [14]– gli animali hanno diritto di residenza al pari degli esseri umani. Le lucertole dell’omonimo racconto, sebbene l’indicazione «’i circavi e ’i truvavi» postuli la presenza umana, appaiono come le prime vere abitanti della casa solitaria. La casa sull’altura, poi, abbandonata dagli esseri umani, accoglie tantissimi animali: c’è chi vuole sfuggire al freddo, chi vuole costruire un nido, ma anche chi ci va «pi gghiocu o a curiosari». Le rane sono le vere residenti del fosso, insieme ad anguille, tinche, gamberetti, mentre vanno e vengono le poiane, le gazze, i corvi, gli avvoltoi e le pavoncelle in cerca d’acqua, ed è il piccolo pastore, con il suo seguito di pecore, a invadere il loro spazio per fare il bagno. Ancora, in ’U cuntu ra casèntula innumerevoli sono gli esseri viventi piccolissimi che popolano l’orto, «i rrisirenti / ri l’ortu, sciuti fora / ri pirtusa e ri tani, asciddicati / p’allongu ri truncuna, / ri fogghi, ri bacchetti», ovvero «i residenti / dell’orto, usciti / dai buchi e dalle tane, scivolati / dai tronchi, / dalle foglie, dagli steli».

Le relazioni interne al mondo animale possono essere caratterizzate da familiarità, confidenza: le madri gazza e cardellino, trovandosi vicine di casa, sullo stesso pino, scambiano notizie sulla cova e sui figli appena nati (’I carcarazzi); l’asino, maltrattato dal padrone, pensa al cane che gli si è avvicinato e gli ha mostrato qualcosa di simile alla compassione (’U sceccu).

Ma i rapporti tra gli animali appaiono più spesso improntati a ostilità e violenza: i residenti dell’orto trovano un facile capro espiatorio nel lombrico, istigati dalla calunnia del grillotalpa, in un processo sommario che ha tutti i tratti di una democrazia degenerata (’U cuntu ra casèntula); gli abitanti dell’aia isolano il maiale ‘Ntoni perché goffo, imponente e con la voce grossa (Cc’èranu tutti ammezzu ri l’ariuni); mosche e formiche si esaltano come per una festa di fronte al cadavere del gatto impiccato (’U nchiaccatu). Le pagine di Cùntura insomma testimoniano che idillio e armonia mancano anche nel mondo contadino e, soprattutto, mancano tra tutti gli esseri viventi. Ma questa modalità di rappresentazione consente di riflettere sull’esistenza di dinamiche interne al mondo animale, sull’interazione tra specie differenti, spinge ad adottare una prospettiva nuova e ad uscire dalla visione antropocentrica.

Se invece si analizzano le relazioni tra animali e esseri umani, a sorpresa emerge che la condivisione dello stesso ambiente può generare interesse, persino familiarità. Così in ’A casa nno timpuni. La casa cadente sulla cima della collina è posseduta, oltre che da ragni, da tarli infaticabili: il loro nzirrichinzìrrichi è evidente sottolineatura dello stato di abbandono. Ma ci sono anche poiane, fagiani, colombacci, topi, ramarri, scarafaggi e vari tipi di insetti. Alla ricerca di un riparo, proprio come un animale, impaurito e fuggitivo, arriva tra le rovine un ragazzo e, sebbene per breve tempo, si trasferisce lì: l’involto, la coperta, il cibo suggeriscono l’idea di un trasloco. Di fronte alla sua prima apparizione e alla sua evidente agitazione, gli animali reagiscono con un silenzio rispettoso, poi si avvicinano, quasi riconoscendolo come uno di loro: lo scarafaggio prende a scendere e salire dal suo piede, un topo gli tocca il ginocchio. Ne nasce un legame affettivo: il ragazzo accarezza gli uccelli, ci gioca, gli animali sono riconoscenti, stanno di vedetta, lo attendono con ansia. Anche i tarli hanno smesso di rodere. A interrompere l’equilibrio scaturito dalla familiarità è la scomparsa del ragazzo. L’agitazione che ne scaturisce negli animali nei giorni a venire è enorme: essi si interrogano, vogliono sapere. Eppure alla fine subentra la rassegnazione e il nuovo rabbioso nzirrichinzìrrichi dei tarli è traccia sonora che annuncia il crollo e rimanda all’inesorabile abbandono della campagna, alla fine del mondo contadino: la relazione tra essere umano e natura sembra compromessa per sempre.

