Per tanti di noi l’appropriazione cognitiva del mondo ha inizio, specie quando è precoce, col destarsi acuto della curiosità verso tutto ciò che ci circonda, quando lo sguardo comincia a indugiare su oggetti, particolari, angoli e pieghe riposte dell’ambiente che più ci è familiare, come fosse un universo da esplorare.
Per alcuni di noi, tuttavia, specie per quelli generati in Sicilia nel primo dopoguerra, fra il 1943 ed il 1953, uno stimolo esterno a esplorare i reperti di un passato recentissimo era costituito dalle sin troppo evidenti tracce delle rovine e delle devastazioni provocate dai bombardamenti e dai furiosi combattimenti della torrida estate del 1943 in Sicilia. Dolorosamente palesi ci apparivano le deformità dei corpi dei reduci da tutti i fronti di guerra, le storpiature e le ripugnanti mutilazioni di tanti sopravvissuti alle cure sommarie di ospedali e lazzaretti. E ancora, irreconciliabili – anche se sotto traccia – covavano i rancori fra i vinti, che poi furono tutti, fra gli orfani dell’Impero, della monarchia o del fascio, da una parte, e, dall’altra, i tanti, i più, che nello spazio d’un mattino mutarono identità e, umiliati, cercarono e trovarono un futuro nelle istituzioni repubblicane garantite dalla nuova potenza imperiale emergente, e si consolarono stringendosi in massa intorno agli altari, dai quali si esaltava il Pantocratore con le Laudi regie dei pontificali: Christus vincit, Christus Regnat, Christus imperat, la cui melodia veniva ostinatamente e interminabilmente reiterata nell’etere da carillon e celesta, sulle frequenze della Radio Vaticana.
Gli adulti erano assai reticenti sul passato recente, sfuggivano alle domande e, col senno di poi, possiamo forse capirli. Nessuno di quella generazione, salvo i pochi esuli e i rarissimi oppositori interni del regime fascista, poté dire di avere veramente fatto i conti con la propria identità anteguerra, sicché i bimbi di allora crebbero cercando da sé le risposte che non ricevevano, indagando, chi più chi meno, per proprio conto, per capire cosa fosse avvenuto, da dove giungessero tutte quelle rovine e tutti quegli odi non sopiti.
La guerra divenne non l’esclusivo ma sicuramente uno dei miei baricentri mentali e si espresse in forma di collezionismo avido di equipaggiamenti abbandonati e prontamente metabolizzati come umili strumenti contadini: elmi riciclati come scodelloni per mangimi, baionette private dell’elsa e ridotte a robusti coltelli, taniche di carburante di veicoli militari, grossi bossoli d’ottone di proiettili d’artiglieria accantonati per funzioni ornamentali, magari risagomati per dare decoro ad altari di cappelle.
Ma le lunghe passeggiate sui bastioni delle dismesse fortificazioni della Marina o le escursioni dei boschi sulle colline intorno alla città, dove ebbero luogo i combattimenti di retroguardia delle truppe in ritirata attraverso lo Stretto di Messina erano ben più eccitanti: se schegge metalliche di ogni foggia testimoniavano le esplosioni sui bastioni semidemoliti, anfratti celati dal sottobosco dei colli ospitavano ancora fucili mitragliatori divorati dalla ruggine, elmi squarciati, o anche munizioni ossidate e manciate di bombe a mano all’apparenza ancora efficienti, della cui pericolosità ci avevano edotti i cartelloni esposti nelle aule delle scuole elementari e il ricordo di mani di legno applicate al posto di quelle tranciate da incaute manipolazioni di oggetti sconosciuti smontati per gioco, per guardarci dentro.
Si praticava insomma, senza idonee cognizioni, una sorta di archeologia del contemporaneo, il cui culmine era costituito da grandi opere fortificate in cemento armato: postazioni fisse di artiglieria antiaerea e antinave, caserme e casermette, bunker seminterrati a cupola con strane feritoie a imbuto a sezione rettangolare, manufatti allora tutti contrassegnati da cartelli che li assegnavano ad una non meglio definita zona militare teoricamente inaccessibile. Impianti costosi e superflui, destinati a cadere al primo assalto ma che davano l’impressione della possanza e dell’imprendibilità quando ci si entrava dentro con cuore trepidante.
