di Giuseppe Bea, Alessia Montuori, Franco Pittau, Michele Schiavone
Introduzione al “caso svizzero”: grandi numeri e altrettanti problemi
Nel quadro complessivo dell’emigrazione italiana la Svizzera si presenta, innanzitutto, come un caso esemplare per il numero di espatriati che vi si sono recati. Anche gli studiosi, pienamente consapevoli di non dover assolutizzare la dimensione quantitativa a scapito dei molteplici aspetti implicati nel fenomeno della mobilità, non esitano a riconoscere questa specificità.
È quello che ha fatto ad esempio Toni Ricciardi, un autore molto attento agli spostamenti degli italiani in questo Paese. Egli ha sottolineato che, dall’Unità d’Italia in poi, si sono diretti nella Confederazione circa cinque milioni di italiani: nel periodo 1876-1914 vi furono 982 mila espatri (incidenza del’8,7% sul totale degli espatri); nel periodo tra le due guerre mondiali oltre 670 mila espatri (il 9,5% degli espatri totali), nel triennio 1946-1949 quasi 260 mila espatri (oltre il 50% degli espatri diretti in Europa, più del doppio rispetto a quelli che si recarono in Francia); nel decennio 1946-55 il 26% degli espatri totali e quasi il 50% degli espatri in Europa; nel decennio 1966-64 circa un terzo sugli espatri totali e il 40% sugli espatri continentali. Dal 1876 al 1976 la Svizzera, che nell’Ottocento era stata un Paese di emigrazione, divenne Paese di accoglienza per una enorme massa di italiani, di cui la metà dopo la Seconda guerra mondiale.
Questi numeri non mancano di fare impressione, tanto più se si tiene conto che i dati ufficiali sono in qualche misura inferiori ai flussi effettivi. Ad esempio gli espatri irregolari diretti in Svizzera nell’immediato dopoguerra fino al 1960, secondo le stime di Rinaudo, furono tra i 10 mila e i 15 mila [1]. Dopo la Seconda guerra mondiale la Svizzera ha raddoppiato la sua popolazione, passando da quattro a oltre otto milioni. All’origine di questa profonda trasformazione demografica e socio-economica troviamo anche l’Italia, con l’accordo occupazionale firmato nel 1948. Si può aggiungere che negli anni 2000 i flussi, seppure non con l’ampiezza del passato, sono continuati, e che la Svizzera è rimasta una meta ricorrente per gli emigranti italiani.
La Confederazione riservò a questi emigrati un’accoglienza quanto mai problematica: l’atteggiamento della popolazione fu in generale poco disponibile e molto severe furono le prime norme sull’immigrazione, fortemente orientate a mantenere la precarietà della presenza straniera. Fu questo il tema alla base del referendum del 1970, chiamato a rispondere sulle rigide posizioni del conservatore Schwarzenbach, non approvato unicamente per un leggero scarto di voti. Ciò indusse il governo federale e il parlamento a muoversi con estrema prudenza sulla via delle aperture. Per gli italiani la fase della stabilizzazione del soggiorno e dell’avvio dei ricongiungimenti familiari fu avviata con l’accordo bilaterale del 1964, mentre una maggiore tutela anche a favore degli altri migranti comunitari fu raggiunta con l’entrata in vigore nel 2002 degli accordi sottoscritti con l’Unione Europea.
Si vedrà nel corso del saggio che i miglioramenti giuridici hanno bisogno di tempo per modificare le condizioni esistenziali e si accompagnano a resistenze di vario genere nei confronti dello “straniero” fino a considerarlo un soggetto con pari dignità, offrendogli le stesse opportunità senza discriminazioni rispetto agli autoctoni. Vi sono diversi altri Paesi verso i quali si indirizzò l’emigrazione italiana di massa, ma l’analogia quanto alla dimensione quantitativa non esclude affatto altre differenze con la Svizzera, ad esempio rispetto all’Argentina e al Brasile, nei cui immensi territori da colonizzare l’insediamento stabile fu immediato e “fondante” del nuovo volto di quei Paesi; rispetto agli Stati Uniti, dove si raggiunse celermente l’inserimento stabile nel lavoro ma non nella società; rispetto ad altre mete europee come la Francia e il Belgio dove, pur non mancando i comportamenti xenofobi, l’apertura alla stabilizzazione degli italiani si realizzò con maggiore anticipo in forza anche della comune inclusione nel processo di integrazione europea [2]. In Svizzera, al contrario, seppur da tempo e in misura crescente l’apporto lavorativo degli italiani fu necessario per far fronte alla carenza di manodopera locale, perdurò più a lungo la temporaneità nell’accoglienza.
La presenza degli italiani nella Confederazione, dopo essere rimasta per molto tempo problematica, conobbe finalmente la via maestra della stabilizzazione a partire dagli ultimi due decenni del XX secolo. Tuttavia, a differenza di quanto avviene nei Paesi in cui l’insediamento stabile degli italiani si realizzò prima, in forza del più stretto legame tra il mondo del lavoro e la società, si può dire che nella Confederazione elvetica si tratta ancora della fase iniziale per quanto riguarda l’influenza complessiva della collettività italiana: si vedrà nel futuro se e come gli italo-svizzeri riusciranno a influire in maniera significativa, facendo del fenomeno migratorio una forza dinamica della società svizzera come è avvenuto in altri Paesi. Di certo, però, gli italiani, a seguito di una tenace contrattazione bilaterale, rinforzata poi dall’Unione Europea, hanno influito sulla maturazione della politica migratoria svizzera, nel cui ambito sono stati sempre i principali protagonisti come collettività straniera.
Valorizzando gli spunti offerti dalla copiosa bibliografia dedicata all’emigrazione italiana, il presente contributo si è proposto di offrire al lettore un quadro sintetico di questa lunga storia di emigrazione, cercando di soffermarsi sugli aspetti più significativi che hanno consentito il superamento della provvisorietà e dato inizio all’integrazione, fino ad arrivare agli ultimi decenni, segnati dallo spostamento di personale italiano maggiormente qualificato. Non si può fare a meno, quindi, di riflettere sull’Italia sia come Paese di grande emigrazione, sia con un vasto coinvolgimento dei suoi cittadini: la loro storia è stata arricchita dall’apporto degli oriundi e, nel contesto di un mondo globalizzato, ha generato una ramificazione della presenza italiana da considerare di importanza strategica. La teoria degli studiosi, secondo la quale il fenomeno migratorio è finalizzato di per sé ad assicurare un triplice vantaggio (al Paese di origine, a quello di accoglienza e agli stessi interessati) è suggestiva ma, calata nel concreto, mostra che non sempre, o quanto meno non in misura adeguata, si è svolta secondo i canoni ideali e a pagarne le conseguenze, più che il Paese di accoglienza e quello di origine, sono stati i migranti.
Dall’Unità d’Italia alla Prima guerra mondiale
Nel 1860 gli italiani in Svizzera erano circa 10 mila. L’esodo di massa si determinò come fenomeno postunitario e gli arrivi dalla penisola aumentarono sensibilmente tra l’ultimo quarto di secolo XIX e l’inizio di quello successivo. Nel 1868 fu firmato il Trattato di domicilio e consolare tra l’Italia e la Svizzera [3]. Le clausole concordate, che non mancano di sorprendere per la loro apertura, sancirono per gli italiani la libertà di stabilire il domicilio secondo un orientamento prettamente liberista. Così recitava l’articolo 1 dell’accordo:
«Tra la confederazione Svizzera e il Regno d’Italia vi sarà amicizia perpetua, e libertà reciproca di domicilio e commercio. Gli italiani saranno in ogni Cantone della Confederazione Svizzera ricevuti e trattati, riguardo alle persone e proprietà loro, sul medesimo piede e alla medesima maniera come i nazionali [..] E reciprocamente gli Svizzeri saranno in Italia ricevuti e trattati riguardo alle persone e proprietà loro sul medesimo piede e nella medesima maniera come i nazionali. Di conseguenza, i cittadini di ciascuno dei due Stati, non meno che le loro famiglie, quando si uniformino alle leggi del Paese, potranno liberamente entrare, viaggiare, soggiornare e stabilirsi in qualsivoglia parte del territorio (…)».
Queste norme così garantiste riguardavano in quel periodo persone che esercitavano il commercio o altre professioni, o che possedevano beni. Diverso sarebbe stato, di lì a poco, il trattamento riservato agli esponenti della classe lavoratrice, recatisi in Svizzera per sostenersi con il proprio lavoro manuale. Questi lavoratori furono impiegati nella costruzione di strade, ferrovie e trafori in condizioni molto dure, tanto dure che nel 1875, gli italiani addetti al traforo del Gottardo diedero luogo a una manifestazione di protesta, repressa dall’intervento dell’esercito, che non esitò ad aprire il fuoco contro di essi, provocando morti e feriti [4].
La prima emigrazione, di estrazione popolare, fu costretta a vivere anche in condizioni di isolamento ed evidenziò anche la necessità, oltre che della tutela giuridica, dell’assistenza sotto l’aspetto religioso, al fine di tenere conto delle peculiari esigenze culturali e linguistiche, aspetto sul quale si ritornerà in seguito parlando della nascita e dello sviluppo delle Missioni Cattoliche Italiane. Si ritornerà anche sul fiorente associazionismo di estrazione laica che gli italiani andarono man mano sviluppando, dal momento che aumentarono a ritmo sostenuto e diventarono 117 mila nel 1900 e 213 mila nel 1910. Dai dati Istat risulta che, tra il 1901 e il 1910, lasciarono l’Italia per entrare in Svizzera 655.668 persone, provenienti per la maggior parte da Piemonte, Lombardia e Veneto. Tra il 1911 (con particolare intensità prima dello scoppio della guerra mondiale) e il 1920 gli espatri furono 433.502. In questa fase (così come anche dopo) i rimpatri furono, a loro volta, molto numerosi, trattandosi di migranti temporanei che non avevano intenzione di stabilirsi all’estero.
