di Godwin Chuckwu, Stephen Emejuru, Ngana Ndjock, Franco Pittau, Angela Plateroti
Introduzione: storia, statistiche, prospettive
Questo articolo, dedicato alle migrazioni africane, si rifà idealmente agli approfondimenti che nel 2010 il Centro Studi e Ricerche IDOS, con la collaborazione di diverse organizzazioni (tra le quali la Caritas Italiana, la Fondazione Migrantes, la rivista Africa e Mediterraneo e grazie al contributo di numerosi africani (di diverse associazioni e in particolare del Forum per l’intercultura di Roma), condusse nel corso di un impegnativo e partecipato viaggio di studio in Africa, svoltosi a Capo Verde [1].
L’aggiornamento dei dati è avvenuto riprendendo quelli pubblicati nelle successive edizioni del Dossier Statistico Immigrazione di IDoS. Sulle implicazioni delle migrazioni qualificate africane si è tenuto conto degli approfondimenti presentati, in una sua relazione tenuta nel 2019, da Luigi Gaffuri dell’Università de L’Aquila [2].
L’occasione prossima, che ha dato vita a questo saggio, è stata offerta dall’attività di sensibilizzazione e di formazione svolta dalle associazioni africane, segnatamente nei convegni dell’11 luglio, del 13 e 28 settembre 2019, organizzati a Roma presso la sede dell’Istituzione Teresiana, dall’Associazione Kel’Lam e dalla Federazione Diaspore Africane in Italia (FEDAI) e dal Movimento degli Africani con la collaborazione di IDOS, PRODOCS e UNAR.
Questo approfondimento è anche derivato dal progetto “Orgoglio africano”, lanciato dall’Associazione Kel’Lam e altre associazioni africane, per aiutare studiosi, africani e loro seconde e terze generazioni, a recuperare le conoscenze annichilite della storia e delle tradizioni africane per una migliore e più proficua conoscenza dei Continente africano (un insieme di 54 Paesi molto diversi tra loro) e sostenere una migliore narrazione del fenomeno migratorio.
Gli studiosi africani, coautori di questo saggio, con il loro impegno sul piano comunicativo hanno voluto mostrare che gli immigrati africani devono essere orgogliosi della loro terra, della loro storia, delle loro tradizioni e anche dell’apporto che assicurano al Paese che li ha accolti. Invece, secondo alcune opinioni correnti, gli africani non sarebbero i nuovi cittadini bensì una orda di invasori, portatori di problemi e di serio ostacolo allo sviluppo dell’Italia. Si pone, quindi, l’interrogativo se sia possibile contrastare gli effetti di questa informazione imprecisa, e spesso anche scorretta, e favorire al contrario una convivenza fruttuosa che va nell’interesse di tutti: i singoli immigrati, i loro Paesi di origine e l’Italia.
Dopo l’analisi dei vari aspetti della questione le conclusioni, incentrate sul rapporto Africa -Europa, sono tratte da un documento elaborato nell’ambito del Master MEDIM (Master in Emigrazione, Demografia, Intercultura e Migrazioni) dell’Università di Roma Tor Vergata durante l’anno accademico 2016-2017, in cui contribuì alle docenze sul loro continente un gruppo di immigrati africani originari di diversi Paesi.
Dopo gli scempi dei totalitarismi del Novecento e i disastri del Secondo conflitto mondiale, che portarono a costituire nel Vecchio Continente il Consiglio d’Europa e la Convenzione europea dei diritti umani come argine ai trattamenti lesivi della dignità della persona umana, è una vergogna che “negro” continui a essere utilizzato in senso spregiativo e che gli immigrati africani siano quelli più soggetti a trattamenti discriminatori [3].
Bisogna inoltre rendersi conto che le ragioni demografiche, climatiche, culturali, economiche, politiche e religiose, che stanno alle radici del fenomeno migratorio, impongono di acquisire una visione d’insieme e di lungo periodo, essendo l’unica in grado di aiutare a leggere le implicazioni dell’attuale fase storica, e di promuovere interventi imperniati su capacità mediatrici che portino alla composizione degli interessi nazionali con la solidarietà tra i popoli.
L’impatto esterno sull’Africa: schiavismo, colonialismo e neocolonialismo
Fu nel XV secolo che si svolsero le grandi esplorazioni geografiche sostenute per i propri interessi nazionali dagli spagnoli e dai portoghesi, seguiti dagli inglesi e dagli olandesi e anche da altre nazioni europee. Nello stesso periodo iniziò un vero e proprio mercato degli schiavi, che conobbe l’apice nelle rotte atlantiche a partire dal XV secolo per procurare, a basso prezzo, la manodopera necessaria alle grandi piantagioni del Continente americano.
Non tutti sono d’accordo sul numero degli africani resi schiavi, ma è abbastanza scontato che essi furono oltre 10 milioni La stima di certi studiosi africani è molto più alta. Ad esempio, Joseph Ki-Zerbo (1922-2003), uno storico del Burkina Faso formatosi a livello universitario in Francia, che svolse incarichi accademici sia in Francia sia in diversi altri Paesi, ha ritenuto più vicine alla realtà questi numeri: 19 milioni di africani deportati in America, 4 milioni attraverso l’Oceano Indiano e 10 milioni attraverso il Sahara nei Paesi arabi, per un totale di oltre 30 milioni.
A colpire, oltre all’elevato numero delle vittime di questo commercio umano, sono soprattutto le relative conseguenze. È stato ipotizzato infatti che, se queste persone fossero rimaste sul posto, il ruolo dell’Africa nello scenario mondiale sarebbe stato più incisivo. In effetti, l’impoverimento derivatone al continente è stato tale che la popolazione africana nel 1945 era di soli 130 milioni di persone, tante quante se ne contavano nel XV secolo.
La definizione di “colonialismo” riportata nell’enciclopedia Treccani è la seguente: «Fase moderna della colonizzazione, dal sec. 15° ai nostri giorni: Il tenere sottoposti popoli a un regime coloniale, in senso proprio o, più genericamente, in condizioni di soggezione economica, politica, culturale con imposizione, da parte della potenza colonizzatrice della propria lingua al Paese colonizzato, sia come lingua ufficiale, sia in una forma semplificata e ibrida per gli scambi quotidiani…». Molto negative sono state quindi le conseguenze del colonialismo europeo (Belgio, Francia, Germania, Italia, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Spagna,), che hanno sfruttato le risorse o il territorio africano con il pretesto di apportarvi una civiltà superiore.
L’Italia fu protagonista dell’occupazione della Somalia, dell’Eritrea, dell’Etiopia (la cosiddetta Africa Orientale Italiana) e della Libia. I governi liberali prima e quello fascista poi, si ripromettevano di ricavare benefici commerciali nell’occupazione e nella cura di quei territori e anche di farne uno sbocco per la sovrabbondanza di manodopera italiana, arginando così gli espatri oltreoceano [4].
Per un giudizio sul colonialismo facciamo nuovamente riferimento a Joseph Ki-Zerbo, un intellettuale che si distinse nell’unire la ricerca scientifica con l’impegno sociale e politico nel suo e in diversi altri Paesi africani con l’intento di far prevalere lo sviluppo endogeno nel continente. Egli pagò la sua coerenza con l’esilio suo e dei familiari e anche la prigione. Non ci soffermiamo sui vari ambiti del suo impegno (sindacale, politico, formativo, universitario, parlamentare) per porre attenzione sul grande apporto da lui dato a livello storico [5]. Nel 1972, Ki-Zerbo pubblicò il celebre testo Histoire de l’Afrique noire. D’hier à demain, scostandosi nettamente dalle interpretazioni riduttive del periodo coloniale, in larga misura fatte valere anche successivamente in Europa [6].
Un grandioso progetto dell’UNESCO, strutturato in otto volumi e dedicato alla Histoire générale de l’Afrique, coinvolse i più esperti africani e venne ultimato nel 1999. A Ki-Zerbo è dovuto il primo volume della serie [7].