Reciproco interesse e conseguente familiarità caratterizzano inizialmente la relazione anche in ’I vucciardi. Gli animali ‘residenti’, ovvero quelli del recinto, ma anche quelli di passaggio, pur essendo diversi nella loro maggiore o minore stanzialità, non sembrano conoscere differenze nell’interazione con l’essere umano, rappresentato in questo caso dal nuovo bambino di casa, nei confronti del quale tutti mostrano attenzione e curiosità, che, d’altra parte, il piccolo contraccambia. Tale interesse diventa anche in questo caso legame affettivo. Non sorprende allora l’atteggiamento degli animali di fronte all’arrivo di una figura nuova, evidentemente legata al bambino divenuto adulto: la notizia dell’arrivo di una ragazza – di città e graziosa, elegante – si allarga facilmente a uccelli, ramarri, lucertole, «l’armali ch’abbitàvanu ddà ntunnu»; nel recinto, nei nidi, nelle tane, gli animali dicono e ridicono la novità come fossero una grande famiglia. Proprio da questa curiosità sembra scaturire il movimento della lucertola che si avvicina strisciando lungo il muro. Ma la reazione della ragazza di città non è di interesse: la donna è sconvolta alla vista del piccolo essere che percorre il suo spazio, perché evidentemente non gli riconosce dignità di abitante, e arriva a indicare l’animale definendolo con paura «una serpe». Il gesto e l’errore evidenziano la mancanza di un dialogo con la natura: la ragazza ha perso o non ha mai avuto il nesso tra i nomi e gli altri esseri viventi che non conosce, non comprende e quindi li rifiuta e li caccia via quando questi compaiono nello spazio che ritiene solo suo. L’ostilità innesca dinamiche che vengono presentate nei termini di una convivenza impossibile, al punto che alcuni animali pensano di «far fagotto e andare».

D’altra parte l’assenza di comprensione per gli animali non è prerogativa di chi viene dalla città. Anche gli uomini che fanno parte del mondo contadino si rendono spesso responsabili di azioni aggressive, animati da una spiccata volontà di sfruttamento e sopraffazione che ha come inevitabili conseguenze la diffidenza e la paura degli altri esseri. C’è chi svuota i nidi (’I carcarazzi o ’U niru), chi tende una trappola a una volpe per imprigionarla (’A vurpi), chi cattura un riccio e lo inganna con le sue attenzioni con il fine di mangiarselo (’U rrizzu), chi inquina il fosso (’A vurga), chi minaccia di avvelenare l’orto perché lo ritiene solo casa e cosa sua (’U cuntu ra casèntula), chi si crede Dio e non gli basta battere l’asino che sta già sfruttando, arriva anche a chiedergli di inginocchiarsi e di rivolgergli le sue preghiere (’U sceccu).

Eppure questo desiderio di dominio può non essere soddisfatto. Come accade a Rosario Funcidda che, per difendere il raccolto dalle abbuffate degli uccelli, rovinose nel suo pezzettino di terra, costruisce uno spaventapasseri – anche lui si fa dio, nel plasmarlo – e però, misteriosamente, viene tradito dalla sua creatura che, dopo aver familiarizzato con il nemico, arriva persino a metterglisi contro (’U spavintapàssari). Alla comprensione della sua ragionevole decisione di fermare l’invadenza degli animali – il poeta lo presenta come vecchio e esasperato per le condizioni in cui si trova il suo terreno – subentra da parte del lettore una certa diffidenza nel momento in cui lo scopre tronfio e ghignante a contemplare la sua creazione: il contadino è convinto di riuscire nel suo intento, si sopravvaluta e sottovaluta le capacità della natura. Il suo spaventapasseri invece, cosa di paglia e vestiti dismessi che dovrebbe essere strumento del dominio, è presto conquistato dall’assemblea di uccelli, sedotto da una natura sempre più libera e selvatica con cui intreccia un legame di familiarità affettuosa. Il risvolto della medaglia è il campo saccheggiato, devastato, che il contadino osserva con orrore, prima di scappare via, sotto la minaccia di un fucile che spara anche se è fatto di canne.

scaffaiLe cose, gli oggetti comunicano. Nella finzione letteraria, pur essendo creati dall’uomo, acquisiscono indipendenza e autonomia e si fanno corpi eloquenti: contribuiscono cioè alla storia ibrida che viene all’io dall’esterno, permettendo di uscire dalla centralità dell’umano [15]. Non solo lo spaventapasseri il quale, nel suo essere buono a nulla e nella sua ribellione perturbante all’essere umano, denuncia la fine di un mondo e ammonisce che l’uomo non può farsi dio. La gebbia, la noria, i quattro grappoli di pomodori appesi sotto la tettoia in un paesaggio dominato da uccelli indisturbati, sono, nella quasi totale assenza degli esseri umani, nominati solo come proprietari, segni di una civiltà contadina che non c’è più.

