Stampa Articolo

Gli Italiani di Tunisia. Migranti due volte

166284246_3789723957814904_7642791413983736246_ndi Marcello Bivona 

I quattro mesi di campo profughi a Gargnano, a parte il primo terribile periodo trascorso ad organizzare la nostra vita, li avevamo vissuti come una vacanza. Era primavera, l’aria mite del Lago di Garda ci ricordava lontanamente le prime domeniche di mare nella nostra Tunisi. Il monte Baldo, con la cima innevata che gli conferiva un’aria elegante, era il nostro Bou Kornine stagliato davanti al mare de La Goulette verso Hammam Lif. L’odore dolce e lo sciacquio dell’acqua sulla spiaggia pietrosa del lago ci dava l’illusione di avere un piccolo mare.

Al campo profughi, tutto sommato, le giornate trascorrevano in un’illusoria tranquillità: quella che precede la tempesta. Tonton Pierot aveva scritto ai miei “venite a Milano, c’è il lavoro e ci sarà un raggio di sole anche per voi”.

Dopo l’Indipendenza, la maggioranza dei rimpatriati dalla Tunisia, compresi molti dei nostri parenti, avevano optato per la Francia. Da Ventimiglia a Marsiglia e oltre, decine di migliaia di italo-tunisini trovavano condizioni di vita che facevano rimpiangere poco la Tunisia. Stessa lingua, il francese, e poi il clima, il sole, il mare, il cibo.

Gagnano, Caserma Magnolini, già centro profughi negli anni 50-60

Gragnano, Caserma Magnolini, già centro profughi negli anni 50-60

No, non ci dovevamo finire a Milano. Anni prima, Tonton Pierot si era installato a San Giuliano Milanese, un paese di poche migliaia di abitanti nella periferia sud della grande metropoli dove una casa costava meno che in città. Ci sono voluti anni per accettarne la nebbia, il freddo, la desolazione e c’è voluto del tempo per apprezzare il nostro nuovo mondo. I reumatismi della mamma e della nonna, gli sconforti di papà, manovale negli stabilimenti Montecatini in zona Bovisa, erano un incentivo a reagire, combattere e affermare la propria esistenza.

Nonostante tutto, Papà era contento di essere tornato in “patria”. Una patria che non conosceva se non come concetto astratto. Noi italiani di Tunisia siamo stati migranti due volte. La prima quando i nostri nonni e bisnonni hanno abbandonato il sud d’Italia in cerca di fortuna, la seconda quando il rientro in “patria” non è stato che una nuova emigrazione. Con dolore e fatica abbiamo capito sulla nostra pelle che la madre non è colei che ti origina ma colei che ti allatta, ti accoglie e ti porta a diventare grande. Ci sentivamo italiani, ma la Tunisia era la nostra mamma. Come oggi l’Italia è la mamma di coloro che pur avendo origini “straniere” vi sono nati e cresciuti.

Tunisi, Porta del Belvedere

Tunisi, Porta del Belvedere

Milano l’ho vissuta sul bordo delle strade meno battute, in quell’equilibrio che ti permette di entrare ed uscire senza essere emarginato. L’ho attraversata sapendo quanto è difficile comunicare un sentimento che non puoi contenere. Sparite le ciminiere e i fumi che ammorbavano l’aria, dissolta la nebbia che l’avvolgeva nei suoi infiniti toni di grigio, questa città pare rinata a nuove vocazioni. Dalla finestra di un grande caseggiato in fondo a viale Monza, una sera osservavo un tramonto di fuoco. Il sole moriva dietro la geografia dei binari della Stazione Centrale. Un lungo treno, controluce, si perdeva lento nei depositi di Porta Garibaldi. In fondo, il mosaico dei quartieri residenziali con i picchi degli alti palazzoni tra cespugli di alberi, erano la sua cornice. Mancava la linea del mare, l’orizzonte aperto sull’infinito, la sagoma di una nave di passaggio.

Tunisi, Porta de France

Tunisi, Porta de France

Questa immagine mi faceva riflettere sulle cose che Milano ci ha negato. Poi ho pensato ai regali ricevuti. A me ha donato la chiave per raccontare mia madre. Non è poco. Lo sradicamento da Tunisi era stato un dolore troppo grande per lei. L’ha portato dentro di sé per tutta la vita. È stato talmente grande che non poteva finire con lei e prosegue in chi l’ha amata. Era un dolore silenzioso, fatto di rinunce, ricordi, disagi e rimpianti. Mai un lamento, però. Mai uno sconforto o la tentazione di lasciarsi andare. La mamma viveva la sua nuova vita a Milano apprezzando ciò che di positivo le offriva. Di Tunisi collezionava le cartoline. Le ordinava nei raccoglitori che le regalavo. Le raccoglieva per noi figli. Era la nostra eredità, perché quando ci avrebbe lasciati, guardando quelle immagini avremmo saputo dove trovarla. La semplicità delle parole che componevano il suo meraviglioso lessico era la sintesi del suo permanere con naturalezza a cavallo di mondi culturali differenti. Il privilegio di apprezzare la sua ricchezza me lo ha dato Milano. 