Ki-Zerbo ha sostenuto che l’Africa aveva raggiunto un elevato sviluppo sociale, politico e culturale prima del declino del continente causato in larga misura dallo schiavismo e dal colonialismo. Una delle sue ultime opere ha provocatoriamente questo titolo: Á quand l’Afrique? Entretien avec René Holenstein [8]. In effetti, è necessario riflettere sullo stato di disagio in cui versa il continente dopo gli effetti negativi prodotti anche nel periodo postcoloniale, che si sono aggiunti a quelli provocati in precedenza.
Il post-colonialismo è stato definito la continuazione dello sfruttamento da parte delle precedenti potenze coloniali, e poi anche da parte di altri Paesi, sotto forme nuove ma molto efficaci e in grado di perpetuare l’emarginazione politica ed economica dei vecchi possedimenti, solo formalmente del tutto indipendenti.
Nella Conferenza dei popoli panafricani, svoltasi al Cairo a giugno 1961, Kwame Nkrumah (1909-1972), primo presidente del Ghana, all’indomani della sua indipendenza, denunciò che in molti casi i governi africani postcoloniali tendevano a derivare la loro autorità non dalla volontà popolare ma dal sostegno dei loro padroni neo-colonialisti, sia a livello politico che economico, diventando così quasi eterodiretti. Questa sua riflessione ha stimolato successivi approfondimenti critici anche nei confronti delle stesse politiche di aiuto pubblico allo sviluppo attuate dai Paesi ricchi. Viene criticato l’asservimento culturale delle borghesie africane, attente più al modello occidentale che alle tradizioni locali anche sotto la pressione delle istituzioni internazionali preposte allo sviluppo (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale), assoggettati all’orientamento dei “Paesi donatori”. Atre forme di asservimento consistono nell’insediamento di basi militari, nella vendita d’armi e nell’addestramento delle forze militari e di polizia, che nell’insieme costituiscono una strada spianata all’intervento esterno per risolvere le questioni interne dei Paesi africani.
In sintesi, l’Africa è diventata una specie di nuovo El dorado per le grandi multinazionali, che naturalmente operano con il beneplacito dei governi di origine e anche di quelli locali. Le ricchezze del sottosuolo, della terra e del mare sono soggette a questa dinamica invasiva, che ha fatto di un territorio ricchissimo un continente popolato da poveri. Ne è un esempio macroscopico la Nigeria che, nonostante le sue ricchezze naturali, conta almeno metà della popolazione (circa 100 milioni di persone) al di sotto della soglia di povertà.
Una suggestiva presentazione (benché criticata sotto alcuni aspetti) di quanto avvenuto nel XX secolo, nel periodo 1914-1991 (tra lo scoppio della prima guerra mondiale e la fine dell’Impero sovietico), denominato “il periodo dei grandi cataclismi”, si trova nel volume dello storico britannico Eric John Ernest Hobsbawm Il secolo breve [9].
Sulle relazioni internazionali nella fase post-coloniali è amplissima la bibliografia. Qui ci limitiamo a segnalare diversi effetti negativi registrati nei Paesi dai quali partono gli emigrati africani.
Il disagio economico come push factor dell’emigrazione
I dati sull’attuale situazione economica del continente africano che assomma gli effetti prodotti dallo schiavismo, dal colonialismo e dal neocolonialismo, attestano una situazione di estrema precarietà. Secondo i dati delle Nazioni Unite relativi al 2017 quasi la metà di questa ricchezza mondiale (46,1%) va ai Paesi del Nord del mondo (che sono il 18,1% della popolazione del pianeta) con un reddito medio pro capite di 40.140 dollari l’anno (in Italia il reddito è leggermente più basso: 38 912 dollari). I Paesi del Sud del mondo, con 33,5 miliardi di abitanti, hanno un reddito quattro volte inferiore (10.364 dollari), ma in Africa il reddito medio è nettamente inferiore (4.832 dollari) e fortemente differenziato a seconda delle aree (si va dai 9.521 dollari dell’Africa settentrionale e i 2.046 dollari dell’Africa Orientale).
Teoricamente la ricchezza mondiale, equamente ripartita, consentirebbe di assegnare a ogni abitante del mondo (attorno ai 10 mila dollari l’anno) un reddito dignitoso. Invece, 700 milioni di persone hanno meno di due dollari al giorno (l’attuale soglia di povertà) e sono concentrati specialmente in Africa. Secondo uno studio dell’Ong Oxfam, 8 persone possiedono da sole la stessa ricchezza detenuta dalla metà più povera della popolazione mondiale [10].
Quindi in diversi Paesi africani, a causa dei governanti locali e delle influenze esterne, manca a molti la base per un dignitoso livello di vita e ciò spinge i più coraggiosi a emigrare. Seppure non si possa parlare di un’automatica relazione tra situazioni socio-economiche critiche e pressione migratoria, soprattutto perché la povertà estrema può impedire di avere le risorse per pagare i costi della partenza, sussistono forti interconnessioni tra i due fattori.
È stato osservato che i piani di aggiustamento strutturale imposti ai Paesi africani negli anni ’80 dalle organizzazioni monetarie internazionali sono stati imperniati sulle privatizzazioni e il taglio degli investimenti pubblici (anche in settori vitali come quello scolastico e sanitario), per cui gli stessi hanno accentuato il flusso migratorio verso l’estero e determinato una forte carenza delle figure professionali indispensabili in diversi settori.
I migranti africani di oggi sono come quelli europei (ed italiani) dei due secoli precedenti, e per giunta, anche se in forme differenti si conosce una notevole ripresa dell’emigrazione italiana: una tale constatazione dovrebbe portare a riconoscere le analogie con l’immigrazione estera presente in Italia. È in entrambi i casi la mancanza di sviluppo e di occupazione a spingere all’esodo.
Per legare il presente al passato è d’aiuto un brano della lettera scritta nel 1876 al Ministro dell’Interno dell’epoca, Giovanni Nicotera, da un gruppo di contadini lombardi: «La nostra vita è tanto amara che poco più è morte. Coltiviamo frumento e non sappiamo cosa sia il pane bianco. Coltiviamo viti e non beviamo vino. Alleviamo bestiame e non mangiamo mai carne. Vestiamo fustagno e abitiamo ovili. E voi con tutto ciò pretendete che non dobbiamo emigrare?».
L’attenzione alle sorti dell’Africa, in bilico tra una ricchezza potenziale e l’estrema povertà effettiva, ha indotto il Sinodo dei vescovi africani (2009) a denunciare le ingiustizie che ancora gravano sul continente, muovendo delle critiche e invitando a reagire [11].
Nel contesto migratorio mondiale gli africani non sono degli invasori
Gli immigrati africani non amano affatto essere presentati come invasori e dal punto di vista statistico non hanno tutti i torti: lo si deduce dai dati che Idos ha pubblicato sul Dossier Statistico Immigrazione 2018 (che senz’altro verranno confermati nell’imminente edizione del 2019). Contrariamente a quanto spesso si pensa, tra i 243,7 milioni di migranti nel mondo (dato ONU del 2015) [12], diventati nel 2017 258 milioni, pari al 33,4% della popolazione del pianeta, la principale area di origine è l’Asia (96,5 milioni), seguita dall’Europa (63 milioni). L’Africa viene solo al terzo posto con 32,6 milioni di immigranti e rifugiati, di cui oltre la metà (16,5 milioni) si trova negli stessi Paesi di quel continente. Gli africani in Europa sono 9,2 milioni.
Rispetto al 1990, quando i migranti nel mondo erano complessivamente 153 milioni, l’aumento è stato del 68%, Dalle informazioni fornite da diverse agenzie dell’ONU si ricava questa ripartizione del numero complessivo dei migranti: 23 milioni di richiedenti asilo e i rifugiati (Unhcr), 50 milioni i bambini (Unicef), 180 milioni gli adulti tra i 20 e i 60 anni e quindi potenziali lavoratori (Ilo) e circa il 10-15% di immigrati irregolari (Oim). Il rapporto delle Nazioni Unite del 2017 ha anche accertato che nel periodo 2010-2015 i flussi diretti verso i Paesi a sviluppo avanzato sono diminuiti da 3,3 a 2,2 milioni di persone l’anno [13].