Dal periodo fascista alla seconda guerra mondiale
Nel 1920 la presenza italiana in Svizzera contava 135 mila persone. Tra il 1921 e il 1930 gli espatri furono 157.056 e i rimpatri 104.420. Gli espatri diminuirono ulteriormente nel decennio 1931-1940, attestandosi a 85.859. La diminuzione avvenne sia perché quel decennio fu segnato dalla grande crisi mondiale, sia perché il governo fascista indirizzava i flussi verso le colonie italiane in Africa [5]. A ciò si aggiunse l’orientamento politico svizzero, per niente favorevole all’insediamento stabile degli stranieri. In fase di avviamento dei lavori parlamentari finalizzati all’approvazione della prima Legge federale sulla dimora e il domicilio degli stranieri, nel messaggio inviato dal Consiglio Federale al Parlamento, due erano le raccomandazioni: da una parte si doveva tenere conto della necessità di manodopera straniera e, dall’altra, si doveva accettarla alla sola condizione che non si stabilisse sul posto in modo definitivo. In effetti, questa prima legge federale sugli stranieri fu approvata nel 1934 all’insegna della prudenza nei confronti dei migranti economici, atteggiamento che andò consolidandosi nel tempo. Diversa e più aperta fu, invece, la posizione nei confronti degli esuli politici.
Nei primi anni del Secondo conflitto mondiale non cessò del tutto il flusso degli italiani verso la Confederazione, sebbene in misura molto ridotta: 479 espatri e 374 rimpatri nel 1941; 1.265 espatri e 200 rimpatri nel 1942. Sia nel 1943 sia nel 1944, invece, non si registrano movimenti migratori. In quel periodo fu, tuttavia, ben più consistente il flusso di rifugiati, dei quali si parlerà in maniera particolareggiata nell’apposito paragrafo. Come accennato in apertura, nel periodo tra le due guerre trovò sbocco in Svizzera un decimo di tutti gli emigrati italiani, una quota non trascurabile (670 mila persone) destinata ad aumentare notevolmente nel dopoguerra.
Meritevole di menzione è un esule politico di quel periodo che, finita la guerra, divenne il primo ambasciatore d’Italia in Svizzera e si adoperò con straordinaria dedizione ed efficacia a tutela della comunità italiana. Si tratta di Eugenio Reale (1888-1958), intellettuale e storico dalla forte sensibilità europea, che nel 1947 diventò responsabile della Legazione italiana a Berna e nel 1952 fu nominato ambasciatore [6]. Reale, accusato dal regime di attività sovversiva per aver partecipato a un movimento antifascista, fu arrestato a Lecce e, in seguito, posto agli arresti domiciliari nella sua casa di Roma. Egli riuscì a espatriare clandestinamente e, passando attraverso l’Austria, raggiunse la Svizzera, ove si legò agli ambienti socialisti. Si stabilì a Ginevra, città che già dal XIX secolo si era distinta come il rifugio più sicuro per i perseguitati di tutta Europa. A Ginevra Reale si adoperò per organizzare l’opposizione al fascismo e contrastarne la propaganda, partecipando alle attività della locale Colonia Libera Italiana.
Dopo la fine del conflitto mondiale, la carriera diplomatica di Reale ebbe l’avvio su impulso del segretario socialista Pietro Nenni durante il suo incarico al Ministero degli esteri (1946-1947): fu generale la soddisfazione degli italiani per la nomina di Reale, che riscuoteva apprezzamento e fiducia anche da parte degli svizzeri. Egli diede un forte impulso alla contrattazione bilaterale sull’arruolamento e sul trattamento della manodopera italiana, nonché sulla sua tutela previdenziale. Il suo fu un esempio di dinamismo personale, capacità organizzativa, tensione patriottica e apertura ai legami bilaterali, unitamente a una totale vicinanza alla comunità italiana [7].
L’accoglienza agli esuli italiani in Svizzera durante il fascismo
La strategia del governo federale nei confronti degli esuli italiani fu molto rigida nel corso della prima fase e più flessibile in seguito [8]. Negli anni ’20, all’inizio del governo fascista, la Svizzera accolse un numero limitato di antifascisti. Essi, per la maggior parte, preferirono recarsi in Francia, dove era stata fondata nel 1927 la Concentrazione contro il regime fascista, della quale non facevano parte solo i comunisti, organizzatisi autonomamente. Dal 1933 in poi, essendo aumentato il prestigio di Mussolini, nelle cancellerie dei vari Paesi e tra gli stessi emigrati, diventò più difficile svolgere in Svizzera l’impegno antifascista, anche perché la strategia neutrale del governo di Berna era diventata più guardinga dopo lo scoppio della guerra civile in Spagna, dove si recarono dei volontari anche dalla Svizzera. In quel frangente fu espulso dalla Confederazione, dopo essersi fatto notare per il suo dinamismo antifascista, Rodolfo Pacciardi (1899-1991), che in Spagna organizzò la Brigata Garibaldi [9].
Le autorità governative svizzere chiesero ai rifugiati di astenersi dallo svolgere attività politica al fine di evitare dissapori con il regime fascista. Quelli che pubblicarono articoli accesamente antigovernativi furono richiamati al rispetto di questa direttiva. I fuorusciti erano sottoposti a rigida sorveglianza e all’occorrenza non mancarono provvedimenti drastici. In aggiunta al caso prima citato di Pacciardi, un altro esempio di tale rigore fu quello riguardante Carlo Rossellli e Alberto Tarchiani, appartenenti all’organizzazione “Giustizia e Liberta”. Essi organizzarono dal Canton Ticino, nel mese di giugno del 1930, il lancio, sui cieli di Milano, di volantini di propaganda antifascista [10]. Il governo svizzero lasciò chiaramente intendere che la presenza degli esuli italiani non era molto gradita. A sua volta il regime fascista non mancava di esercitare uno stretto controllo anche all’estero attraverso la sua ramificata polizia segreta.
Le autorità di Berna, nonostante la tradizionale accoglienza del Paese, mosse dalla preoccupazione di salvaguardare la propria autonomia nei rapporti con il potente e aggressivo regime nazista, il 3 agosto 1942, per la prima volta nella storia della Svizzera chiusero i confini agli italiani in fuga dall’oppressione esercitata dai fascisti e dai nazisti: una tale rigidità fu attenuata con qualche apertura solo a seguito delle reazioni di una parte dell’opinione pubblica. Furono così accolte nella Confederazione 8.300 persone, un numero esiguo rispetto alla massa dei deportati in Germania. I respingimenti di italiani alla frontiera furono attenuati solo dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. A partire da quell’evento la Svizzera accolse 3 mila ebrei e 42 mila “rifugiati militari”, una categoria di esuli che prima non era mai stata presa in considerazione [11].
Il fallimento del tentativo fatto nella Val d’Ossola di costituire una Repubblica autonoma (1 settembre 1944), ben presto sottomessa dai tedeschi e dai soldati della Repubblica Sociale, provocò un ulteriore esodo nel Canton Ticino e in quello Vallese di migliaia di partigiani e di civili coinvolti in quell’esperienza. Un esule illustre, stabilitosi a Zurigo nel 1930, fu il comunista Ignazio Silone (1900-1978), che l’anno successivo fu espulso dal suo partito. La sua notorietà era dovuta ai libri da lui pubblicati presso la casa editrice di un locale militante socialista [12]. Dopo la caduta di Mussolini e l’armistizio prese la via dell’esilio una parte di grossi industriali dell’Italia settentrionale che si erano mostrati vicini al regime, come anche diversi gerarchi fascisti e altrettanti collaborazionisti, ma il loro numero è di difficile quantificazione.
Gli ultimi anni ’40 e nei tre decenni dopo l’ultima guerra mondiale
La Svizzera, essendo riuscita a salvaguardare la sua neutralità durante la Seconda guerra mondiale, poté mantenere gli scambi commerciali con tutti i Paesi belligeranti. Finita la guerra, divenne per gli emigrati italiani lo sbocco più importante rispetto ad altre mete migratorie come Francia, Belgio, Regno Unito e la stessa Germania, alla quale cedette il primato solo verso la metà degli anni ’80. Gli espatri in Svizzera dal 1947 fino ai primi due decenni degli anni 2000 hanno superato i 2 milioni e 60 mila, al netto del movimento dei frontalieri, che nel passato superarono anche le 100 mila unità [13]. La serie storica dei dati ISTAT sugli espatri è fondamentale per ricostruire, con gli opportuni commenti, i primi anni del dopoguerra e i successivi tre decenni, durante i quali un considerevole numero di italiani si recò a lavorare in Svizzera.
Gli anni ’40 e i primi accordi bilaterali
Nel 1947 gli espatri furono 48.808. Nel 1948, entrato in vigore l’accordo italo-svizzero sul trasferimento di manodopera (il primo del genere per la Svizzera), gli espatri raddoppiarono, superando le 100 mila unità (108.808), livello mantenuto anche nel 1949 (105.112). Alla firma di quest’accordo, sancito il 22 giugno 1948, si giunse grazie all’efficace intermediazione dell’ambasciatore Reale. Le disposizioni concordate riflettevano in maniera netta l’orientamento della Svizzera al controllo dei flussi e alla temporaneità del soggiorno, garantendo comunque una certa maggiore tutela rispetto al passato [14]. Per rendersi conto della precarietà del soggiorno basti pensare che i rimpatri furono 35.216 nel 1947, 81.672 nel 1948, 80.830 nel 1949.