Allo stesso modo in ’I pupa la bambola che si ammala perché Teresa, la sua ‘mamma’, se n’è andata con la famiglia in Svizzera in cerca di fortuna, e muore nonostante le cure affannose di un’altra bambina, parla del dramma dell’emigrazione e dello spopolamento, e l’immagine del carrubo ferito in chiusura dice un dolore che sta dappertutto e lascia stupiti e turbati come di fronte a un mistero.

Mistero che è, in effetti, l’altro abitante, segreto e pervasivo, dello spazio di Cùntura. Risiede nella natura, nelle sue dinamiche antiche e eterne, eppure sfuggenti, a volte crudeli, ma ha anche a che fare con il sacro, con Dio. Così, tra realtà e sogno, un piccolo pastore incontra il suo angelo custode mentre contempla una farfalla sulla spina di un cardo (’U Chiaparotta), un vecchio riceve e non riceve il dono di due arance dall’immagine del Santo (L’aranci), l’anziana costretta su una sedia a rotelle riempie i suoi ultimi giorni della preghiera del rosario dono di un’apparizione di Cristo (’A zzi’ Nzula). Anche questo – sembra dirci De Vita – abbiamo perso, la capacità di entrare in contatto con il mistero che sta nell’esistenza, e deridiamo l’incanto come di fronte al piccolo pastore che ha appena detto: «Chiacchiariavu cu ll’àngiulu» fa, con la voce rozza, il padrone: «I sònnura / su’ tutti bbaccarati», «I sogni / sono tutte fesserie». 

Conclusioni

Le storie di Cùntura ci giungono attraverso le sonorità della lingua di Cutusìo e della poesia: i suoni che il poeta tenta di salvare, il ritmo dei versi, le tracce dell’oralità originaria dei testi – ripetizioni e scelte stilistiche che rinviano facilmente al cunto tramandato a voce – contribuiscono a evocare un mondo estinto o a rischio di estinzione mentre propongono una modalità dimenticata o ormai minore di trasmissione e conoscenza. È anche questo il valore ecologico della silloge.