Tunisi, la Sinagoga

Tunisi, la Sinagoga

Il ritorno in “patria” apriva conti molto salati con la nostra identità. La lingua era uno degli scogli più ardui da superare. Con gli “italiani” non ci capivamo e dalle incomprensioni nascevano episodi involontariamente comici che ogni tanto ricordiamo perché entrati nella storia di famiglia. Una volta passò, come ogni settimana, il carro che vendeva frutta e verdura. Alla vista di una cassa di fichi, frutta che aveva sempre chiamato in francese, la mamma esclamò “oh, che belle fighe nere che ha, quanto vengono al chilo?”. Mia sorella che a scuola aveva già appreso i rudimenti del gergo popolare, tirò il grembiule della mamma e nell’orecchio le disse “mamma, qui è una brutta parola, non si dice”. Le avventure linguistiche continuavano allo spaccio alimentari. “Mi dà un rotolo di zucchero?” chiedeva la mamma, secondo l’uso degli italiani di Tunisi che usavano l’antico termine di “rotolo” come unità di misura corrispondente al mezzo chilo. “Un rotolo?…Signora, lo zucchero lo vendiamo a chilo”. Un’altra volta la mamma chiedeva un pacchetto di carta igienica e la commessa rispondeva “la carta igienica la vendiamo a rotolo”.

La mia mamma non ci capiva più nulla. Reinventava la sua vita per permettere a noi di avere la nostra. Era la scuola dei sacrifici, delle privazioni, per conquistare uno spazio che ci permettesse di avere dignità senza pretendere nulla. Erano i giorni della rabbia per ciò che avevamo lasciato nostro malgrado. Avevamo una marcia in più, un motore potente dentro di noi, fatto di lingue, culture, saperi e conoscenze che ci aprivano orizzonti infiniti e ci rendevano estremamente moderni, avanti decenni rispetto al Paese che ci accoglieva: il nostro Paese.

Una delle privazioni più grandi era la rinuncia ai cibi ai quali eravamo abituati. Soffrivamo per l’impossibilità di preparare i nostri deliziosi couscous di carne e di pesce perché non si trovava l’ingrediente di base: il semolone. E poi mancavano le spezie e certe verdure. Il pesce ce lo potevamo scordare, nella nostra cittadina non esisteva ancora una pescheria (supermercati e surgelati erano di là da venire).

Sidi Bou Said, cafè des nattes

Sidi Bou Said, cafè des nattes

Le cose presero a migliorare quando nei primi anni sessanta iniziò a consolidarsi la presenza della comunità pugliese, proveniente prevalentemente da Gravina di Puglia. I “terroni” portavano le loro abitudini alimentari e culinarie facendo arrivare periodicamente dalla Puglia, con grossi autotreni, quello che non trovavano a Milano. Si diffusero l’ottimo vino del Salento, il pane di Altamura, cicerchie, lampascioni, fave e cime di rapa, legumi di ogni genere, taralli, la semola per le orecchiette e l’olio extravergine di oliva, che pian piano soppiantò l’utilizzo prevalente del burro.

Un giorno tra la piccola comunità di noi “tunisini” corse una voce “Picciotte, arrivao u sdirro, finalmente putemo fare una cuscusata di kifia!”, (nel nostro idioma siculo-tunisino lo sdirro era l’appellativo di semola e fare Kifia nell’arabo tunisino significa far festa, divertirsi). Era successo che nel forno di via Matteotti era arrivata la semola per fare le orecchiette e il pane di grano duro che reclamavano i pugliesi. Il mulino fornitore, adeguandosi alle nuove richieste, poteva procurare una macinatura più grossa: quella per preparare il couscous. Partendo dal cibo, comunità diverse iniziavano a dialogare, capirsi e confrontarsi. Le differenze arricchivano, il vantaggio dell’uno era un’opportunità per l’altro.