A commento della situazione attuale non bisogna dimenticare che gli immigrati africani vengono da Paesi non benestanti. L’Africa detiene solo il 5% della ricchezza globale, pur incidendo sulla popolazione mondiale per il 16,3% (1 miliardo e 223 milioni su un totale di 7 miliardi e 667 milioni di abitanti nel 2017). Nell’Africa subsahariana si trovano Paesi, che si collocano tra i più poveri del mondo: ad esempio nella Repubblica Centrafricana il PIL pro capite è di 726 dollari: è, seppure più alto, assolutamente insufficiente anche in Africa orientale (2.142 dollari) e in altre aree del continente. L’inferiorità non riguarda solo la situazione reddituale ma anche l’indice di sviluppo umano, aspetto che rende più drammatica la lettura delle disparità. L’Onu ha previsto che entro dieci anni due terzi della popolazione mondiale dovrebbero vivere in Paesi con un tasso di sostituzione inferiore a 2,1 nascite per ogni donna in età feconda (il livello necessario per lasciare numericamente invariata la popolazione).
Se, come si è visto, è del 3,4% l’incidenza dei circa 244 milioni di migranti sulla popolazione mondiale, l’incidenza degli emigrati africani, rispetto alla popolazione del continente, è inferiore di un punto a dimostrazione di quanto sia infondato parlare di invasori nel caso degli immigrati africani. Si è parimenti visto che l’Africa, a livello mondiale, ha il 16% della popolazione e il 13% dei migranti. L’Italia che ha meno dell’1% degli abitanti del pianeta, incide, invece, per oltre il 2% sullo stock mondiale dei migranti, ma non per questo gli italiani all’estero (oltre 5 milioni) vengono presentati come invasori.
Anche in ragione della sua posizione geografica, l’Italia è tra gli Stati UE a maggiore presenza africana, insieme alla Francia e alla Spagna. Fin dalla metà degli anni ’70 gli immigrati sono arrivati in prevalenza dal Nord Africa e, in misura minore, dall’Asia. Dopo la caduta del Muro di Berlino è prevalso l‘arrivo degli immigrati provenienti dall’Europa dell’Est e nel frattempo l’incidenza degli asiatici ha raggiunto quella degli africani. Infatti, gli africani in Italia hanno rappresentato il 30% degli immigrati regolarmente presenti alla fine del 1999 e del 2002, il 26% alla fine del 2005, e qualche decimale al di sopra del 22% nel 2018 (1 milione e 140mila residenti).
Sono diverse le comunità africane con almeno 10 mila membri: Marocco (oltre 400 mila residenti), Egitto, Tunisia, Nigeria, Senegal, Ghana, Costa d’Avorio, Mali, Gambia, Burkina Faso e Guinea. Tra gli immigrati africani quelli dei Paesi sub sahariani hanno incrementato la loro incidenza e attualmente incidono nella misura del 42%, mentre la restante quota è costituita da nordafricani. Il pregiudizio circa una pretesa invasione degli africani viene smontata anche dalla constatazione che essi aumentano secondo ritmi più bassi rispetto agli immigrati asiatici e a quelli provenienti dall’Est Europa.
In caso di “immigrazione zero”, si prevede che nel 2050 l’America del Nord e l’Oceania potrebbero registrare una popolazione complessiva inferiore del 13% rispetto all’ipotesi che le attuali tendenze migratorie continuino senza variazioni. In Europa, questo calo ammonterebbe a -6%. Se nei Paesi industrializzati il PIL pro capite ha raggiunto livelli molto più elevati rispetto al resto del mondo, va riconosciuto che tale obiettivo è dovuto anche agli immigrati.
Secondo il World population prospects 2017 [14], la popolazione mondiale, dopo aver superato nel 2016 i 7,5 miliardi di abitanti, arriverà a 9,8 miliardi nel 2050. A metà secolo la popolazione europea non aumenterà e conterà poco più di 500 milioni, di persone (-1,0%). Invece cresceranno di circa un quinto le popolazione dell’Asia e delle due Americhe, quella dell’Oceania aumenterà del 40%. La popolazione africana supererà il raddoppio: + 106% complessivamente (+ 124% in Africa Occidentale). In particolare, sarà notevole la crescita demografica di diversi Paesi: si tratterà, segnatamente, di Stati Uniti, di un certo numero di Paesi asiatici (India, Pakistan, Indonesia) e specialmente di Paesi africani (Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Tanzania, Uganda). Ad esempio la Nigeria nel 2050 sarà il Paese più popoloso (dopo l’India e la Cina) e precederà gli Stati Uniti.
La crescita della popolazione africana continua un processo in atto da tempo. Si pensi a Dakar, la capitale del Senegal: contava 1.600 abitanti nel 1878 e attualmente ne ha circa 1 milione e 400mila (considerando la sola città) e 2 milioni e 500mila nell’intera area metropolitana, ovvero un quarto della popolazione nazionale). In prospettiva, subendo la Cina e diversi Paesi europei una contrazione demografica, le migrazioni potranno esercitare una funzione di riequilibro. Un caso del tutto particolare è rappresentato dalla Cina, che, secondo le proiezioni, diventerà il Paese di maggiore immigrazione nel mondo. Infatti, esaurita l’offerta di forza-lavoro assicurata dalle migrazioni interne in provenienza dalle aree rurali (si è trattato dello spostamento di ben 140 milioni di persone), andrà riducendosi la forza lavoro di alcune centinaia di milioni di unità.
In una fase di transizione demografica così accentuata, l’Africa sarà il continente più popoloso (a metà secolo i residenti saranno 2,5 miliardi): si tratterà di persone più giovani, più istruite e mobili, più propense all’urbanizzazione di Paesi, in declino demografico, disposti all’accoglienza.
I probabili nuovi scenari migratori
I nuovi scenari migratori sono strettamente connessi con i cambiamenti demografici. Le previsioni del 2016 hanno ipotizzato che si incrementeranno le partenze dai contesti caratterizzati da carenze occupazionali e sovrabbondanza di giovani (America Latina, Asia e naturalmente Africa subsahariana) [15]. Il potenziale migratorio mondiale è stato quantificato dall’agenzia Gallup tramite la somministrazione di 590 mila interviste in 156 Paesi. È emerso che ben 710 milioni di persone desiderano emigrare in maniera permanente, poco meno di un sesto della popolazione mondiale. Nei Paesi dell’Africa subsahariana vi sarà la più alta pressione migratoria e l’intenzione di emigrare riguarderà il 31% della popolazione adulta. Peraltro, la propensione a emigrare sarà elevata anche nei Paesi europei non UE (27%) e in quelli dell’America Latina (23%) [16].
Si determineranno scenari inediti anche sugli sbocchi dei flussi, come si è visto nel caso della Cina. In Italia saranno molto elevate sia la propensione a emigrare, superiore a quella ipotizzata per gli stessi Paesi sub sahariani, sia la propensione all’insediamento di nuovi migranti: 15 milioni le preferenze espresse per l’Italia secondo le proiezioni basate sulle interviste effettuate, per cui il Paese di colloca tra quelli più appetibili in tutto il mondo dopo gli Stati Uniti, la Germania e il Canada e altri cinque Paesi.
In sintesi, quindi, non corrisponde ai dati la sovra rappresentazione degli africani nei flussi migratori attuali. Nel futuro, diversi aspetti cambieranno e ad essi non ci si potrà preparare rifiutando i dati del presente, sia rispetto all’Africa che alle altre aree.