L’articolo 8 dell’accordo disponeva a favore degli emigrati italiani un trattamento paritario rispetto agli svizzeri in materia di lavoro, di retribuzione e di prevenzione. L’articolo 6, relativamente alle domande di impiego, conteneva precisazioni sulle mansioni da svolgere, sulle condizioni di lavoro, sulla retribuzione e sull’alloggio. Nonostante le resistenze da parte italiana, tuttavia, fu formalizzata nel testo approvato la posizione dei datori di lavoro svizzeri, interessati a privilegiare nel reclutamento le regioni del Nord e del Centro Italia, anche se i meridionali, prima esclusi, sarebbero diventati ben presto quelli più numerosi (art. 6). L’accordo si soffermava sul controllo sanitario da compiere alla frontiera, e al riguardo all’articolo 16 disponeva che le spese di viaggio dal domicilio in Italia al luogo di destinazione in Svizzera fossero a carico del datore di lavoro e fossero da lui liquidate al momento in cui il lavoratore si presentava in azienda. I governi dei due Paesi si impegnavano a rendere sempre più efficace l’applicazione dell’accordo e, a tal fine, decisero di istituire in maniera permanente una Commissione mista italo-svizzera (art. 23) che, in effetti, ebbe grande importanza nella fase applicativa.
Con l’accordo del 1948 si fece un decisivo (anche se tutt’altro che completo) passo in avanti, sia a proposito dell’ambito di applicazione, sia con riguardo al metodo con cui affrontare singoli aspetti, imperniato sulle consultazioni preventive finalizzate alle decisioni da adottare. La strategia contrattuale bilaterale favorì anche il conseguimento di altri risultati. Nel 1948 l’ambasciatore Egidio Reale riuscì ad avviare negoziati in materia di sicurezza sociale e, così, il 4 aprile 1949 fu sottoscritta la Convenzione tra la Svizzera e l’Italia sulle assicurazioni sociali, che regolava l’accesso degli italiani al sistema pensionistico elvetico. L’ambasciatore, molto attento alle esigenze dei suoi connazionali, in quello stesso anno fece stampare e diffondere l’opuscolo Quello che un emigrato italiano deve sapere sulle assicurazioni sociali. Il requisito per trasferire in Italia le prestazioni pensionistiche maturate in Svizzera prevedeva o dieci anni di contribuzione o quindici anni di soggiorno nella Confederazione, senza i quali i contributi versati dovevano essere trasferiti in Italia all’INPS, che avrebbe liquidato le prestazioni secondo la legislazione italiana. Il trasferimento dei contributi, poi superato, comportò una notevole complessità amministrativa.
Purtroppo, con la Convenzione del 1949, non fu possibile superare una restrizione molto invisa agli italiani: la decurtazione delle pensioni di un terzo nel caso che le stesse fossero poste in pagamento all’estero a lavoratori stranieri. Per inciso si può osservare che questi aspetti avevano un’importanza rilevante sulla vita concreta degli emigrati e che il governo italiano nel dopoguerra, con la Svizzera e gli altri Paesi di destinazione, non mancò di condurre un’efficace politica di pressione. Nell’immediato dopoguerra gli italiani, appena arrivati in treno, erano costretti a denudarsi completamente per essere cosparsi di DDT prima della visita medica: dalla lettura del libro citato si apprende che una donna incinta, rifiutatasi di sottoporsi completamente nuda alla visita medica, fu subito portata alla frontiera ed espulsa. Solo in seguito, grazie ai miglioramenti faticosamente ottenuti dal governo italiano in sede di contrattazione bilaterale, le visite mediche furono effettuate in condizioni di maggiore riservatezza.
Molto rigida si configurava la situazione del lavoratore stagionale secondo le previsioni dell’accordo del 1948. Questo lavoratore: non poteva spostarsi all’interno del territorio svizzero; non poteva cambiare lavoro, ed era vincolato al datore di lavoro che lo lo aveva assunto; poteva essere licenziato dal datore di lavoro con sole 24 ore di preavviso; non poteva portare con sé la famiglia e solo dopo aver maturato un’anzianità di dieci anni poteva ottenere il permesso di domicilio. Gli inizi furono, dunque, duri, sia per la loro assegnazione ai lavori più pesanti e sia per i trattamenti previsti, ma la miseria delle aree di partenza diede la forza per affrontare queste condizioni. L’arruolamento, con la firma del contratto di lavoro, avveniva in Italia, ma anche chi andava in Svizzera senza contratto di lavoro poteva essere regolarizzato sul posto, a condizione che trovasse un datore di lavoro disponibile all’assunzione.
Gli anni ’50 e il superamento del mezzo milione di presenze
A seguito di un’insistente sollecitazione italiana furono ripresi i negoziati bilaterali e il 17 ottobre 1951 fu sottoscritta una nuova convenzione sulle assicurazioni sociali che non solo soppresse la decurtazione delle pensioni svizzere pagate in Italia, ma ridusse anche il requisito previsto per il trasferimento della contribuzione versata in Svizzera nell’assicurazione pensionistica italiana, portandolo da quindici a dieci anni di soggiorno.
Nel decennio 1951-1960, il flusso di italiani che si recarono a lavorare nella Confederazione si compose di 745.031 espatri e 555.207 rimpatri. Dopo i primi due anni gli espatri, da 30 mila circa, aumentarono a 60-70 mila l’anno e, complessivamente, superarono abbondantemente il mezzo milione. La contrazione dei flussi nel 1950 e nel 1951 dipese dalla congiuntura negativa conosciuta dalla Svizzera e dalla diversificazione delle mete migratorie sia in Europa (cominciarono i consistenti flussi verso il Belgio), sia oltreoceano (verso Perù e Venezuela in aggiunta ad Argentina, Brasile e Stati Uniti, mentre anche Canada e Australia si affermarono come nuove mete).
Ben presto, però, s’impose nuovamente la capacità attrattiva del sistema economico elvetico, le cui strutture produttive non erano state danneggiate dagli eventi bellici come al contrario avvenuto nei Paesi in guerra. A ciò si aggiunse la disponibilità di ingenti risorse finanziarie, potenziate durante il periodo bellico. L’unica penuria riguardava la manodopera, e per questo fu stipulato l’accordo con l’Italia, Paese vicino con un surplus di disoccupati. L’accordo del 1948 prevedeva che l’arruolamento avvenisse in Italia con la firma del contratto di lavoro, e che gli italiani arrivati in Svizzera, provveduto a una sistemazione alloggiativa (dalle baracche dei cantieri agli appartamenti), ottenessero il permesso di soggiorno come stagionali. Già in quel periodo, tuttavia, si diffuse ampiamente la pratica dei flussi irregolari, e migliaia di italiani si recarono in Svizzera come turisti cercando per proprio conto i datori di lavoro che, firmando i contratti, avevano la facoltà di regolarizzarli.
Nel frattempo gli italiani nel 1955 avevano già raggiunto le 160 mila unità, con un’incidenza del 59% sul totale degli stranieri. Fino alla metà degli anni Cinquanta le donne (in quella fase originarie del Nord Italia), in prevalenza nubili, emigrarono più degli uomini, ed erano impiegate nei lavori domestici e anche in agricoltura e nel comparto alimentare.
Gli anni ’60: un milione di espatri e un nuovo accordo sul collocamento
Nel decennio 1961-1970 gli espatri quasi raddoppiarono. Durante il decennio in ben sette anni superarono le 100 mila unità, per un totale di oltre un milione di espatriati. Il reclutamento degli italiani in questo periodo superò le cifre record del 1948-1949. Ma furono molto numerosi anche i rimpatri. Nel 1962 si contarono in Svizzera oltre 454 mila presenze italiane, che costituivano la parte maggioritaria della manodopera straniera e una parte consistente del proletariato svizzero. Dopo il 1964 andarono diminuendo le partenze verso la Svizzera, superata dalla Germania. L’elevato numero di rimpatri aiuta a capire l’accentuata rotazione di cui si sostanziava la politica migratoria svizzera.
Va precisato che un certo numero di italiani, soddisfatte le condizioni per ottenere il permesso di soggiorno, alla sua scadenza dopo nove mesi non rimpatriava e si tratteneva irregolarmente sul posto, mentre altri, maturati i dieci anni richiesti di anzianità, ottenevano il permesso di domicilio, dando inizio alla formazione di una collettività italiana stabilmente insediata. Su insistenza del governo italiano si arrivò in questa fase alla stipula di nuovo accordo sui flussi migratori, firmato il 10 agosto 1964 ed entrato in vigore l’anno seguente. Il nuovo testo era allo stesso tempo innovativo – introducendo alcuni miglioramenti – e conservativo – salvaguardando le disposizioni ritenute valide da entrambe le parti. Il protocollo finale annesso al nuovo accordo conteneva chiarimenti (richiesti specialmente dall’Italia) su alcuni punti, che altrimenti sarebbero stati considerati oggetto di controversie in fase di applicazione. A ispirare le nuove norme fu la necessità di rendere i reclutamenti più funzionali, rafforzare la parità di trattamento e facilitare il diritto a un soggiorno stabile.
Sulla base del nuovo accordo le richieste numeriche di manodopera dovevano essere indirizzate dai datori di lavoro interessati, tramite l’Ambasciata italiana di Berna, al Ministero del lavoro italiano, struttura designata come competente al reclutamento dei lavoratori, mentre erano escluse le agenzie private operanti a scopo di lucro. Nel caso di richiesta nominativa, il datore di lavoro doveva far pervenire al lavoratore un contratto di lavoro debitamente vistato dal Consolato italiano competente, con conseguente garanzia del rilascio del permesso di soggiorno. In ogni caso le spese di viaggio erano a carico dei datori di lavoro, tenuti a rimborsarle entro un mese dall’inizio dell’occupazione. Le visite mediche al confine, previste solo per ragioni di salute pubblica, dovevano essere ridotte al minimo.