A queste fortificazioni il palermitano Attilio Albergoni ha dedicato studi pionieristici, quali le Architetture militari fortificate nel territorio di Palermo. 1940-1943. Con CD-ROM, Palermo, Nuova Ipsa, 2006; la Guida alle Postazioni militari e Batterie Antiaeree nel territorio di Palermo 1940-1943. Palermo, Trinacria Edizioni, 2010, che sono rimasti modelli isolati, se li si confronta con iniziative analoghe di improvvisatori senza progetto, incapaci di distinguere la ricognizione sistematica del territorio dal perseguimento di un lucro immediato, vagheggiato con velleità ma stentatamente e sporadicamente realizzato per sparuti gruppi di gitanti a prezzo fisso, intrattenuti col nulla di qualche cimelio e parche degustazioni di vini di seconda scelta, accompagnate da olive in salamoia e consimili pimenti mediterranei, in rustici casali, su cui il vento della guerra spirò senza turbinare.
A tanto ardite e puntigliose ispezioni all’aria aperta dei bunker superstiti nella provincia di Palermo, questo gentiluomo elegante, vigoroso e scattante ad onta degli anni, ha saputo alternare innumerevoli ore trascorse in umbratili archivi in Sicilia e all’estero per comporre le tante opere che lo hanno qualificato come accuratissimo e minuzioso storico militare specializzato sugli anni Trenta e Quaranta per l’area di Palermo, come indagatore dominato dalla passione dell’individuazione del non più esistente attraverso le tracce lasciate dalle distruzioni e persino dall’occultamento conseguente alle impetuose trasformazioni edilizie del tessuto urbano. A lui si devono ricerche definitive sui bombardamenti della città di Palermo dal 1940 al 1943 e sulla protezione ed il recupero di monumenti ed opere d’arte sotto il Governo militare alleato dopo la cessazione delle ostilità.
Di questo autore fecondo abbiamo qui da prendere in esame l’ultima produzione letteraria, un volumetto di novelle dedicato all’estate di guerra del 1943 in Sicilia, l’isola centro dei sui interessi e delle sue passioni, dal quale è partito, per farvi sempre ritorno, alla scoperta del mondo.
Nell’ordine, dopo i Racconti palermitani del ’43 ovvero: Quando cadevano bombe a “strafuttiri”, Palermo, Edizioni Anteprima, 2000, ed Il puparo di Piazza Marina e altre storie, Palermo, Officina Trinacria, 2010, esce adesso, presso le Edizioni Grafiche Palermitane, L’ultima estate, una raccolta di 14 novelle che mettono in scena aneddoti di vita quotidiana, amarezze e sorprese insperate, finali tragici e conclusioni a lieto fine.
L’autore avverte bensì in prefazione che «nei racconti la realtà e la fantasia si mescolano a tal punto da non riuscirsi a distinguersi più l’una dall’altra», quasi volesse indicare nella fantasia una strategia di compensazione per sopravvivere nella dura realtà siciliana di sempre. Ma l’avviso può anche essere inteso, senza incorrere in forzature, come una estensione degli studi di storia militare alla ricostruzione congetturale e lecitamente romanzata di quanto le documentazioni e le fonti statistico-burocratiche non dicono, una ricostruzione che può cercare, e talora trovare, la forma del giudizio storico ma che può anche offrire con meditata immediatezza le innumerevoli sfaccettature del vissuto soggettivo dei tanti uomini e donne, che a livello di massa furono travolti da un cataclisma militare e politico che incise a fondo, troncando improvvisamente e ciecamente tante vite e modificando traumaticamente e radicalmente il corso di tante altre.
Le novelle di Albergoni non rappresentano dunque un genere di scrittura totalmente eterogeneo rispetto alle sue opere storiografiche ma, in un senso ben definito, ne sono un ampliamento nella dimensione della invenzione, in quanto arricchiscono di particolari immaginati, ma verosimili, di vite vissute i dati freddi e impersonali di un agire collettivo che è opera di unità militari di varia dimensione e specialità, dalla divisione, al reggimento e alla compagnia, dallo stormo aereo alla squadriglia da caccia, e degli effetti di quelle azioni misurati in numero di morti accertati, dispersi, feriti, prigionieri, armamenti catturati e installazioni distrutte, che è indifferente alle vite dei singoli coinvolti in quell’agire, salvo che in ricostruzioni narrative di battaglie e campagne di guerra che integrino i fatti collettivi con le fonti memorialistiche dei protagonisti ai vari livelli di funzione e responsabilità, dal comandante d’armata al soldato semplice; e scompongano il gran fatto d’armi in frammenti e schegge di punti di vista di quanti ebbero la possibilità di riferirne o di quanti sopravvissero soltanto nella memoria di chi li vide morire. Tale somma di narrazioni parallele e consecutive può, alla fine, andare a comporsi in un affresco epico assai avvincente per un lettore non specialista di storia militare, in un’opera corale quale la possiamo trovare, per esempio, nei grandi libri di Cornelius Ryan (The Longest Day. D-Day, June 6, 1944 del 1959, A Bridge Too Far del 1974), Len Deighton (Bomber del 1970) o, da ultimo, di Rick Atkinson (The Day of Battle. The War in Sicily and Italy 1943-44 del 2007).