Quali politiche migratorie nel nuovo contesto
Se i fattori che incidono sui flussi internazionali mantenessero lo stesso andamento di quelli registrati tra il 2000 e il 2015, nel 2050 i migranti nel mondo potrebbero diventare 469 milioni. La presenza degli immigrati aumenterà anche in Italia, fin da ora soggetta al declino demografico: secondo le proiezioni demografiche dell’ISTAT, nel 2065 grosso modo vi saranno 7 milioni di italiani e 7 milioni di immigrati in più per garantire un certo equilibrio, anche se la popolazione sarà mediamente più vecchia. Sarà una situazione paragonabile a quella attuale di Paesi come l’Australia, il Canada e la Svizzera, che registrano una elevata incidenza della popolazione immigrata, da loro valorizzata per lo sviluppo nazionale.
Invece in Italia, già da alcuni anni e con un radicale cambiamento rispetto al passato, le reazioni prevalenti nei confronti degli immigrati sono di paura e di chiusura, schierate a favore di politiche restrittive rispetto ai nuovi ingressi e discriminatorie nei confronti dei cittadini stranieri già si insediatisi in Italia.
Di fronte alle cause strutturali che influiranno sul fenomeno migratorio a livello globale è indispensabile un ripensamento culturale e politico, avendo il coraggio di programmare una serie di decisioni anche a medio e lungo termine, sia a livello nazionale che a livello internazionale.
Nel mese di dicembre 2018 l’Italia non ha firmato a Marrakesh il Migration Global Compact, contrariamente a quanto fatto dalla quasi totalità dei Paesi del mondo. Eppure questo accordo ha posto le prime basi per gestire la complessità del fenomeno. In Italia i due recenti “decreti sicurezza”, entrati rispettivamente in vigore alla fine del 2018 e all’inizio del 2019, sono improntati a un orientamento sospettoso e restrittivo dell’immigrazione e in essi si riscontra, oltre alla carenza nella tutela dei diritti, la mancanza di efficacia trattandosi di un fenomeno mondiale e dalle profonde cause strutturali.
Secondo molti commentatori questa “nuova” politica migratoria si limita a trattare in maniera poco dignitosa la vita delle persone salvate da un naufragio, a rendere più difficoltose le condizioni degli immigrati già residenti in Italia, ad alimentare il discredito nei confronti delle Ong, a vedere aumentare notevolmente la presenza irregolare e curare poco i contatti con i Paesi di origine.
Un’altra fondamentale opportunità sembra si stia presentando a livello di Unione europea, dopo le elezioni di maggio 2019, con il rinnovamento del Parlamento e della Commissione europea, i quali si sono già pronunciati per il superamento degli squilibri contenuti nel Regolamento di Dublino e per un’equa ripartizione dei nuovi arrivi. Il concetto di nazione, che non si identifica con il nazionalismo e il sovranismo (contrari a quanto previsto dalla Costituzione repubblicana) è tuttora fruttuoso come base per assicurare la coesione interna senza chiudersi alla collaborazione internazionale, indispensabile per gestire fenomeni epocali che superano la capacità di intervento del singoli Stati. Anche in Italia bisogna convincersi che il fenomeno migratorio può assicurare dei vantaggi al Paese (e in parte ciò sta già avvenendo) e adoperarsi di conseguenza. Gli africani si aspettano dall’Italia una politica di buon vicinato, nel loro e anche nel nostro interesse. Considerato che tra gli italiani nel 2018 le morti sono prevalse sulle nuove nascite di ben 251 mila unità e gli italiani espatriati sono stati almeno 70 mila in più rispetto a quelli rimpatriati. In realtà, completando i dati registrati dall’ISTAT con quelli degli archivi dei Paesi di destinazione, risulta di una miopia incredibile il fatto che non si riesca a riconoscere all’immigrazione una funzione positiva.
L’ambivalenza dell’esodo: perdita del personale qualificato e benefici delle rimesse
Chi si reca all’estero, dove trova più elevati standard di vita, difficilmente tende a ritornare nei Paesi di origine, caratterizzati da ristrettezze economiche, ridotte opportunità economiche e occupazionali e turbolenze di vario genere. Anche gli studenti, che lasciano il proprio paese per recarsi presso università straniere, per lo più tendono a restarvi. Molti professionisti africani emigrano e l’Africa spende annualmente diversi miliardi di dollari per retribuire oltre centomila esperti occidentali occupati in mansioni di assistenza tecnica: un esempio estremo è rappresentato dal Gabon, dove il 90% delle aziende private è gestito da stranieri.
Spesso si pensa che tutti gli immigrati africani siano lavoratori non formati, di bassa o senza nessuna qualifica, da utilizzare solo nei lavori faticosi e meno retribuiti. Le ricerche condotte a livello internazionale attestano, invece, il depauperamento del Continente per la perdita di una quota rilevante del suoi uomini migliori: ciò avviene, come sosteneva Nelson Mandela, perché «le luci nel mondo sviluppato brillano più luminose» [17]. Lasciano l’Africa molti scienziati, medici, farmacisti, dentisti, infermieri qualificati, ingegneri, accademici, banchieri, come anche molti contabili, geometri, tecnici specializzati ed esperti nell’ambito dei servizi sociali. I costi degli studi, indubbiamente alti, restano a carico del Paese di partenza [18].
Costituisce un vero paradosso constatare che, agli inizi di questo secolo, gli scienziati e gli ingegneri africani presenti negli Stati Uniti sono risultati più numerosi di quelli rimasti a lavorare nei Paesi africani. Nell’area di Chicago è stata riscontrata la presenza di più medici della Sierra Leone di quanti ne siano rimasti in quel Paese. In Liberia un solo farmacista è chiamato a servire fino a 85 mila persone. Non desta quindi sorpresa che si riscontri nel continente il declino della qualità dei servizi pubblici, specialmente nei Paesi dell’Africa sub sahariana.
Una siffatta perdita umana è in atto da lungo tempo. Ad esempio, alla fine degli anni ‘70 del XX secolo il Sudan perse il 17% dei suoi medici e dentisti e il 20% dei suoi docenti universitari. Negli anni ’80 il 60% dei medici del Ghana si era stabilito all’estero, come anche avevano fatto quasi la metà dei suoi ingegneri e dei suoi geometri. Tra il 1978 e il 1999 lo Zambia è riuscito a trattenere sul proprio territorio solo 50 dei 600 medici specializzatisi nelle sue università.
L’OCSE calcola periodicamente per singolo Paese i costi dell’educazione, che per l’Italia nel 2015 erano i seguenti: diploma di scuola secondaria superiore 134 mila dollari; laurea triennale 158 mila dollari; laurea magistrale 178 mila dollari e dottorato 228 mila dollari. Per i livelli di istruzione più bassi i costi sono naturalmente inferiori ma non trascurabili. In ogni caso resta vero che, per ogni immigrato che arriva, il Paese di accoglienza realizza un considerevole risparmio per quanto riguarda gli investimenti formativi.
Dinamiche delle rimesse verso i Paesi di origine
Come si è visto, le cause sostanziali dei nuovi movimenti migratori dai Paesi africani sono di tipo economico, demografico, sociopolitico e quasi sempre riconducibili all’attuale modello di sviluppo e agli effetti della globalizzazione delle economie.
Il ritorno di chi è emigrato avviene in prevalenza attraverso le rimesse, che costituiscono un fattore importante anche se non risolutive per lo sviluppo del Paese di origine. I lavoratori qualificati, guadagnando di più, sono in grado di spedire in patria somme più consistenti. Già prima della crisi del 2008 le rimesse inviate ufficialmente nei Paesi sub sahariani ammontavano a 40 miliardi di dollari l’anno. In Nigeria la consistente disponibilità finanziaria assicurata dalle rimesse ha consentito di ridurre in misura notevole il numero dei poveri. Consideratene la quantità e la funzione, senz’altro può tornare utile una visione complessiva del fenomeno delle rimesse.