Di grande interesse è la lettura delle disposizioni dell’accordo, che andavano nel senso di ridurre quanto più possibile la temporaneità e la conseguente precarietà. Per gli italiani regolarmente e ininterrottamente soggiornanti in Svizzera per cinque anni (requisito dimezzato rispetto alla normativa precedente), erano previsti vari benefici: il rinnovo del permesso di dimora di durata biennale per due volte, continuando il lavoro in essere, e, quindi, il rilascio del permesso di domicilio; la possibilità di svolgere un lavoro autonomo o professionale; la possibilità, in caso di grave crisi occupazionale nel settore di inserimento, di re-occuparsi in un altro settore. Nel nuovo accordo non mancava l’attenzione al miglioramento dello statuto dello stagionalato. A beneficio dei lavoratori stagionali: coloro che avevano svolto un’attività per 45 mesi negli ultimi cinque anni potevano ottenere, su richiesta, un permesso di dimora non stagionale, a condizione che avessero trovato un’occupazione annuale nell’ambito della loro professione. Il ricongiungimento della moglie e dei figli veniva concesso al lavoratore italiano solo nel caso svolgesse un’occupazione considerata dalle autorità elvetiche stabile e durevole, e disponesse di un alloggio adeguato. Per gli emigrati era inoltre importante la possibilità di iscriversi al collocamento svizzero e di far valere, su base paritaria, il diritto alle prestazioni di disoccupazione, così come quello di spedire i risparmi a casa. È vero che nell’ambito della Comunità Economica Europea furono garantiti ai lavoratori migranti livelli di tutela più elevati di quelli appena citati; tuttavia questi rappresentarono apprezzabili passi in avanti.
Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 iniziarono la loro esperienza in Svizzera i minori a seguito dei ricongiungimenti familiari, non molto numerosi come non lo furono neppure i ricongiungimenti in generale, e si configurarono in una posizione intermedia tra i loro genitori emigrati e i figli che poi nacquero sul posto. Essi conobbero la loro socializzazione in Svizzera, dove frequentarono anche la scuola. Parte di essi studiò presso gli “Istituti italiani all’estero”, designati dal governo italiano [15]. Questi istituti si rivelarono funzionali anche alle esigenze degli emigrati che non avevano conseguito la licenza media. Va ricordato che la legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 istituì la scuola media unica, e prolungò l’obbligo scolastico fino al quattordicesimo anno di età. Molti emigrati ritennero opportuno conseguire il diploma di scuola media nella previsione di un ritorno in patria.
Un problema molto delicato di quel periodo fu quello dei figli dei lavoratori italiani che per legge non potevano portarli con sé [16]. Non furono pochi gli italiani che, pur non autorizzati al ricongiungimento familiare, facevano venire ugualmente i figli e li trattenevano irregolarmente, chiusi in casa per non essere denunciati alla polizia da vicini sospettosi: secondo alcune stime si parla di una cifra tra i 10 e i 15 mila ragazzi, che presumibilmente non poterono vivere in serenità e all’aperto la loro fanciullezza o la loro adolescenza. In altri casi i genitori, non volendo lasciare i loro figli nei lontani paesi del Meridione e non volendo neppure farli vivere da irregolari in Svizzera, li sistemavano in apposite case a Domodossola o in altri posti vicino al confine per riuscire a incontrarli con minore difficoltà.
Gli anni ’60, ricchi di aperture e tuttavia non privi di zone d’ombra, evidenziarono le difficoltà del Paese nell’adattarsi al compito dell’accoglienza degli stranieri, fino ad allora considerati di passaggio. Se l’accordo del 1964 costituì un segno di lungimiranza da parte dei due Paesi, non ne conseguì automaticamente l’adeguamento della popolazione svizzera alla nuova prospettiva di migranti non più di passaggio ma concittadini per residenza. L’alleggerimento dei requisiti per convertire il permesso stagionale in permesso annuale o in permesso di dimora segnò la fine della politica della temporaneità per aprire alla politica dell’integrazione, un passaggio che per essere compreso e accettato a livello popolare richiese ancora molto tempo. Gli anni ‘60 evidenziarono anche una lacerante spaccatura in seno alla popolazione svizzera, in larga misura tentata di ritornare alla vecchia impostazione di considerare “di passaggio”, e quindi estranei, gli italiani e gli altri stranieri, tentazione superata con accortezza, ma non senza difficoltà e nel lungo periodo, dalla classe politica.
Il discrimine degli anni ’70 con il referendum xenofobo
Gli anni ’70 si aprirono con segnali di crisi che si fecero più corposi verso la metà di quel decennio anche in Svizzera, con un forte aumento della disoccupazione. A pagarne le conseguenze furono specialmente gli immigrati e, ovviamente, gli italiani, che costituivano la maggiore collettività immigrata: la presenza italiana si ridusse a 274 mila unità, mentre la loro incidenza (fino ad allora in crescita), diminuì per la prima volta, passando dal 18 al 16% nel 1976.
Nel 1970 gli stranieri nella Confederazione erano un milione. La grave crisi petrolifera del 1973, preceduta da anni già abbastanza problematici, fece prendere coscienza a tutta l’Europa dei seri limiti cui poteva essere soggetto il processo di sviluppo economico. Nonostante il ricorso ai lavoratori italiani fosse praticato o da tempo, il loro ruolo continuava a essere valutato in maniera ambivalente: indispensabile per sostenere l’apparato produttivo secondo il mondo imprenditoriale, ingombrante nella sua consistenza e scarsamente affine alle caratteristiche degli svizzeri e in grado di alterarne la specificità per parte della popolazione. I due orientamenti potevano essere oggetto di una mediazione (come in effetti avvenne, ma solo a distanza di tempo), ma erano anche in grado di incentivare uno scontro, favorito da un orientamento xenofobo degli svizzeri già a partire dagli ultimi anni ’60, dopo che la contrattazione bilaterale aveva allentato a favore degli italiani il rigido statuto dei lavoratori stagionali destinato a frenare l’accesso al soggiorno stabile.
Nei cantoni di lingua tedesca e in quelli economicamente più forti e quindi a più alta presenza immigrata come quelli di Ginevra, Basilea, Zurigo, la questione degli stranieri si era trasformata sempre più nel problema degli stranieri, diventata oggetto di un acceso dibattito. La prima iniziativa contro l’accesso degli stranieri fu lanciata nel 1965 nel Canton Zurigo dal Partito democratico (anche questo dà il senso della trasversalità delle riserve nei confronti degli stranieri), ma fu ritirata qualche anno dopo. Gli italiani erano al centro delle preoccupazioni dei fautori del rigorismo. Essi, in generale, erano considerati il capro espiatorio quando sorgevano i problemi: questo ruolo spettò loro anche in altri Paesi nei quali la loro presenza era consistente, ma come si vedrà nel paragrafo dedicato alla xenofobia, non si trattava unicamente di ragioni quantitative. Delle loro prestazioni si riconosceva l’utilità, una sorta di male necessario, ma questa valutazione non includeva necessariamente il dialogo, la promiscuità nei locali pubblici, l’insediamento definitivo, la cessione in affitto dei propri appartamenti.
Sulla scarsa stima verso gli italiani influì inoltre il fatto che svolgessero i lavori più umili e meno graditi dagli svizzeri (fattore di classe) così come anche il loro differente costume di vita, inclusa la lingua (fattore culturale). Queste riserve erano in parte temperate dalla rigidità delle disposizioni sul soggiorno nel Paese come lavoratori stagionali, il cui rigoroso statuto, finalizzato a frenare l’accesso al soggiorno stabile, era stato attenuato dall’accordo sottoscritto con l’Italia nel 1964: il senso di disorientamento derivava dal fatto che quello scudo giuridico era diventato meno protettivo.
James Schwarzenbach (1911-1994), membro del Consiglio federale e capo del movimento di destra “Azione Nazionale”, si fece portavoce del malcontento diffuso tra gli svizzeri, e divenne l’anticipatore dei “movimenti sovranisti” che sarebbero scoppiati in tutta Europa negli anni 2000. La sua proposta di referendum intendeva evitare il pericolo di “inforestieramento” (Überfremdung, che tradotto in italiano, alla lettera, suona come “ultrastranierizzazione” rispetto al termine ufficiale “inforestieramento”). Obiettivo della sua proposta, sostenuta da 292 mila firme, era la previsione di una drastica riduzione della presenza straniera così da non superare un’incidenza del 10% sulla popolazione residente, da effettuare nel volgere di quattro anni, con una riduzione di circa 300 mila stranieri (per più della metà italiani).
Il referendum si svolse il 7 giugno 1970 con una partecipazione eccezionale (il 75% degli aventi diritto al voto) [17]. La proposta non passò perché il 54% votò contro, ma lo scarto tra le due posizioni fu minimo e segnò una frattura profonda nell’opinione pubblica. La virulenta esplosione dell’avversione verso gli stranieri aveva lontane origini, se si pensa ai tumulti anti italiani della fine del secolo XIX e al dibattito sul “problema degli stranieri” che iniziò a imporsi all’inizio del XX secolo, aspetti sui quali si ritornerà più diffusamente in seguito. Il governo federale prese atto della spaccatura nel Paese e si mosse con prudenza, cercando di rispettarla pur nell’ottica di una maggiore apertura, indispensabile laddove la presenza straniera era ormai diventata, in misura quanto mai ampia, strutturale.
Gli anni ’70 e la strategia svizzera di stabilizzazione graduale
Nel corso degli anni ’70 continuarono a essere in costante crescita le presenze di italiani, per i quali durante la prima metà di quel decennio la Svizzera continuò a essere lo sbocco più importante. Nel 1972 i domiciliati, ossia i presenti sul posto in maniera stabile, prevalsero all’interno della collettività italiana con una incidenza del 55%. Gli italiani divennero 573.08 nel 1975 (il numero più alto mai raggiunto nel Paese) con un’incidenza di ben due terzi sull’intera popolazione immigrata. Non fu però un periodo facile. Anche in Svizzera si fecero sentire gli effetti della crisi, come del resto, e ancor di più, negli altri Paesi europei. Gli occupati si ridussero di circa un decimo, i settori maggiormente pregiudicati furono quelli più precari e ad alta densità di immigrati, e la disoccupazione raggiunse un livello fino ad allora sconosciuto. Nel 1975, per la prima volta dal dopoguerra, il numero degli stranieri si ridusse a un’incidenza del 16%, mentre in precedenza questo valore percentuale era stato sempre in crescita.