Ma le novelle di Attilio Albergoni non si lasciano inquadrare nel genere epico appena menzionato, poiché dal contesto generale, che l’autore conosce perfettamente ma presuppone, estrapola e lascia emergere singoli episodi immaginari, che però hanno tutti la caratteristica di corrispondere a criteri di possibilità e verosimiglianza, compreso l’ultimo, Amici d’infanzia, nel quale il capitano Paul Tornieri dell’Office of Strategic Service, viene lasciato in prossimità della costa da un sommergibile l’8 luglio 1943, ossia due giorni prima del D-Day, con una ricetrasmittente, per stabilire, dalla casa della vecchia zia nel paese di Solarina (i. e. Butera), «fra Gela e Licata» appunto, un contatto in codice con «gli agenti alleati, infiltrati dietro le linee nemiche dei vari fronti, incluso quello siciliano», per allertarli nell’imminenza dell’attacco e per predisporre un segnale luminoso per orientare i piloti degli aerei che trasporteranno i paracadutisti. Ora tutti questi particolari vanno a infrangere un tabù storiografico che ha sempre recisamente negato che agenti dell’OSS abbiano potuto operare in Sicilia prima del 10 di luglio per ragioni che si chiariranno nella digressione che segue.
Che le operazioni militari in Sicilia, ivi compreso il semestre di diretto governo militare alleato fino al febbraio 1944, abbiano avuto un carattere di unicità assoluta rispetto ad altre campagne sul teatro europeo è un dato assodato. In primo luogo fu assai rilevante la presenza, fra le truppe combattenti statunitensi, di soldati e sottufficiali di origine siciliana, che tornavano in armi nella loro terra per contribuire con la loro competenza linguistica, ancorché limitata al dialetto, al buon esito delle operazioni. Ma più che questo elemento, comunque essenziale al controllo del territorio invaso, la circostanza più evidente fu l’incontenibile rinascita della mafia sotto il governo alleato, al quale gli uomini d’onore si presentarono come vittime del fascismo, una rinascita favorita dal fatto che il governo militare fu non solo incline a considerare come inesistente questa radicata forma di criminalità ma, entro certi limiti, fomentò apertamente il separatismo a questa strettamente collegato.
Su questo punto la copiosa storiografia sul tema è discorde e si schiera o sulla linea Pantaleone-Marino-Casarrubea, che interpreta l’occupazione della Sicilia nell’ottica di un patto non scritto fra i servizi segreti americani e la mafia, oppure accetta in toto le conclusioni della storiografia e della memorialistica ufficiali americane, come hanno fatto p. es. Renda e Lupo, che escludono qualsiasi patto fra l’amministrazione degli Stati Uniti e la mafia. Il punto debole di entrambe le parti è la scarsità di documentazione accessibile negli archivi, che obbliga il primo partito a ricostruire gli eventi, invero di per sé eloquenti, congetturalmente e su base indiziaria, mentre costringe il secondo alla posizione paradossale: di negare l’esistenza di un accordo con la mafia perché nella documentazione archivistica non se ne trova traccia convincente (Renda); o perché non sarebbe esistito, all’epoca, un soggetto unico “mafia”, col quale l’amministrazione americana potesse trattare (Lupo).
Ma il primo autore, privo di dubbi o sospetti oltre ogni misura, non si rende conto che l’invocato scrupolo filologico nella escussione dei documenti è vano, poiché nessuna documentazione di operazioni di sovversione dei servizi segreti viene di norma versata agli archivi pubblici, essendo per lo più destinata alla distruzione. È infatti consolidata prassi dei servizi segreti il non lasciare mai tracce a futura memoria di atti che potrebbero compromettere la reputazione di corpi istituzionali o di singoli agenti.