Un aspetto scarsamente conosciuto è il fatto che le rimesse sono una questione che non riguarda solo i migranti con cittadinanza straniera ma anche i migranti italiani. Infatti l’Italia si colloca al 15° posto nel mondo come Paese ricettore di rimesse e al 17° posto come Paese di invio. Nel periodo 2008-2017 in Italia sono pervenute rimesse per un valore di 30 miliardi di dollari, mentre quelle in uscita sono ammontate a 31 miliardi, coma ha fatto notare la Fondazione ISMU: tuttavia, il bilancio negativo si è invertito nell’ultimo triennio. Da tre anni infatti le rimesse inviate in Italia dagli italiani all’estero hanno superato le rimesse che gli immigrati residenti in Italia inviano nei loro Paesi: nel 2017 le rimesse degli italiani sono state pari a 9,8 miliardi di dollari, quelle degli immigrati 500 milioni in meno (nel 2016, 9,5 miliardi di dollari contro 9,2 e nel 2015, 9,6 miliardi di dollari contro 9,4, sempre secondo l’archivio dati della Banca Mondiale). Tra gli italiani i flussi migratori verso l’estero sono ripresi a partire dagli ultimi anni della prima decade del secolo, mentre i flussi degli immigrati diretti in Italia sono stati intensi fin dall’inizio del secolo.
Tra i grandi Paesi di emigrazione destinatari delle somme più alte di rimesse troviamo l’Egitto, la Nigeria e il Marocco. Tra i Paesi di invio delle rimesse al primo posto si collocano gli Stati Uniti (che è il primo Paese di invio anche delle rimesse verso l’Italia), seguito da Germania, Francia. Altri Paesi dai quali le rimesse inviate sono cospicue sono gli Emirati Arabi, l’Arabia Saudita, la Svizzera e la Germania.
Secondo la stima della Banca Mondiale le rimesse a livello mondiale, pari a 633 miliardi di dollari nel 2017, si sono portate a 689 miliardi di dollari nel 2018 e saranno pari a 714 miliardi di dollari nel 2019. Nell’ultimo triennio la quota di pertinenza dell’Africa del Nord è, rispettivamente, di 57, 62 e 64 miliardi, e quella dell’Africa subsahariana 42, 46 e 48 miliardi.
In Italia le rimesse in uscita sono passate da 5 miliardi e 73 milioni di euro nel 2017 a 6 miliardi e 200 milioni nel 2018. In tale anno Il Senegal è stato il quinto Paese nella graduatoria dei Paesi di destinazione, avendo ricevuto 389 milioni di euro, seguito dal Marocco con 330 milioni di euro. Nei Paesi meno ricchi gli importi derivanti dalle rimesse superano le somme dell’aiuto pubblico allo sviluppo messe a disposizione dai Paesi ricchi e incidono in misura notevole sui bilanci statali, superando talvolta anche i proventi delle esportazioni.
Sulla dimensione finanziaria da tempo assunta dalle rimesse, basti ricordare che già nel 1992 venne precisato che la massa finanziaria transitata attraverso i canali ufficiali è seconda solo a quella derivante dal petrolio. Successivamente è stato sottolineato, in ambito OCSE e in altri contesti internazionali, che all’utilizzo delle rimesse in loco va attribuito un certo collegamento con lo sviluppo, pur non essendo infondato considerarlo il fattore preponderante.
Il ruolo delle rimesse è fondamentale perché riesce a elevare il tenore di vita delle persone destinatarie, migliorare le loro condizioni abitative e di vita (sanità, formazione e alimentazione), sottrarre molti allo stato di povertà e favorire anche i piccoli investimenti produttivi. Questi aspetti sono positivi ma non costituiscono ancora il cuore dello sviluppo endogeno, che richiede maggiori investimenti produttivi e una strategia sinergica tra le famiglie e i governi del posto (e, auspicabilmente, anche quelli dei Paesi dove lavorano gli immigrati). In realtà, fatta eccezione per alcuni esempi positivi (non sempre di durata prolungata), molto resta da fare al riguardo.
Gli Stati membri dell’UE si sono impegnati a devolvere per l’aiuto allo sviluppo lo 0,51% del proprio Pil entro il 2010 e lo 0,7% nel 2015: la media europea attuale è pari allo 0,50% del PIL e solo qualche Stato membro raggiunge lo 0,70% del PIL. L’Italia, il 7° paese più industrializzato del mondo, nella legge di bilancio 2019 ha ridotto lo stanziamento per l’aiuto allo sviluppo al di sotto dello 0,30% del PIL (un livello faticosamente raggiunto nel 2017). Le tabelle del Ministero dell’economia e delle finanze hanno previsto, per giunta, degli “stanziamenti a decrescere”: 5.077 milioni di euro nel 2019, 4.654 milioni nel 2020 e a 4.702 milioni nel 2021. “Aiutiamoli a casa loro” è uno slogan che può essere utilizzato nell’ambito di una strategia di disimpegno, principalmente per contrastare l’immigrazione, che rimane comunque uno sbocco da non sopprimere. L’opportunità di investire nei Paesi africani per temperare le cause strutturali dei flussi migratori e renderli più ordinati ha portato l’Unione Europea, nel mese di novembre 2015, a costituire un apposito fondo fiduciario (Trust fund) con la dotazione di 1,8 miliardi di euro, finora solo parzialmente coperto. È auspicabile che per i bisogni dell’Africa si faccia di più e in maniera disinteressata.
Una maniera di aiutare l’Africa e le altre aree di esodo nel mondo consiste nel facilitarvi l’afflusso di rimesse, che costituiscono, come si è visto, una fondamentale risorsa finanziaria. Nel corso della conferenza internazionale sulle rimesse, svoltasi a Roma nel mese di novembre 2009, è stata auspicata la diminuzione dei costi dell’invio. Secondo stime della Banca Mondiale, se diminuisse il costo medio di invio di 5 punti percentuali in cinque anni, l’aumento del reddito nei Paesi ricettori può aumentare di 13 -15 miliardi di dollari. L’Italia ha seguito al riguardo una via che si discosta dal percorso tracciato nel convegno internazionale del 2009 e ribadito nell’incontro dei G20 di Cannes del 2011 circa la diminuzione dei costi di invio delle rimesse. Una prima deviazione da questo percorso si è avuto nel 2011, quando l’ultimo governo presieduto da Silvio Berlusconi approvò una tassa di 2 euro per ogni invio di soldi effettuato dagli immigrati irregolari. Socialmente inopportuno e operativamente poco praticabile, la norma venne abrogata dal governo Monti nel 2012.
Nel 2018, sotto il primo governo di Giuseppe Conte, si è ritornati sul tema con riferimento a tutti gli immigrati non comunitari. È stata infatti introdotta una tassa dell’1,5% (a partire dal 1° gennaio 2019) su ogni invio di somme all’estero (ma non in Stati membri dell’UE) superiori a 10 euro, effettuati tramite i money transfer operator (ad esclusione, quindi, degli invii tramite le banche e le poste). Questo provvedimento è stato definito vessatorio nei confronti degli immigrati, discriminatorio nei confronti degli operatori finanziari e non conforme al Trattato sul funzionamento dell’UE per quanto riguarda il movimento dei capitali. Ministero del tesoro e delle finanze, l’Agenzia delle entrate e la Banca d’Italia non hanno mai emanato le disposizioni di applicazione di questa disposizione, assolutamente unica in Europa, che conferisce all’Italia un primato non invidiabile, fortunatamente finora privo di efficacia operativa.
Oltre alle rimesse, una leva di supporto (seppure anch’essa non esclusiva) allo sviluppo in loco potrebbe consistere in un maggior coinvolgimento delle Ong, chiamandole a studiare e realizzare la microprogettazione con il coinvolgimento degli immigrati originari dei territori interessati e la popolazione autoctona. Infatti anche gli immigrati, dopo la riforma della legge sulla cooperazione allo sviluppo, possono essere scelti come cooperanti. Per conseguire tale obiettivo è indispensabile che vengano elevati gli stanziamenti appositi nella legge di bilancio, venga ampliata la quota di competenza delle Ong, sia superata la mentalità negativa ultimamente alimentata nei loro confronti mentre, da parte delle Ong, bisogna ampliare la disponibilità a ricorrere maggiormente agli immigrati nelle realizzazioni progettuali.