Preso atto con soddisfazione dell’esito del referendum del 1970, il governo federale adottò una politica di progressiva stabilizzazione degli immigrati, che rappresentasse un accettabile compromesso tra i due orientamenti contrapposti. Fu introdotto come nuovo meccanismo il sistema delle quote, stabilite sulla base di un’accurata concertazione preventiva, superando così il liberismo degli anni ’50 e ’60. Nel 1976 i flussi degli emigrati italiani verso la Confederazione furono superati da quelli diretti in Germania, Paese destinato a diventare stabilmente la meta principale per gli emigrati italiani.
Gli ultimi due decenni del secolo XX e il consolidamento della presenza stabile
Gli ultimi due decenni del Novecento si possono considerare di transizione verso il nuovo secolo, di cui anticiparono alcuni aspetti. Non cessarono i flussi di italiani verso la Svizzera, che continuò a offrire spazi d’inserimento per la manodopera italiana, in misura iniziale anche a quella qualificata. Da parte sua l’Italia, affermatasi come potenza industriale a livello mondiale, aveva un bisogno più contenuto di collocare all’estero la sua forza lavoro.
Negli anni ‘90 le partenze dall’Italia per la Svizzera oscillarono tra un minimo di 4 mila partenze l’anno a un massimo di 10 mila, per un totale di circa 70 mila in un decennio. Non si trattava più di un’emigrazione di massa. L’orientamento della politica svizzera continuò a essere quello di perseguire la stabilizzazione degli immigrati secondo un metodo di gradualità, cercando di evitare tra i cittadini un nuovo insorgere di rigide contrapposizioni. In questa fase fu dato da parte della società svizzera un segno positivo tutt’altro che scontato, tenuto conto dei precedenti storici, quasi una presa di distanza dal referendum contro gli stranieri così divisivo promosso da Schwarzenbach: andò maturando infatti una iniziativa a favore degli immigrati, segno di una sensibilità di tipo nuovo, non più timorosa di manifestarsi anche a livello pubblico oltre che negli ambiti del volontariato. Tale iniziativa, denominata Essere solidale, mirava a una nuova politica verso gli stranieri con l’adozione di norme che garantissero loro una migliore tutela dei diritti e, in particolare, abolissero lo stagionalato, ritenuto lesivo della dignità dei lavoratori, impedendo il ricongiungimento con i propri familiari.
Questi obiettivi, additati senza progressività, fecero contenti gli immigrati ma non gli svizzeri. Furono contro la proposta anche gli imprenditori e il governo federale, spinto dalla convinzione che le proposte radicali alimentassero la xenofobia a livello popolare e politico. Il 5 aprile 1981 l’84% votò contro la proposta Essere solidali. L’esito negativo del referendum non fu di pregiudizio alla volontà politica di proseguire sulla via della gradualità, essendo ormai acquisita la necessità di ulteriori miglioramenti. In effetti, così come fatto per gli italiani, anche per gli altri immigrati furono migliorate le condizioni per il passaggio dal permesso come frontaliero al permesso annuale, e quindi a quello di domicilio.
Intanto nella collettività italiana l’inserimento stabile era reso evidente dalla diminuzione dei permessi annuali: questi erano il 70% nel 1970, diventarono il 41% nel 1975 e solo il 25% nel 1980. Il numero degli stagionali andava riducendosi sempre più, come era inevitabile nel processo, avviato in Svizzera, per adeguarsi in campo migratorio alla normativa dell’Unione Europea, sulla quale le autorità italiane non mancavano di insistere. Questi progressi lasciavano intendere che la strategia di apertura graduale si era rafforzata anche a seguito di una maggiore sensibilità europeista. Si andava verso la “l’europeizzazione” della politica migratoria elvetica. La ricerca della stabilità nel lavoro e nel soggiorno, già perseguita dall’Italia attraverso la contrattazione bilaterale, trovò un completamento ottimale negli accordi stipulati tra Bruxelles e Berna, che sancirono l’estensione alla Svizzera dell’istituto giuridico UE sulla libera circolazione [18].
Negli scambi bilaterali continuarono a essere all’ordine del giorno specialmente i problemi delle decine di migliaia di frontalieri, operanti in prevalenza nel Canton Ticino. Inizialmente vi fu un animato dibattito sul ristorno dei contributi versati per l’assicurazione sanitaria, essendo questi lavoratori assicurati in Italia per la loro salute, e poi per il ristorno delle tasse pagate da loro in Svizzera, pur fruendo essi dei vari servizi dei comuni italiani di frontiera. Non si può entrare qui nel merito delle specifiche questioni, che in passato hanno costituito vari aspetti problematici [19].
Alla fine del XX secolo la Svizzera appariva maggiormente consapevole del ruolo non solo economico ma anche demografico degli immigrati. Questi fattori resero più accettabile la loro alta incidenza sulla popolazione residente. La situazione era diversa rispetto al passato, quando la normativa tendeva a limitare drasticamente l’insediamento stabile dei lavoratori stranieri e dei loro familiari. La posta in gioco della presenza immigrata veniva sempre più percepita nei suoi aspetti sostanziali, implicanti una convivenza pluralistica e una gestione delle differenze linguistiche, culturali, religiose, evitando una frattura tra gli autoctoni e i nuovi cittadini.
In questa direzione spingeva fortemente l’aumento delle seconde generazioni e dei figli degli immigrati che vi erano arrivati da piccoli frequentando la scuola e formandosi in quella società. Questa era una presenza innovativa rispetto al passato, perché non era “straniera” nel senso di “estranea”, in quanto formatasi altrove e con un’altra lingua, e molte volte neppure “immigrata”, essendo nata sul posto. Alla fine del secolo la collettività italiana era scesa al di sotto del mezzo milione di unità, un livello destinato a essere superato non tanto per i nuovi arrivi quanto per la dinamica demografica interna. Il 60% dei membri della collettività era di origine meridionale, e ciò in considerazione del grande protagonismo avuto nel passato da quest’area del Paese.
I flussi degli anni 2000 e la fisionomia dell’attuale collettività
Il nuovo secolo iniziò a Roma con la prima Conferenza degli italiani di tutto il mondo, aperta nel dicembre 2000, iniziativa che si proponeva come un segno di consapevolezza del ruolo dell’emigrazione nella storia del proprio Paese e di quelli di accoglienza. In Svizzera, nel primo decennio del nuovo secolo, il numero degli italiani che vi si recavano, cancellandosi dalle Anagrafi dei loro comuni di residenza e riportati nell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero – AIRE, oscillò da un minimo di 3 mila a un massimo di 7 mila l’anno, per un totale nel decennio di poco più di 50 mila persone. I valori degli italiani andati a risiedere all’estero sono diventati più alti nel secondo decennio, con punte di 17 mila persone in un anno. Che non si tratti più di un’emigrazione di massa è reso evidente dal fatto che il numero complessivo di un decennio costituisce appena la metà di quelli che emigrarono in qualche anno del primo dopoguerra.
Come già accennato, negli anni 2000 è radicalmente cambiato il trattamento socio-giuridico degli italiani, perché la Svizzera ha aderito alla normativa UE sulla libera circolazione delle persone [20]. In forza di questo accordo i cittadini europei e svizzeri godono reciprocamente del diritto d’ingresso e di soggiorno, di accesso a un’attività economica, di stabilimento come lavoratori autonomi, come anche del diritto di soggiorno al termine della loro attività. Pertanto agli italiani in Svizzera (sia ai lavoratori sia ai loro familiari) sono garantite le stesse condizioni di vita, di occupazione e di lavoro degli svizzeri, ad esclusione di ogni tipo di discriminazione fondato sulla diversa nazionalità.
Le intese con Bruxelles hanno riguardato anche il settore previdenziale, fondamentale nella vita degli emigrati, sia durante lo svolgimento dell’attività lavorativa sia dopo il pensionamento. Agli italiani che hanno lavorato in Svizzera, di conseguenza, sono applicabili i regolamenti comunitari sul coordinamento dei regimi di sicurezza sociale, che garantiscono una maggiore tutela rispetto alle disposizioni contenute nei precedenti accordi italo-svizzeri. Si è così fatto uno straordinario passo in avanti. Da una parte non va sottovalutata la straordinaria conquista giuridica rappresentata dall’istituto giuridico della libera circolazione delle persone, per cui l’Unione Europea è diventata antesignana di una concezione della mobilità mai uguagliata in nessuna altra parte del mondo. D’altra parte va riconosciuto che la Svizzera, nel passato criticata per le sue posizioni restrittive e la sua riluttanza a superarle, è riuscita ad aprirsi con gradualità, facendo alla fine valere una sensibilità europea in sintonia con gli altri Paesi del continente [21].
L’attuale collettività italiana s’inserisce in un Paese che, per quanto riguarda la normativa, è radicalmente cambiato rispetto ai decenni dell’immediato dopoguerra. I residenti italiani in Svizzera, secondo i più recenti dati forniti dall’Ambasciata italiana (2021), sono 660 mila, tra di essi oltre un terzo ha la doppia cittadinanza. Per un sesto si tratta di ultrasessantacinquenni. Questo valore denota una popolazione meno vecchia rispetto alla media degli italiani residenti all’estero e alla stessa popolazione residente in Italia. Rivestono una grande importanza i figli degli italiani emigrati nel dopoguerra che hanno preferito restare sul posto, molto spesso portando alla stessa decisione anche i genitori, desiderosi di stare con i loro figli e i loro nipoti, e che hanno abbandonato il sogno a lungo coltivato di ritornare nei loro paesi dopo il pensionamento.