Palesemente sofistica è invece la “pensata” di Lupo, il quale conosce perfettamente la natura federativa della mafia italo-americana nonché la lunga storia delle relazioni a tutt’oggi attive dei padrini di qua e di là dell’Atlantico. (Non posso a questo punto non rinviare sommariamente almeno a Michele Pantaleone, Mafia e Politica, Torno, Einaudi, 1962; Giuseppe Carlo Marino, Storia della mafia, Milano, Newtin Compton, 1998; Giuseppe Casarrubea e Mario José Cereghino, Operazione Husky. Guerra psicologica e Intelligence nei documenti segreti inglesi e americani sullo sbarco in Sicilia, Roma, Castelvecchi, 2013; Francesco Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970. Volume III: Dall’occupazione militare alleata al centrosinistra, Palermo, Sellerio, 1987; Salvatore Lupo, La mafia. Centosessant’anni di storia, Roma, Donzelli, 2018).
Nella massiccia cortina di reticenza della storiografia ufficiale statunitense, si era tuttavia aperto uno spiraglio di qualche entità, che la storiografia ufficiale ha sostanzialmente ignorato, continuando a negare che fossero stati infiltrati agenti italo-americani in Sicilia prima dello sbarco. Gli uomini del controspionaggio sarebbero insomma sbarcati sulle spiagge il D-Day, assieme alle altre truppe. Su questo punto non si ammettevano deroghe, come è del tutto palese nelle invero poco interessanti ed assai reticenti memorie di Max Corvo (The O. S. S. in Italy. 1942-1945, New York, Praeger, 1990), insediatosi a Falconara il 10 luglio con la sua sezione dell’OSS (Office of Strategic Services).
La fonte primaria è costituita dalla relazione di una commissione d’inchiesta diretta dal giudice William B. Herlands, che operò per disposizione dell’allora Governatore dello Stato di New York Thomas Dewey, che al boss Charles (Lucky) Luciano, condannato ad una lunghissima pena detentiva per organizzazione e sfruttamento della prostituzione, e ad altri esponenti di rilievo del cosiddetto “fronte del porto” di New York, aveva riconosciuto il merito il merito di avere aiutato lealmente ed efficacemente il Governo durante la Seconda Guerra Mondiale a) affidando ai portuali la vigilanza contro possibili sabotaggi ed ai pescatori di origine siciliana la sorveglianza delle coste e la individuazione e segnalazione di sommergibili nemici; b) reclutando molti oriundi siciliani affinché, in vista della invasione della Sicilia, fornissero informazioni sul terreno ed i porti dell’isola e indicassero i nomi e recapiti di “picciotti” o “uomini di rispetto” di sicura affidabilità, che gli agenti americani avrebbero dovuto contattare sull’isola per ottenerne la collaborazione. Sulla base di queste benemerenze patriottiche, Luciano, che aveva coordinato tutte le attività, ottenne da Dewey, nel 1946, il condono della pena e l’estradamento in Italia.
L’inchiesta Herlands del 1954, condotta con l’escussione di numerose deposizioni giurate di membri militari e civili del controspionaggio navale, scagionò Dewey dalle pesanti accuse mossegli dagli avversari per il provvedimento di clemenza adottato nei confronti del boss italo-americano, ma fu secretata su richiesta del Comando della Marina degli Stati Uniti. Venti anni dopo fu messa a disposizione di uno studioso che ne trasse le informazioni essenziali: Rodney Campbell, The Luciano Project. The Secret Wartime Collaboration of the Mafia and the U.S. Navy, New York, McGraw-Hill, 1977 (traduzione italiana: Operazione Lucky Luciano, Milano, Mondadori, 1978). Sulla base della documentazione a sua disposizione Campbell poté affermare che fra il marzo 1942 ed il maggio 1944, fino a 73 ufficiali della Marina e 82 fra marinai e agenti civili del Terzo Distretto Navale cooperarono con continuità e intensivamente con la mafia in operazioni di Intelligence.