Infine, è fondamentale tenere presente che, per aiutare gli africani a casa loro, bisogna tenere presente che il dispendioso stile occidentale di vita comporterà sempre lo sfruttamento dell’Africa. Oltre alle cause esterne entra in gioco anche il comportamento personale. La propensione al consumismo, qualora non venga contenuta, costituirà sempre un fattore di squilibrio e sarà di impedimento alla realizzazione di una giustizia distributiva più accettabile a livello mondiale.
L’apporto degli immigrati ai Paesi di inserimento: il caso italiano
Il molteplice ruolo delle migrazioni internazionali è ben compendiato in questa frase del grande economista John Kenneth Galbraith (1908-2006): «Le migrazioni sono la più antica azione di contrasto alla povertà, selezionano coloro i quali desiderano maggiormente riscattarsi, sono utili per il Paese che li riceve, aiutano a rompere l’equilibrio di povertà nel Paese di origine: quale perversione dell’animo umano ci impedisce di riconoscere un beneficio tanto ovvio?».
Per questo va superato l’atteggiamento negativo che si riscontra in Italia nei confronti dei migranti, specialmente se provenienti dall’Africa. È indubbia la loro funzione di ri-equilibrio sul piano demografico, essendo una popolazione più giovane e con un tasso di sviluppo più alto. Le proiezioni demografiche negative, elaborate sul lungo periodo, trovano una conferma di quanto sta avvenendo: il livello delle nascite, che raggiungeva circa 1milione negli anni ’60 del secolo scorso, si è più che dimezzato e continua a decrescere, così come diminuiscono i residenti appartenenti alla classe attiva (15-65 anni).
Anche nel 2018 la popolazione residente in Italia (60 milioni 391 mila) è diminuita (di 90 mila unità) a causa del calo degli italiani. I decessi sono prevalsi sulle nascite di 187 mila unità complessivamente: tra i soli italiani le morti sono prevalse di 251 mila unità!). È basso il numero medio di figli per donna (1,32). Le persone con 65 o più anni incidono per un quinto sulla popolazione totale e tra di essi aumenta sempre più il bisogno di assistenza.
Ma non si tratta solo di un positivo apporto a livello demografico. Grazie al loro l’inserimento nel mercato del lavoro (quasi 2,5 milioni di persone), gli immigrati assicurano un grande aiuto alla gestione pensionistica, della quale sono consistenti finanziatori (oltre 11 miliardi di euro pagati per i contributi previdenziali) e suoi residuali fruitori (meno dell1% dei 16 milioni di pensioni pagate in Italia).
Gli immigrati, rappresentando il 10% degli occupati e il 10% dei titolari d’impresa, assicurano un grande sostegno. Essi pagano più di 7 miliardi di tasse. Il confronto tra quanto essi costano alla spesa pubblica e quanto essi versano all’erario ha evidenziato un importo netto a favore dell’Italia di 1,7 miliardi di euro, come evidenziato nel Dossier Statistico Immigrazione 2018. Ne consegue l’impegno a sostenere l’integrazione degli immigrati, da intendere come un processo di interscambio reciproco, in un quadro chiaro di doveri e di diritti.
Proposte all’Unione Europea della diaspora africana [19]
«Siamo un gruppo di mediatori culturali, operatori e ricercatori, che a gennaio 2017 abbiamo presentato l’Africa agli iscritti al Master sull’immigrazione dell’Università di Tor Vergata a Roma. Venuti a conoscenza del proposito dell’Istituto “S. Pio V” e di Idos di presentare un libro sul 60° anniversario del Trattato di Roma e sulle politiche europee finora condotte, abbiamo chiesto di far sentire anche la nostra voce. Questo documento fa riferimento alla diaspora africana: noi personalmente ne rappresentiamo solo una piccola parte, però siamo certi che le nostre esperienze si inseriscono in un patrimonio condiviso da tutti i fratelli africani, ai quali ci unisce l’amore per il nostro continente, il vissuto migratorio e anche l’attaccamento all’Europa.
Il fatto che l’anno scorso l’Onu abbia dedicato un decennio ai cittadini di origine africana, per favorirne il rispetto, indica che partiamo da una situazione di difficoltà. Chi resta impressionato dal colore della nostra pelle, chi dalla differenza di religione, chi dalla nostra gente resa povera nei nostri Paesi di origine e spesso anche nelle città che ci accolgono. Si va dall’indifferenza al mancato apprezzamento, al disprezzo, alla xenofobia, alla paura e al razzismo e si diffondono discorsi d’odio sempre più preoccupanti. Sarebbe, però, sbagliato limitarsi a descrivere questo scenario. In Italia si riscontrano eccezionali espressioni di convivenza multiculturale e multireligiosa, favoriti da una fruttuosa sinergia in diversi ambiti della società: lavorando fianco a fianco, si riesce a progettare azioni positive.
Rimaniamo molto rattristati di fronte a questa ambivalenza, che rischia di offuscare i meriti che spettano al Vecchio Continente. Non vogliamo indugiare sui secoli nei quali si praticava la schiavitù: il ricordo, tuttavia, per non essere meramente formale, dovrebbe servire a evitare le attuali forme di schiavitù, spesso mascherate ma sempre a servizio del profitto: un comportamento che allarga le ferite dell’Africa e costituisce una ferita impressionante alla dignità dell’Europa cristiana. Non vogliamo parlare neppure della colonizzazione, praticata a lungo nei nostri Paesi con la pretesa di mostrarci l’esempio “del mondo civilizzato” da seguire (a dire il vero non sempre encomiabile), che tra l’altro si sentiva autorizzato ad appropriarsi delle nostre risorse e a tenerci in una situazione di inferiorità strutturale.
Tutto questo è passato e gli africani, persone che non dimenticano quanto è avvenuto ma non serbano rancore, si chiedono che cosa potremo fare nel futuro, dando l’avvio a una collaborazione basata sul riconoscimento reciproco, dove l’uomo ne è il punto focale.
Non crediamo che a separarci debbano essere il colore della pelle e le differenze religiose, per il semplice motivo che la religione non deve essere elemento di divisione. I molti africani che si rifanno alle religioni tradizionali, come anche quelli di fede cristiana, islamica o di altra fede, dovrebbero dialogare maggiormente con gli europei in una logica di reciprocità per riuscire a convivere senza conflitti degenerativi, e senza denigrazioni di sorta. Il nostro ruolo di mediatori interculturali serve anche per promuovere questa prospettiva di speranza.
La previsione di quanto ci attende ci porta a pensare che il futuro dell’Europa sarà più legato a quello dell’Africa, un continente che non solo raddoppierà la sua popolazione, accreditandosi come un grande mercato di consumatori, fatto di persone giovani e motivate a diventare più preparate in tutti i campi per poter valorizzare quella miniera di risorse che è il loro continente.
Non siamo una terra insonnolita o addirittura addormentata, come qualcuno continua a definirci. L’Africa ha un ritmo elevato di sviluppo, ma parte da posizioni molto sfavorevoli per cui il cammino da percorrere è lungo, mentre il nostro passo non è ancora spedito. Tra di noi sono ancora molti quelli propensi a combattersi tra di loro, anche perché non sempre sappiamo scegliere i migliori rappresentanti politici, con un divario notevole rispetto ai grandi uomini che hanno portato all’indipendenza, dando il via a un movimento di pensiero così profondo che tuttora conserva la sua attualità. Anche oggi, la competenza culturale e politica e una chiara coscienza di cittadinanza permetterebbero ai nostri governanti la conclusione di accordi più idonei e più trasparenti con l’Europa, senza limitarsi al traffico di armi. Amaramente si può aggiungere: «Ma non è forse vero che tutti i Paesi di ogni continente si combattono tra di loro?». Purtroppo, all’origine di questo cammino faticoso e attardato vi sono spesso gli europei con i loro interessi, che ci portano a contrapporci gli uni agli altri anziché mostrarci tra di noi solidali.