Per i tre quarti degli iscritti all’AIRE il motivo dell’iscrizione è stato l’espatrio, mentre il 22% degli iscritti è nato all’estero. I cantoni di lingua tedesca sono quelli che accolgono il maggior numero di italiani: la loro presenza è consistente anche nel Canton Ticino, dove inoltre si recano 60 mila frontalieri italiani. Questi lavoratori, che nel passato furono anche più numerosi arrivando a 100 mila unità, svolgono un ruolo fondamentale a sostegno dell’economia del Canton Ticino, che conta poco più di 354 mila residenti [22]. Gli italiani residenti in Svizzera sono così ripartiti per provenienze regionali (dato AIRE del 2018): 25,0% Nord Ovest, 13,2% Nord Est, 7,6% Centro, 49,9% Sud e 13,1% Isole. I meridionali, anche se considerati non preferibili nel primo accordo occupazionale del 1948, con il tempo sono diventati i più numerosi
Gli italiani residenti in Svizzera sono, come in passato, la collettività straniera maggioritaria in un Paese in cui gli immigrati incidono per un quarto sull’intera popolazione residente (8,5 milioni). L’incidenza degli stranieri varia nei diversi Cantoni: 26% a Zurigo, 28% nel Ticino, 33% nel Vaud, 35% a Basilea e 40% a Ginevra. Queste percentuali attestano che l’elevata incidenza degli stranieri non necessariamente deve essere considerata nel Paese di accoglienza un ostacolo alla prosperità e a un’armoniosa convivenza, obiettivi di fondo sui quali influiscono diversi altri fattori.
In questo periodo, seppure molto più positivo rispetto al passato, non sono mancati i contraccolpi. Infatti, non va dimenticato che nel 2014 il popolo svizzero ha approvato un referendum proposto dal partito UDC (Unione Democratica di Centro, in realtà un partito di destra) che impegna il governo ad approvare restrizioni e in particolare a ristabilire una sorta di “quote” per evitare l’immigrazione di massa. In quella consultazione il voto nei cantoni di lingua francese respinse la proposta, a differenza del Canton Ticino dove l’approvazione del referendum fece il pieno di voti. Il governo federale si mostrò tuttavia ancora una volta prudente, prendendo tutto il tempo consentito prima di approvare una nuova legge sull’immigrazione, ben consapevole degli aspetti negativi a livello economico, di scambi commerciali e di rapporti finanziari. In particolare, gli accordi quadro con l’Unione Europea, se fatti decadere in materia migratoria, avrebbero comportato il venir meno anche delle misure doganali e perfino di collaborazioni universitarie e di ricerca, con molteplici e gravi danni per il sistema svizzero. È stata scelta la via del negoziato con l’UE, che ancora ha i suoi strascichi ed è stata considerata un’anticipazione della Brexit [23].
Alle origini dell’avversione verso gli italiani [24]
Il lungo e tormentato percorso degli italiani in Svizzera evidenzia diversi aspetti meritevoli di essere maggiormente approfonditi, uno dei quali riguarda il superamento di un’avversione inizialmente riscontrabile nei loro confronti. Anziché teorizzare che gli italiani abbiano trovato in Svizzera una popolazione fredda e razzista, è più fruttuoso entrare nel merito dei fattori che hanno ostacolato la reciproca comprensione, tralasciando l’analisi della legislazione normativa (esaminata nei paragrafi precedenti) per soffermarci sugli atteggiamenti degli svizzeri.
La presenza degli italiani e il loro percorso di inserimento iniziarono nell’ultimo quarto del XIX secolo, quando i flussi migratori dall’Italia si diressero anche verso la vicina Confederazione e gli italiani vennero a trovarsi a fianco dei lavoratori tedeschi, austriaci e francesi, inizialmente più numerosi ma ben presto superati. Le prestazioni degli italiani nei posti di lavoro lasciavano molto soddisfatti gli imprenditori del settore tessile e metallurgico, mentre la loro presenza non era ben vista dalla popolazione. Erano braccia da lavoro che non arretravano di fronte a qualsiasi fatica pur di guadagnare di più per le loro famiglie, e per questo meno propensi all’adesione ai sindacati: per questi motivi talvolta venivano preferiti agli stessi lavoratori svizzeri, e da questi erano guardati con sospetto.
Alla fine del XIX secolo già si pose il “problema degli stranieri”, ma in generale fu dibattuto anni dopo, all’inizio del secolo successivo, quando le élites del mondo economico e politico, a fronte della consistenza e dell’impatto degli immigrati, si interrogarono sulla strategia più adeguata che ne consentisse un utilizzo che destasse minori preoccupazioni. Nel caso degli italiani sussistevano anche altri motivi di preoccupazione per gli autoctoni, specialmente nei cantoni di lingua tedesca che erano quelli a più alta concentrazione di stranieri. Qui un atteggiamento ostile per ragioni socio-culturali era già riscontrabile da tempo. Gli italiani non erano equiparati agli austriaci o ai tedeschi (più simili anche per ragioni linguistiche) e neppure ai francesi. I membri di queste collettività riuscivano ad affermarsi nei vari ambiti lavorativi, erano rispettati e, seppur stranieri, riuscivano a inserirsi senza problemi nella società svizzera, dalla quale restavano invece distanti gli italiani. Questi svolgevano le mansioni più umili e ciò non favoriva il loro apprezzamento. Erano ritenuti poco adattabili agli usi e costumi locali, con il pensiero sempre rivolto alla loro patria. Erano considerati diversi e, molto spesso, anche pericolosi. Erano pochi gli italiani che chiedevano la naturalizzazione rispetto agli altri stranieri e specialmente rispetto ai tedeschi.
All’origine di questa bassa stima non vi era solo il fattore statistico, perché in quel periodo la loro collettività era composta da poche migliaia di persone, mentre, ad esempio, quella tedesca contava nel 1888 ben 112.342 membri. Di seguito, però, la progressione numerica degli italiani fu notevole e raggiunse e superò lo stesso livello dei tedeschi. Tra gli svizzeri a quel punto si parlò (il riferimento riguardava anche gli altri stranieri e non solo gli italiani) di numeri preoccupanti e di una vera e propria invasione, anche se continuava a essere indubbia la funzionalità di questa presenza. Gli italiani, non conoscendo la lingua del posto, preferivano andare ad abitare negli stessi quartieri per poter parlare la propria lingua (e i loro dialetti) e trovare persone conosciute. Questa “distanza culturale” favorì ogni sorta di pregiudizio, tanto da indicare gli italiani come trogloditi, arroganti, sporchi, immorali, irascibili e violenti, come dimostrava l’uso ricorrente del coltello.
I problemi, che effettivamente esistevano, furono amplificati a dismisura. Questa incomunicabilità impedì la pratica del dialogo e spesso un semplice diverbio si trasformava in violenza verbale, talvolta anche fisica. Fu in questo quadro di profonda incomprensione che scoppiarono tumulti popolari contro gli italiani, prima a Berna nel 1893 (Käfigturmkrawall), poi a Zurigo nel 1896 (Italiener-Krawall), eventi sui quali è opportuno soffermarsi.
«A Berna il 19 giugno 1893 un folto gruppo di 50-60 di disoccupati locali si radunò nella piazza della stazione e poi si recò nel quartiere periferico dove erano in costruzione degli edifici, per picchiare gli italiani, accusati di accettar il lavoro per paghe più basse. La polizia catturò i facinorosi e li rinchiuse nella prigione del Käfigturm. Il provvedimento suscitò una forte reazione che portò all’assedio della prigione, per cui il sindaco sollecitò l’intervento dell’esercito che, dopo dodici ore e senza spargimento di sangue, riuscì a ristabilire la calma. Successivamente il tribunale condannò, sulla base di prove non del tutto convincenti, un membro dell’Unione operaia come responsabile della rivolta. Lo scoppio di violenza avvenne in un clima di lotta di classe, fomentato da un lato dall’Unione operaia, fondata nel 1890, e dall’altro dall’associazione borghese degli abitanti di Berna, creata nel 1892. La disoccupazione diffusa tra i lavoratori edili svizzeri, i contrasti sociali e la penuria di alloggi nella città in rapidissima crescita furono all’origine del malcontento nella classe operaia, esclusa dal potere […]. Nella rivolta del Käfigturm gli atteggiamenti xenofobi ebbero un ruolo altrettanto importante della dura reazione delle autorità borghesi alle proteste degli operai» [25].
A Zurigo, il 26 luglio 1896, un muratore italiano uccise a colpi di coltello un alsaziano che lo aveva ingiuriato. Il fatto, indubbiamente grave, fu la scintilla che fece scoppiare un malcontento popolare che covava da tempo di fronte all’incremento degli stranieri. Si formarono spontaneamente bande di svizzeri che diedero la caccia agli italiani, picchiandoli e devastando bar, ristoranti e negozi gestiti dagli italiani. I tumulti durarono diversi giorni e si rese necessario l’intervento della polizia e dell’esercito. La rivolta non era portatrice di rivendicazioni concrete ed esprimeva la crisi legata alla immigrazione. Gli immigrati italiani, perlopiù lavoratori stagionali impiegati nell’edilizia, divennero il capro espiatorio del profondo disagio causato dai rivolgimenti economici e sociali dell’epoca [26].
Una puntualizzazione merita anche l’assegnazione agli italiani dei lavori più umili e pericolosi, prassi che rafforzava la bassa considerazione dei membri della collettività. Gli italiani furono impiegati per realizzare il traforo del Sempione (dal 1898 al 1905) e del Lotschberg (dal 1907) e, in seguito, ad essi si sarebbe ricorso per il traforo del Gottardo, inaugurato nel 2016. Rimane indimenticabile il disastro verificatosi nel 1965, durante la costruzione della diga a Mattmark, quando una enorme massa di ghiaccio travolse le baracche dei lavoratori, tra i quali 58 erano italiani. I comportamenti ricollegabili a questa cattiva predisposizione verso gli italiani furono diffusi anche dopo il Secondo conflitto mondiale, quando la presenza italiana diventò molto più consistente rispetto al passato. Fu enorme il carico delle sofferenze così causate.