Con grande concisione e senza menzione di nomi queste circostanze furono implicitamente confermate, relativamente alle operazioni di sbarco in Sicilia, da uno storico ufficiale come l’ammiraglio H. K. Hewitt, la cui relazione desecretata (Action Report Western Naval Task Force. The Sicilian Campaign Operation “Husky” July-August, 1943) fu pubblicata nel 2017 sul sito del Naval History and Heritage Command, cui ha ora largamente attinto Calogero Conigliaro (I corsari del Terzo Reich e i segreti di Husky. Sicilia 1940-1943, Gorizia, LEG edizioni, 2017). Da ultimo si potrà leggere la non più reticente esposizione del contrammiraglio Tom Brooks, Naval Intelligence and the Mafia in World War II, presso lo U. S. Naval College di Newport, Rhode Island.
Se teniamo conto di questo complesso campo di controversie, l’opzione romanzesca di Attilio Albergoni appare giustificata e coerentemente sostenibile allo stato degli studi di storia militare. Ciò assodato, riprendiamo il filo dell’ultima novella di L’ultima estate, Amici d’infanzia, che è costruita secondo il modello del nostos, del ritorno alla patria d’origine, dove il capitano Paul Tornieri trova subito l’amore nella casa della zia “dove aveva vissuto la sua infanzia”, incontrandovi, al posto della parente defunta, l’amichetta di vent’anni prima, Carmelina, fattasi donna straordinariamente attraente, alla quale si unisce avidamente dopo un breve sonno ristoratore. Dopo l’amore il combattimento e, dopo questo una dolorosa separazione, destinata a concludersi con un happy end: Carmelina, rimasta incinta di Paul, riceve la comunicazione che il Quartier Generale Alleato del Mediterraneo aveva dato l’assenso al capitano Tornieri, che aveva espresso la volontà di sposarla. La donna partirà subito per imbarcarsi a Licata, su di una nave che la porterà ad Algeri per riunirsi all’amato. Il racconto si snoda con agilità e si arricchisce di modalità espressive dialettali nei dialoghi fra Paul e Carmelina, che evidenziano la restituzione alla patria degli avi e degli affetti originari del capitano Tornieri.
Non sono poche le novelle della raccolta che fanno uso del colorito vernacolare per potenziare l’espressività della narrazione. E non solo nei dialoghi. Talvolta è l’io narrante, che con un implicito omaggio a Camilleri, adotta in brevi incisi il dialetto, evitando tuttavia, e in ogni caso, di scadere in una variante del “vigatese”, che a rigore è un vernacolo ibrido escogitato e normalizzato, laddove la “parlata” di Albergoni è schiettamente palermitana.
Le 14 novelle sono divise dall’autore in due gruppi, che vogliono segnalare il differente modo di subire le asperità degli eventi bellici delle donne e degli uomini, dannate allo stupro ed alla prostituzione le prime, alla morte violenta i secondi. Ovviamente l’incontro-scontro fra siciliani e americani è uno dei fili conduttori unificanti, come nel Corrispondente di guerra, che è una sorta di compianto di una Palermo devastata e afflitta da ancora incolmabili disservizi e tuttavia ancora ammirevole per le tracce di un passato artistico unico; come nell’Antenato, che ha a protagonista di un salvataggio onirico il soldato Rosario Cangelosi della Seconda Divisione Corazzata americana, rimasto sul terreno gravemente ferito in seguito ad uno scontro coi tedeschi e come, ancora Unicu e puru scimunito, nel quale il mitragliere di coda di un bombardiere abbattuto, scampato fortunosamente alla morte, viene ucciso barbaramente ma senza alcun motivo da un contadino «scemo e sordo fin dalla nascita», che lo abbatte con un colpo di zappa quando l’aviatore scozzese George Forester gli si fa incontro con intenzioni amichevoli.
E di più non dirò per invitare alla lettura di queste novelle se non che esse sono interamente pervase da una forte empatia per i siciliani trascinati e umiliati in un conflitto subito senza averlo voluto, che, quando e per quanto possono, con tutte le loro forze s’industriano vitalisticamente a sopravvivere.
Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
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Nicola De Domenico, già docente di Filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Messina e di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Palermo, è stato componente dei consigli scientifici, rispettivamente, della Internationale Hegel-Gesellschaft e dell’Istituto Gramsci Siciliano di Palermo. Nel 2008 ha svolto attività di ricerca presso il Sidney-Sussex College, Cambridge UK, in qualità di Visiting Fellow. Collabora stabilmente con il «Giornale di Metafisica» e con la Fondazione Nazionale “Vito Fazio-Allmayer”. È presidente del Centro Internazionale di Cultura Filosofica “Giovanni Gentile” e ha al suo attivo diverse pubblicazioni sulla Filosofia italiana e tedesca contemporanea.
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