Come africani della diaspora vogliamo partecipare sentitamente alla celebrazione del 60° anniversario del Trattato di Roma istitutivo della Comunità economica europea, poi diventata Unione europea e propostasi come esempio al mondo intero per il suo lungimirante processo di integrazione. Del cammino fatto apprezziamo molte realizzazioni, ma vorremmo di più e con convinzione proponiamo all’Europa tre obiettivi.
Aiutate con maggiore generosità lo sviluppo integrale ed endogeno del continente africano. Servono senz’altro più risorse, ma anche una programmazione che sia vicina alle attese economiche sociali e culturali delle popolazioni africane e dei loro Paesi e coinvolga anche gli africani della diaspora, che conoscono bene i loro Paesi e sono indispensabili per far calibrare meglio gli interventi, creando ponti solidi tra i due continenti. Solo così, con il tempo, si potrà venire a capo dei flussi di profughi che scappano da situazioni invivibili.
Incentivate il rispetto delle culture, essendo questo il vero segreto di una integrazione duratura, che riesce a unire senza confondere e a distinguere senza separare. Le buone prassi, riscontrabili in Italia come in altri Stati membri, attestano che è possibile questa nuova via, lontana dai modelli tradizionali che dovrebbe caratterizzare sempre più la progettazione europea.
Salvaguardate la dignità degli africani e di tutti gli immigrati, da considerare i nuovi cittadini dell’Unione europea in sintonia con la sua grande tradizioni umanistica, con la quale non si compone l’odio verso “gli stranieri”. La nostra idea dell’Europa è così grande da consentire la convivenza con altre culture, altre religioni e altri popoli in un orizzonte di pace. Crediamo che questi due grandi continenti non debbano avere dei destini solitari e debbano inglobarsi insieme a tal fine.
Antonio Tajani, il precedente presidente del Parlamento Europeo (fino alle elezioni di maggio 2019) accennò al rischio di colonizzazione cinese dell’Africa. Fu dura la replica del governo cinese, nella quale si rivendicava la completa estraneità del colonialismo all’interno della loro politica estera. Tuttavia, sul piano dell’analisi politica non mancano affatto gli autori che non hanno dato alcun peso a questa puntigliosa precisazione. Essi, infatti, ritengono che il colonialismo, praticato dai cinesi in Africa in maniera silenziosa fino al 2010, lo è stato poi in maniera aperta (viene citata come punto di svolta un’apposita Conferenza di Pechino svoltasi nel 2012). Le multinazionali di quel Paese, con i loro investimenti e una presenza sempre più corposa e appariscente, hanno conquistato l’Africa in meno di un decennio: non con le armi, quindi, ma con gli strumenti finanziari in grado di creare un completo asservimento dei governi locali.
Da uno studio effettuato dalla China-Africa Research Initiative presso la Johns Hopkins School of Advanced International Studies, risulta che la Cina ha prestato un totale di 143 miliardi di dollari ai 54 Paesi africani principalmente per il tramite dell’Export-Import Bank of China e dalla China Development Bank. Al vertice 2018 del Forum per la cooperazione tra Cina e Africa (FOCAC), il presidente Xi Jinping ha reso noto il lancio di un nuovo fondo comune di 60 miliardi di dollari per potenziare lo sviluppo del continente [20]. La Cina, con le sue numerose imprese, non solo è diventata il primo partner commerciale dell’Africa, ma di recente è interessata anche al settore del piccolo commercio. Ad esempio, le imprese cinesi sono presenti nelle miniere di cobalto della Repubblica Democratica del Congo, che detengono il 60% delle riserve mondiali, spediscono in Cina il 90% di quanto estraggono e poco si curano (così come non lo fanno i governanti locali) della tutela dei lavoratori africani, costretti a scavare il minerale anche con mezzi rudimentali. Amnesty International ha stimato che le imprese cinesi abbiano coinvolto almeno 40 mila ragazzi dai 7 anni in su, costretti a lavorare per 12 ore al giorno dietro pagamento di soli 2 dollari. A livello militare la presenza cinese si estrinseca, oltre che con la vendita di armi, attraverso le operazioni di peace-keeping e in altri accordi con i governi locali, di cui è un esempio quello con la Nigeria per combattere il movimento Boko Haram. La Cina, interessata al petrolio, in Angola da tempo ha insediato una propria collettività stabile, che nel 2004 si denunciò che fosse composta anche da reclusi fatti appositamente uscire dalle patrie galere, ripetendo così, ma sul territorio di un altro Stato, quanto gli inglesi fecero all’inizio della colonizzazione dell’Australia.
È stato calcolato che la quasi totalità degli investimenti cinesi abbia riguardato le infrastrutture (specialmente ferrovie e porti (come quello importantissimo di Gibuti), l’estrazione dei minerali e del petrolio. Solo l’1,6% dei prestiti cinesi è stato dedicato ai settori dell’istruzione, della sanità, dell’ambiente, alimentare e a quello umanitario, mettendo così in evidenza ciò che interessa la Cina.
Gli investimenti si stanno indirizzando in prevalenza verso sette Paesi africani dalla grande importanza strategica (per la presenza del petrolio o per altri motivi): Angola, Camerun, Etiopia, Kenya, Repubblica del Congo, Sudan e Zambia.
Gli africani hanno combattuto lunghe guerre sanguinose dagli inizi del XV secolo fino agli inizi del XIX secolo per ottenere l’indipendenza. Dopo il 1994, quando il Sudafrica è diventato l’ultimo Paese africano ad ottenere l’indipendenza (e per smembramento del Paese nel 2011 è seguita l’indipendenza del Sud Sudan), sembrava che l’Africa avesse ormai superato il peggio. Le cose non sono andate nel modo auspicato e in meno di dieci anni, però, la Cina ha colonizzato con successo l’Africa senza sparare un solo proiettile” [21].
I prestiti sono stati concessi in misura quanto mai abbondante: nel caso di Gibuti il debito contratto è pari all’88% del PIL nazionale. Questi debiti rischiano ora di trasformarsi in una colonizzazione finanziaria a scapito dell’indipendenza nazionale, per la quale tanto a suo tempo si lottò. Diversi Paesi sub sahariani a basso reddito incontrano serie difficoltà per pagare i debiti contratti: questo è il caso dell’Etiopia, della Repubblica Democratica del Congo e dello Zambia. Ne conseguirà o già ne è conseguita l’acquisizione da parte della Cina di imprese pubbliche o infrastrutture locali (come la società elettrica o i porti). Naturalmente, quanto detto criticamente a riguardo della politica cinese, non deve però far dimenticare gli effetti del neocolonialismo occidentale.
A 60 anni dall’anno dell’Africa: “A quando l’Africa?”
Il 2020 si colloca a 60 anni di distanza da quello che fu denominato “l’anno dell’Africa”, quando venne completato l’accesso all’indipendenza della maggior parte degli ex possedimenti coloniali da parte degli europei. In quell’anno il continente africano accedeva alla piena autonomia e contava in in un suo inserimento paritario nello scenario mondiale. Tale obiettivo è ben lungi dall’essere stato raggiunto e le attuali migrazioni, nella loro configurazione tutt’altro che soddisfacente, ne sono la riprova. Gli immigrati africani nei Paesi del Vecchio Continente vengono spesso considerati degli invasori anziché delle persone in grado di offrire un valido supporto, complice anche spesso il ruolo dei mass media.
Questa situazione contraddittoria potrebbe essere così riassunta: necessari ma indesiderati. A rendersene conto, insieme ai rappresentanti degli immigrati, non sono tutti ma solo una ristretta schiera di demografi, di esperti del fenomeno migratorio, di leader religiosi illuminati (e per questo criticati, come avviene nei confronti di papa Francesco). Il popolo per lo più presta attenzione a quelli che, per formazione, paura e anche incompetenza o interesse, presentano il fenomeno migratorio unicamente a tinte fosche.