Nel 1970, nell’anno del referendum di Schwarzenbach, lo scrittore di Losanna, Raymond Duros, raccolse diverse testimonianze sul trattamento umiliante riservato agli italiani inseriti nei lavori precari e guardati da molti svizzeri con disprezzo [27]. Recentemente Paolo Barcella, nella ricerca Per cercare lavoro. Donne e uomini dell’emigrazione italiana in Svizzera (2018) ha utilizzato non la solo documentazione classica ma ha condotto la sua ricerca anche presso archivi poco conosciuti e non ha mancato di raccogliere testimonianze orali al fine di presentare tanto il vissuto degli italiani in Svizzera durante gli anni della guerra fredda, quando più di seicentomila immigrati vennero schedati e sorvegliati dalla polizia segreta svizzera.
Nel dopoguerra agli Italiani fu riservato un’accoglienza glaciale perché erano persone povere, poco istruite, portatrici di usi e costumi ritenuti incomprensibili, e sopportati solo purché bravi nel lavoro. Questi gli aggettivi usati nei loro confronti: “ritals”, “piafs”, “pioums”, “maguttes”. Ai duri impegni lavorativi e alle umiliazioni si aggiungevano i limiti della vita individuale familiare, mancando i propri cari e non potendo contare su amici del posto: la loro era una quotidianità segnata dalla temporaneità e dalle deprivazioni. La percezione che gli svizzeri avevano della situazione era diversa, e pochi si resero conto delle ferite psicologiche e morali che così si determinavano. Tali conseguenze, invece, furono ben rappresentate nei film Lo stagionale (1971) del regista operaio Alvaro Bizzarri e in quello, famosissimo come riuscita denuncia sociale, di Franco Brusati, che ebbe come protagonista indimenticabile l’attore Nino Manfredi, Pane e cioccolata (1974).
Rispetto a passato la situazione è cambiata ma esso non va dimenticato, come si dirà nelle conclusioni, non per alimentare l’astio nei confronti della Svizzera, dove gli italiani sono stabilmente inseriti, bensì per non ripetere nuovamente negli errori fatti e far propria la lezione della storia.
L’associazionismo di estrazione laica e religiosa
Come avvenne anche negli altri Paesi nei quali si recarono gli emigrati italiani, l’associazionismo conobbe in Svizzera una notevole fioritura, sulla quale riportiamo alcune riflessioni relative alle Missioni cattoliche italiane e al movimento dei lavoratori. La cura pastorale dei migranti nacque nella Chiesa cattolica dopo che Papa Leone XIII, nel 1891, pubblicò l’enciclica Rerum novarum. Prima che fossero strutturati i centri appositi per l’assistenza religiosa, furono le diocesi di Bergamo e Milano a svolgere tale compito tra gli italiani emigrati in Svizzera, per il tramite di sacerdoti inviati stagionalmente. Nel 1896, l’anno dei tumulti anti italiani di Zurigo, il vescovo di Coira, mons. Battaglia, chiese a Papa Leone XIII di inviare stabilmente un sacerdote italiano. Quindi fu fondata una Missione Cattolica Italiana a Zurigo nel 1888. Seguì la fondazione di MCI a Ginevra (1900), nel Vallese (1901, in concomitanza con la costruzione della galleria del Sempione), a Basilea (1903) e in numerose altre località, seppure per un’assistenza temporanea.
La costituzione di MCI fu ancora più fiorente dopo la Seconda guerra mondiale, arrivando a una copertura capillare del territorio svizzero con un centinaio di strutture. Sulla storia delle MCI in Svizzera condusse un approfondimento Paolo Barcella su incarico del CSERPE, il centro studi dei Missionari Scalabriniani in Svizzera [28].Nell’ambito di questa storia migratoria, imperniata prima solo di lavoro temporaneo e poi anche sull’inserimento degli italiani in Svizzera, le MCI, pur finalizzate all’assistenza spirituale degli italiani, si sono sempre fatte carico della loro promozione umana: già solo per il fatto di essere un centro aggregativo di persone ad alto rischio di emarginazione, e poi per curare il culto nella loro lingua materna, per praticare e favorire la solidarietà per far fronte ai bisogni materiali, per mantenere la lingua e la cultura italiana (un campo di notevole impegno sia nei confronti degli adulti che dei minori), per curare la formazione di leader.
Di antica data come le Missioni furono solo le strutture del movimento operaio, inizialmente ispirate al socialismo e all’anarchia e poi fortemente ideologizzate con il marxismo. Il riferimento religioso e il riferimento sindacale furono fondamentali, ma contrapposti, nella storia degli emigrati italiani, sia per la mancata valutazione da parte dei movimenti operai sia per la scelta religiosa che poteva conciliarsi con l’apertura sociale, come visibile in diverse esperienze condotte in ambito religioso. La contrapposizione causò dispersione di forze e anche una fortissima emulazione finché, nel periodo postconciliare, si giunse anche a fruttuose collaborazioni, arrivando al paradosso che, in un contesto in cui sono state ridimensionate le ideologie, il papa resta una figura autorevole a livello mondiale nel richiamare i valori che furono alla base dei due associazionismi.
L’altro ambito aggregativo si realizzò nell’ambito del movimento dei lavoratori attraverso strutture di solidarietà, aggregazioni sindacali e anche forme di partecipazione politica (come in effetti fu in Svizzera con le Colonie Libere). Il mondo associativo andrebbe presentato attraverso la biografia dei suoi rappresentanti più significativi. Così è stato fatto, ad esempio, nel caso di Leonardo Zanier (1935-2017), che dagli anni ’50 in poi operò in Svizzera come militante politico sindacale e studiò i problemi delle migrazioni [29]. Nella Confederazione elvetica, infatti, gli italiani, in considerazione del loro peso numerico che ne faceva la naturale rappresentanza dell’intero mondo immigrato, costituirono un’importante componente del proletariato locale e diedero luogo a dibattiti di rilevanza nazionale.
A differenza dell’associazionismo di ispirazione religiosa, quello di ispirazione laica fu guardato con sospetto e controllato in maniera pervasiva dalla polizia. Una larga maggioranza di quegli immigrati, sospettati di attività sovversive, era composta da lavoratrici e lavoratori italiani che avevano scelto la Svizzera come terra promessa. Fu esercitato un controllo poliziesco capillare e più articolato che in altri Paesi d’immigrazione, e che andava a vantaggio dei datori di lavoro. Meritano una menzione particolare le Colonie libere italiane (CLI) in Svizzera. Questi centri furono istituiti per contrastare il fascismo e il suo tentativo di imporre i propri rappresentanti all’interno delle organizzazioni degli immigrati con la minaccia di sospendere l’erogazione dei fondi governativi. Sulla nascita delle CLI si segnala anche l’influsso delle idee di Fernando Schiavetti (1892-1970), fuoruscito prima in Francia e poi in Svizzera, e poi attivamente impegnato in politica nel dopoguerra.
La prima Colonia libera fu fondata nel 1925 a Ginevra ad opera di alcuni fuorusciti italiani. Nella fase finale della guerra mondiale le CLI si adoperarono anche per favorire i contatti del Comitato di Liberazione dell’Alta Italia con gli immigrati o rifugiati in Svizzera. Il 21 Novembre 1943, nel corso di un incontro svoltosi a Olten, si creò un organismo federativo di tutte le CLI, con uno statuto imperniato sul sostegno sociale e culturale della comunità degli italiani in Svizzera nell’ottica di una partecipazione democratica e della pratica della tolleranza. Aumentate nel corso del tempo e diventate un centinaio, le CLI continuano a essere attive con le biblioteche e altre attività culturali e sportive [30].
Uno sguardo d’insieme sulla esperienza svizzera
L’elevato numero di espatri e anche di rimpatri, la difficoltosa accoglienza degli immigrati per lavoro rispetto a quella riservata agli esuli, il successivo e consistente numero di naturalizzati, il primato degli italiani come collettività straniera, l’arrivo dei protagonisti (più giovani e più scolarizzati) della nuova emigrazione: questi aspetti fanno del “caso svizzero” indubbiamente uno dei più significativi nella storia dell’emigrazione italiana nel mondo [31]. I brevi lineamenti storici, con i relativi commenti, hanno consentito di porre in evidenza alcuni punti nodali.
Rispetto ai flussi dell’emigrazione italiana di massa, l’approdo svizzero assunse un’importanza prioritaria solo nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, inizialmente con i flussi a rotazione imperniati sullo stagionalato (e allora, come anche oggi, anche sul frontalierato), successivamente anche con la prospettiva di una maggiore stabilità. Rispetto al caso francese l’esperienza svizzera non solo è stata più recente come fenomeno di massa ma anche, in un certo senso, “meno straniera”, perché la differenza di nazionalità trovava un parziale temperamento nel fatto che l’italiano era una lingua ufficiale del Paese (nel Canton Ticino e in parte anche nel Canton Grigioni, entrambi confinanti con l’Italia): il riconoscimento dell’italiano come lingua ufficiale si riscontra solo in uno Stato e in qualche città del Brasile. Ora, mentre nel Canton Ticino gli italiani possono parlare con gli autoctoni la stessa lingua, negli altri cantoni la praticità li porta a utilizzare quella del posto (tedesca o francese), con il rischio dell’oblio o dell’appannamento della loro lingua, e di una conoscenza superficiale dell’italiano.