Ma il messaggio più significativo di questi racconti in versi, pur non rasserenanti, con finali spesso ambigui e misteriosi o addirittura amarissimi, consiste nell’invito a porsi nei confronti della natura con prospettive nuove, verso l’uccellino accoccolato su un ramo e verso la vita minima su una foglia dell’orto, riconoscendo significato alle ‘voci’ degli altri esseri viventi, percependo ogni cosa in un’unica «rete di linfa e parole» [16], e provandone meraviglia. Proprio come, nella conclusione di I vucciardi, fa la bimba che stende la mano curiosa verso il piccolo cuore pulsante di una lucertola. 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1]  R. Carson, Brevi lezioni di meraviglia. Elogio della natura per genitori e figli, Aboca, Sansepolcro, 2020.
[2] Questa linea di ricerca è approdata in Italia grazie agli studi relativamente recenti di Serenella Iovino e Niccolò Scaffai. Di Iovino segnalo in particolare S. Iovino, Corpi eloquenti. Ecocritica, contaminazioni e storie della materia, in S. Iovino, D. Fargione (a cura di), ContaminAzioni ecologiche. Cibi nature e culture, Led, Milano 2015, pp. 103-117 e il piuttosto recente Id., Gli animali di Calvino. Storie dall’Antropocene, Treccani, Roma, 2023. Tra gli studi di Scaffai si segnala invece Letteratura e ecologia (N. Scaffai, Letteratura e ecologia: forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma 2017).
[3]  Iovino 2023: 190.
[4]  A proposito della genesi dell’opera, segnalo tra gli altri l’intervento recente dell’autore a La lingua batte, 31 dicembre 2023: La poesia di Nino De Vita, siciliano del mondo. https://www.raiplaysound.it/audio/2023/12/La-lingua-batte-del-31122023-36274666-f7ac-4a1d-8307-796640312b1e.html (verificato in data 02/02/2024).
[5] Come scrive già Manica nella prefazione, non solo i testi sono passati da quindici a ventuno (i testi integrativi erano già apparsi, come Cùntura inediti, in N. De Vita, Antologia (1984-2014), a cura di S. Perrella, Mesogea, Messina 2015, ma la prima versione è stata rivista con grande attenzione (N. De Vita, Cùntura, Le Lettere, Firenze, 2023: 7); il labor limae riguarda la punteggiatura, le scelte lessicali e metriche.
[6] N. De Vita, Fosse Chiti, Mesogea, Messina, 2007. A proposito della raccolta Raboni: «Erbe, fiori, insetti sono osservati e salvati con un’impassibilità che nasconde e protegge il battito, il tremore di una sottile febbre amorosa»(G. Raboni, Ma quante belle ricerche, “Il Messaggero”, 1 maggio 1985).
[7]  I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 3, Mondadori, Milano, 2003: 9.
[8] P. Pasolini, Dialetto e poesia popolare, in Id (a cura di), Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano,1999: 374.
[9] S. Ferlita, N. De Vita, Il poeta amico di Sciascia, “prigioniero” di Cutusìo, “La Repubblica”, 22 aprile 2001.
[10] Da qui l’amarezza del poeta di fronte alla necessità dell’autotraduzione. Non esiste mai, infatti, una piena corrispondenza tra due lingue, dunque la versione in italiano non può che essere rielaborazione del testo di partenza di cui più di qualcosa viene sacrificato. Alla difficile, a volte impossibile, resa della metrica originaria, si accompagna la scomparsa del lessico naturalistico della tradizione, con il carico culturale che esso veicola. A proposito, l’intervista recente La poesia di Nino De Vita, siciliano del mondo. La lingua batte, 31 dicembre 2023.
[11]  Carson 2020: 32.
[12] A proposito della focalizzazione corporea in letteratura, G. Turchetta, Il punto di vista del naso: effetti di una focalizzazione molto corporea nella letteratura contemporanea, in N. Vallorani, S. Bertacco (a cura di), Sul corpo. Culture / Politiche / Estetiche, Atti del Convegno Internazionale di Sesto San Giovanni, 17-19 maggio 2006, Cisalpino, Milano 2007: 243-260.
[13]  Scaffai 2017: 33.
[14] L’ambiente è spazio di relazione (non egocentrato e, nella finzione letteraria, spesso non antropocentrico) tra il soggetto e ciò che si trova sul suo stesso territorio.  Ivi: 32.
[15] Iovino 2015: 115.
[16] In chiusura delle sue Lezioni americane Calvino invocava un’opera capace di far «uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno […]» (I. Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano, 2023:122). 
Riferimenti bibliografici
I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 3, Mondadori, Milano, 2003.
Id., Lezioni americane, Mondadori, Milano, 2023.
R. Carson, Brevi lezioni di meraviglia. Elogio della natura per genitori e figli, trad. a cura di M. Falconetti, Aboca, Sansepolcro, 2020.
N. De Vita, Il poeta amico di Sciascia, “prigioniero” di Cutusìo, “La Repubblica”, 22 aprile 2001.
Id., Fosse Chiti, Mesogea, Messina, 2007.
Id., Òmini, Mesogea, Messina, 2011.
Id., Antologia (1984-2014), a cura di S. Perrella, Mesogea, Messina, 2015.
Id., Cùntura, Le Lettere, Firenze, 2023.
S. Iovino, Corpi eloquenti. Ecocritica, contaminazioni e storie della materia, in S. Iovino, D. Fargione (a cura di), ContaminAzioni ecologiche. Cibi nature e culture, Led, Milano 2015: 103-117.
Id., Gli animali di Calvino. Storie dall’Antropocene, Treccani, Roma, 2023.
P. Pasolini, Dialetto e poesia popolare, in Id. (a cura di), Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano, 1999.
G. Raboni, Ma quante belle ricerche, “Il Messaggero”, 1 maggio 1985.
N. Scaffai, Letteratura e ecologia: forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma 2017.
G. Turchetta, Il punto di vista del naso: effetti di una focalizzazione molto corporea nella letteratura contemporanea, in N. Vallorani, S. Bertacco (a cura di), Sul corpo. Culture / Politiche / Estetiche, Atti del Convegno Internazionale di Sesto San Giovanni, 17-19 maggio 2006, Cisalpino, Milano 2007: 243-260. 
Sitografia
La poesia di Nino De Vita, siciliano del mondo. La lingua batte, 31 dicembre 2023   https://www.raiplaysound.it/audio/2023/12/La-lingua-batte-del-31122023-36274666-f7ac-4a1d-8307-796640312b1e.html (verificato in data 02/02/2024)

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Ada Bellanova, insegna lettere in un liceo pugliese. Si interessa di permanenza della letteratura greca e latina nel contemporaneo, di ecocritica, della percezione dei luoghi, dei temi della memoria, delle migrazioni e dell’identità. Si dedica da alcuni anni allo studio dell’opera di Vincenzo Consolo: da qui è nata la monografia Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021). Ha collaborato con La macchina sognanteErodoto108.  Nel 2010 ha pubblicato il libro di racconti L’invasione degli omini in frac, con prefazione di Alessandro Fo e nel 2016 Papamusc, un breve romanzo edito da Effigi.

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