All’occorrenza la mamma mi preparava un bigliettino per la signora Mina, la fornaia. La bottega era dentro un antico cortile. Aveva grosse travi al soffitto, l’arredo era composto da vecchi cassetti in vetro per contenere pasta, riso e farine venduti a peso. “Cosa vuoi nani?”, mi chiedeva la signora Mina avvicinandosi con passo lento e pesante. Le consegnavo il bigliettino della mamma che leggeva a voce alta “Mi dà, per favore, un chilo e mezzo di semolone, quello grosso per il couscous, grazie”. “Voi siete i tunisini, vero?” mi chiedeva con aria professionale. Mentre pesava la semola, aggiustandosi gli occhiali sul naso aggiungeva “Ma se l’è ‘stò cuscus, una minestra?”

L'Autore con la mamma

L’Autore con la mamma

Quando la mamma decideva di fare il couscous era un evento. Per prima cosa andavano avvisati coloro che ne avrebbero avuto un piatto per pranzo: una vicina, un amico, un parente. La sera prima si mettevano a bagno i ceci che scivolavano nella bacinella colma d’acqua con un rumore di piccole pietre cadute dall’alto. La mattina dopo mi svegliavo col profumo dei peperoni gialli e rossi e delle melanzane viola che friggevano lentamente. In cucina era un tripudio di colori e profumi. Sui fornelli brillava il verde delle zucchine, l’arancio delle carote e dei pezzi di zucca, il biancore della verza, l’ocra dei ceci. Quand’era stagione si aggiungevano carciofi, cardi, fave fresche. Sorseggiavo la mia tazza di latte e seguivo i gesti e le espressioni della mamma che a un certo punto mi diceva “Ahia, sangomeo, ora mi dai una mano d’aiuto…macina les épices s’il te plait”. Apriva certi sacchetti di carta o di cellophane che contenevano spezie misteriose da usare con estrema parsimonia perché arrivavano dai parenti di Tunisi o dal pacco di tata Felicie spedito da Marsiglia. Miscelava cannella, chiodi di garofano, pepe nero, bocciòli di rosa. Caricava il vecchio macinacaffè e quando avevo finito di macinare, la mamma tastava la polvere tra il pollice e l’indice e mi chiedeva di ripassarla. La seconda volta la polvere scendeva velocemente e potevo concentrare lo sguardo sull’abilità di quelle mani che incocciavano la semola. Ne prendeva una piccola manciata, la bagnava con un po’ d’acqua e con gesti veloci la faceva roteare tra il palmo della mano e la punta delle dita. Questo movimento faceva incocciare i grani fino a raggiungere la dimensione voluta.

noi_italiani_di_tunisiaUn’operazione magica che poteva fare solo la mia mamma e prima di lei la sua mamma. Quanta sapienza nel muovere quelle dita. La mamma premiava la mia attenzione spiegandomi come muovere i polpastrelli per ottenere i grani di couscous ma era come se volesse dire “Stai attento, guarda ma tu non puoi farlo…è un incantesimo”.

Ora la cuscussiera carica di semola cucinava col vapore della carne e delle verdure che riempivano la parte inferiore della pentola e tutta la casa odorava di essenze ancestrali. Quelle mattine, intrecciando fili di memoria, la mamma tornava a Tunisi. In quel viaggio i fumi e i profumi del suo couscous entravano indelebilmente dentro di me.

Prima di mangiare ne portavo un piatto “bello conzato” a chi era stato promesso. Quando mi sedevo per assaporare il mio piatto preferito, la mamma prendeva dalla pentola un grosso ossobuco e mi versava il midollo che aveva riservato per me che dovevo crescere. 

Dialoghi Mediterranei, n.63, settembre 2023

 _____________________________________________________________

Marcello Bivona, è nato a Tunisi nel novembre 1953. All’età di cinque anni lascia la Tunisia a causa delle vicende che costringono la comunità italiana al rimpatrio. Da allora vive nella provincia di Milano. Il tema dell’Identità e della memoria sono presenti in tutta la sua opera. Lo strappo lacerante della partenza, l’esperienza disorientante della nuova vita in Italia, sono la base dei suoi racconti che siano scritti o filmati. Ha lavorato per molti anni come bibliotecario e organizzatore di eventi culturali realizzando diverse opere tra cui: Clandestini nella città, lungometraggio, prod. C.O.E., 1992; Ritorno a Tunisi, docufilm lungometraggio, prod. C.O.E, 1998; L’Ultima Generazione, romanzo, edizioni BESA, 2019; Siciliani d’Africa – Tunisia Terra Promessa, docufilm lungometraggio, prod. A. Campisi, 2022.

______________________________________________________________

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Migrazioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>