Questo contributo, invece, ha inteso considerare le migrazioni africane non un male (seppure cariche di problemi) da estirpare o dal quale difendersi bensì una potenzialità da coinvolgere nello sviluppo dei Paesi di accoglienza. Il grado di sviluppo che oggi si riscontra a livello mondiale non sarebbe stato raggiunto senza l’apporto dei migranti europei (inclusa la copiosa componente italiana). Attuando accorte politiche questo fruttuoso interscambio potrà continuare sia attualmente che nel futuro.
I leader degli immigrati africani, in un contesto mondiale in cui i termini dello sviluppo sono cambiati, sono chiamati a stringere nuove alleanze e coltivare nuove prospettive sulla base paritaria di diritti e di doveri, e perciò bisogna andare oltre la contrapposizione tra popoli colonizzati e colonizzatori. Si può operare insieme, africani e autoctoni, come è avvenuto nella elaborazione di questo studio.
L’ipotesi di un’Africa non solo giovane e più autonoma sulla via del progresso, ma più pacificata, più democratica, più indipendente dalle vecchie e nuove forme di colonizzazione, più ricca e autonoma, è di interesse comune specialmente in prospettiva, sia per gli africani stessi che per tutti gli abitanti del “vecchio continente”. Una vera politica di buon vicinato, difficile da realizzare ma possibile, aiuterebbe sia l’Africa che l’Europa sulle vie el futuro. Per ciò, mutuando l’interrogativo che già si pose Ki-Zerbo, bisogna chiedersi “A quando l’Africa?”.
Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
[1] IDOS, Africa-ItaIia: scenari migratori, Edizioni IDOS/FEI, Roma, 2010.
[2] In quell’occasione venne presentata la ricerca congiunta (IDOS e Istituto di Studi Politici “S. Pio V”), L’Europa e i talenti, Roma, Edizioni IDOS. 2018.
[3] Giuseppe Bertini, Franco Pittau, “L’Italia e la Corte europea dei diritti umani: tra un passato internazionalmente aperto e il rischio del sovranismo giuridico”, in Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019.
[4] Franco Pittau, “Emigrazione e colonizzazione italiana in Africa”, in Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019.
[5] Tra l’altro, nel 2001 Joseph Ki-Zerbo ricevette una laurea honoris causa dall’Università di Padova.
[6] Edizione originale: Hatier, Oaris, 1972; edizione italiana: Storia dell’Africa nera: un continente tra la preistoria e il futuro, Einaudi, Torino, 1977.
[7] Histoire générale de l’Afrique : Méthodologie et préhistoire africaine, vol.1, UNESCO, 1980.
[8] Edizione originale: dition de l’Aube, La Tour d’Aigues: 2003; Edizione italiana: A quando l’Africa? Conversazioni con rené Holenstein, Editrice Missionaria Italiana (EMI), Bologna: 2005.
[9] Edizione italiana: Rizzoli, Milano, 2006. Il Novecento viene considerato molto diverso dal secolo precedente, iniziato subito dopo la rivoluzione francese (1789) e chiusosi con la “belle époque”. A Hobsbawm sono state mosse delle critiche sia per il suo pessimismo relativamente all’ultimo periodo del secolo, sia per l’eccessiva dipendenza, per alcuni argomenti, dalle fonti occidentali.
[10] Oxam, An economy for the 99%, Oxford 2017
[11] Il documento di lavoro del Sinodo, pubblicato su http:// www,vatican.va, reca questo titolo: La chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace.
[12] ONU, Trends in international migrant stock. The 2015 revision, New York, 2015.
[13] ONU, World population prospects 2017. The 2017 revision (New York, 2017.
[14] ibidem
[15] Il World economic and social outlook. Trends for youth 2016 (Geneva), 2016.
[16] Gallup world poll 2013-2016 Washington, 2017.
[17] Riportiamo solo due voci dell’ampia bibliografia citata nella relazione del prof. Luigi Gaffuri citata nell’introduzione: Brain Drain in Africa. Facts and Figure, s.l. e s.d. (ma 2005), in: http://www.aracorporation.org/files/factsandfigures.pdf; Bredtmann J., Martínez Flores F., Otten S., Remittances and the Brain Drain: Evidence from Microdata for Sub-Saharan Africa, «Iza Discussion Paper Series» (Institute for the Study of Labor), n. 10367, November 2016: 1-40, I-III.
[18] IDOS, Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, Le migrazioni qualificare in Italia. Ricerche, dati statistici, prospetti, Edizioni Idoxs, Roma, 2016.
[19] Documento redatto di Godwin Chukwu, Mohsen Hmidi,Raoudi Mediouni, Ndjock Ngana, Essane Clarisse Niagne, nell’ambito del Master in economia, diritto intercultura e migrazioni (MEDIM) dell’Università di Roma Tor Vergata.
[20] Cfr, ad esempio, George Tubei, https://it.businessinsider.com/cosi-la-cina-ha-colonizzato-lafrica-in-meno-di-10-anni-senza-violenza/https://www.agi.it/blog-italia/africa/lafrica_gi_una_colonia_cinese-1643289/news/2017-04-02/
[21] George Tubei, https://it.businessinsider.com/cosi-la-cina-ha-colonizzato-lafrica-in-meno-di-10-anni-senza-violenza/
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Godwin Chukwu, originario della Nigeria, mediatore interculturale, è attivo a Roma fin dagli anni ’80, si è distinto nel lavoro interculturale specialmente a Roma, dove è stato uno dei primi membri del “Forum per l’intercultura”, che dalla fine degli anni ’80 per oltre un ventennio ha fatto capo alla Caritas, operando nella scuola e nella società. Ha promosso e coordina la Federazione delle Diaspore Africane in Italia (FEDAI), cui aderisce l’associazione Baobab, di cui è presidente. Tiene relazioni e conferenze in varie parti d’Italia.
Steve Emejuru, originario della Nigeria, mediatore interculturale, impegnatosi nel settore interculturale fin dagli anni ’80 e specialmente a Roma, membro fondatore del “Forum per l’intercultura”, che ha fatto capo alla Caritas, operando nella scuola e nella società. Aderisce ed è coordinatore del Movimento degli africani, che organizza a Roma il carnevale africano e assegna annualmente il “premio Pannella” a chi si è speso a favore degli immigrati africani e dell’Africa. È animatore attraverso la danza africana.
Ndjock Ngana, originario del Camerun, mediatore interculturale, poeta e autore di vari libri di poesie, è arrivato in Italia nel 1974, si è distinto nel lavoro interculturale specialmente a Roma, dove è stato uno dei primi membri del “Forum per l’intercultura”. Fondatore dell’Associazione Kel’lam, che significa “un bel giorno” nella sua lingua “basaa”, è studioso delle culture e tradizioni africane, svolge progetti e tiene relazioni e conferenze in varie parti d’Italia. Tiene relazioni e conferenze in varie parti d’Italia.
Franco Pittau, ha unito l’attività di ricercatore a quella di operatore sul campo. Ha fondato il Dossier Statistico Immigrazione ed è stato presidente del Centro studi e ricerche Idos (la cooperativa editrice del Dossier) fino al ,2015, diventandone quindi presidente onorario. Insieme alla moglie Lidia ha fondato il Forum per l’intercultura verso la fine degli anni ’80, riuscendo a farvi coinvolgere i mediatori interculturali e le associazioni di immigrati e di italiani più sensibili alla convivenza delle culture.
Angela Plateroti, per lunghi anni insegnante presso le scuole per adulti di Roma, ha condotto un’intensa attività interculturale all’interno dei programmi curricolari, divenendo membro attivo dall’Associazione Kel’lam e collaborando, insieme a diverse associazioni italiane e di immigrati, al programma di attività del “Forum per l’intercultura” promosso dalla Caritas di Roma. Segue per Kel’lam la progettazione e le partnership.
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