Il modello migratorio svizzero nel dopoguerra è stato improntato alla più accentuata temporaneità, con una modifica di tale orientamento nel corso degli ultimi decenni del Novecento. Un andamento simile era riscontrabile anche negli altri Paesi europei: basti ricordare che in Germania gli stranieri sono stati considerati “ospiti”, quindi di passaggio, fino agli inizi degli anni 2000. Tuttavia in Svizzera la temporaneità è stata maggiormente accentuata dall’adozione di un rigoroso (per i lavoratori e per i loro familiari) statuto del lavoro stagionale, attenuato con il secondo accordo occupazionale italo-svizzero e solo a distanza di anni l’apertura ha riguardato anche gli altri immigrati.
In Germania e negli altri Stati comunitari la provvisorietà del soggiorno iniziò a essere superata già alla fine degli anni ’60 quando, in attuazione di una esplicita previsione del Trattato di Roma istitutivo della Comunità Economica Europea, entrò in vigore l’istituto giuridico della libera circolazione della manodopera, una fondamentale conquista nel trattamento della mobilità umana, cui negli anni 2000 ha aderito anche la Svizzera sottoscrivendo un accordo con l’Unione Europea. Non sembra infondato ritenere che i decisori pubblici elvetici scelsero di attenersi a tempi lunghi in questo processo di modifica della loro politica migratoria, non tanto per un pervicace ancoraggio all’ideologia della temporaneità, quanto per la preoccupazione di riuscire a fare accettare alla maggioranza dei cittadini un cambiamento ritenuto necessario per il futuro del Paese, evitando il ripetersi di gravi contrapposizioni e ricercando una mediazione basata su un minimo comune denominatore in materia di politica migratoria.
Il caso svizzero, quindi, merita un’attenta riflessione, specialmente nell’attuale fase in cui l’Europa mostra posizioni contrastanti sul fenomeno migratorio, mentre è necessario concordare un orientamento e prepararsi al futuro senza eludere i problemi da affrontare. Il gradualismo elvetico insegna che i passi intermedi quindi incompleti, se finalizzati a obiettivi più ampi, non devono essere considerati una resistenza al cambiamento, bensì una strategia per renderlo possibile e garantirne la durata nel tempo. Gli svizzeri trovarono a lungo difficile accettare una presenza stabile (e, a dire il vero, anche quella temporanea) degli italiani. Pur venendo da un Paese confinante, essi erano considerati così diversi da essere equiparati a una minaccia alla loro identità e alle loro abitudini: perciò furono guardati con diffidenza e spesso anche disprezzati ed emarginati.
Chi ha vissuto questa esperienza direttamente o tramite il racconto dei genitori, talvolta preferisce dimenticare questo triste passato, mentre altre volte, pur senza serbare rancore agli svizzeri essendo ormai spesso loro concittadini, ritengono che il passato debba essere ricordato nella sua crudezza, perché la memoria può garantire il conseguimento di fondamentali effetti positivi: aiuta ad apprezzare il singolo migrante come principale protagonista del fenomeno migratorio; consente di fare passi in avanti sul piano umano nonostante l’impatto dei fattori strutturali che influiscono sulle migrazioni; prepara al futuro che sarà sempre più interculturale, quindi meno compatibile con l’introversione degli orientamenti nazionalistici e individualistici; censura la superficialità di quegli italiani che, senza titubanze nel giudicare la Svizzera, dimenticano che lo stesso comportamento segregante e discriminatorio fu riservato ai meridionali che si recarono a lavorare nel nord Italia, non preoccupandosi affatto della loro integrazione nel tessuto sociale e limitandosi a utilizzarli solo come forza lavoro.
Nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale in tutta Europa fu tracciata una linea di demarcazione tra la gente del posto e i nuovi arrivati, tra i cittadini e gli stranieri, tra le persone simili e quelle portatrici di differenze, secondo quei complessi processi di psicologia sociale che Georg Simmel seppe analizzare con straordinaria profondità all’inizio del XX secolo, prima dello scoppio del conflitto mondiale. Seppure tardivamente, la Svizzera è riuscita a correggere questa impostazione “differenziale” tra autoctoni e cittadini stranieri, avviando il processo d’integrazione. Lo scrittore Max Frisch seppe rilevare per tempo (1° settembre 1966) tale discrasia quando, tenendo una conferenza alla presenza dei capi della polizia degli stranieri pronunciò la celebre frase: «Volevamo braccia, sono venuti uomini» [32].
Legando la riflessione sui fatti riguardanti la Svizzera con quelli relativi all’Italia, si può ragionevolmente ritenere che mentre la Confederazione elvetica, partendo da una posizione restrittiva, è riuscita a maturare una posizione più aperta, al contrario in Italia si è passati da un diffuso solidarismo con l’immigrazione nel corso della “prima Repubblica”, alla scarsa disponibilità attuale nei confronti degli immigrati e dei richiedenti asilo, sia a livello politico sia a livello popolare [33]. Il percorso d’integrazione, in Svizzera, è ancora recente, perciò non è possibile valutare se il dignitoso inserimento, che attualmente contraddistingue gli italiani equivalga già al raggiungimento dei livelli di qualità nei vari comparti della società e del mondo del lavoro e di quello politico, come avvenuto in altri Paesi. Lo “sdoganamento” (il termine cui è ricorso Ricciardi) dei movimenti nazionalistici e xenofobi, avvenuto prima ancora che questi si diffondessero in tutta Europa, potrebbe, ad esempio, costituire un potenziale rigurgito di natura restrittiva, come evidenziato dal referendum del 2014 sul quale in precedenza si è riferito.
Superato il limite del 10% proposto nel referendum, si è mostrato per decenni che la prosperità della Svizzera non è affatto pregiudicata da una elevata quota di popolazione di origine straniera, senza doverla sottoporre a rotazione. Tuttavia, con il referendum del 2014 si è ritornati su quell’impostazione che poteva ritenersi consolidata a distanza di decenni, e che non è suscettibile di modifiche tranchant: se si vogliono i benefici dell’immigrazione bisogna accettare anche la presenza dei soggetti che vi sono implicati. L’attuale situazione di stallo è più legata agli accordi con l’Unione Europea, ed è vissuta spesso dalla popolazione svizzera come un’ingiusta pressione ad adottare normative contro il volere popolare espresso direttamente tramite il referendum.
Per queste ragioni, dopo aver constatato il notevole cammino percorso dalla collettività italiana, da quella svizzera e dalla classe politica di quel Paese, una riserva di prudenza induce a concludere che le prospettive d’incontro tra la popolazione autoctona e quella straniera hanno bisogno di essere rafforzate, e che non basta constatare che siano numerosi gli italiani che hanno ottenuto la cittadinanza svizzera o ottenuto il diritto a una residenza stabile. I malumori popolari, evidenziati dalle consultazioni dirette, indicano che le prospettive di convivenza interculturale vanno rafforzate. Il caso svizzero è importante, quindi, non solo con riguardo al passato ma, ancor di più in relazione a quanto potrà avvenire nel futuro. Agli autori di questo saggio è sembrato doveroso completarlo con le riflessioni di Michele Schiavone, a lungo dirigente politico, che alla sua esperienza di emigrato in Svizzera unisce l’importante funzione di rappresentanza come segretario del Consiglio Generale degli Italiani presso il Ministero degli Affari Esteri.
Appendice
di Michele Schiavone
Il quadro s’insieme, curato da Franco Pittau del Centro Studi IDOS, insieme ad Alessia Montuori e Giuseppe Bea, ci regala un mosaico completo della presenza italiana nella Confederazione elvetica a partire dall’Unità d’Italia fino ai nostri giorni percorrendo un cammino a ritroso, che mette in evidenza i passaggi storici più significativi sui quali si è costruito e consolidato un fecondo rapporto di vicinato geografico, nel quale si ritrovano tutti gli aspetti caratterizzanti il ruolo dei nostri connazionali nei due Paesi, diventati punti di riferimento e di peso nella geografia politica, economica, sociale e culturale dell’Occidente.
Con gli occhi rivolti all’attualità, è facile dedurre come in questo lungo periodo storico l’Italia e la Svizzera si siano spogliate delle vesti migratorie, ed entrambi i Paesi sono diventati territori di accoglienza capaci di modellare le loro strutture sociali e culturali grazie all’apporto dei nuovi cittadini. La Svizzera non è più la terra descritta da Friederich Dürrenmatt, del quale quest’anno ricade il centenario della nascita, nei suoi racconti bucolici delle vallate dell’Emmental, né quella dello scandalo delle schedature, paragonata a una «prigione esistenziale popolata da carcerieri e prigionieri volontari», comportamenti che per lungo tempo hanno influito anche sulle libertà individuali dei nostri connazionali.
Oggi possiamo affermare, che se quella Svizzera è rimasta solo un triste ricordo sbiadito, archiviato e consegnato ai ricordi di sofferenze intrise di pregiudizi, di forme di sopraffazioni e di coercizioni, che costrinsero numerose nostre famiglie a tener nascosti migliaia di bambini a rischio di espulsione e allo screening sanitario obbligatorio alle frontiere per poter entrate in questo Paese, lo dobbiamo in parte al lavoro delle nostre associazioni, dei nostri riferimenti politici, di donne e uomini, che in condizioni proibitive hanno contribuito ad abbattere le frontiere geografiche e quelle del pensiero imperante del sospetto e della diversità per contribuire negli anni all’emancipazione civile, sociale, culturale e politica della Svizzera.
Nei decenni ‘70/’80 del secolo scorso, il periodo nel quale si sono celebrati diversi referendum (tra i quali quello più significativo mirava a costituzionalizzare la presenza degli stranieri al 10% della popolazione), è emerso lo scandalo delle schedature politiche. In questo Paese la presenza italiana nell’immaginario collettivo era rappresentativa di una immigrazione mal tollerata e sotto gli aspetti sociologici si dimostrò antesignana, in tutto e per tutto, dei canoni presenti nella teorizzazione nazionalistica e populista dei primatisti.
In quegli anni in Svizzera era presente una rete diffusa e organizzata di decine di migliaia di militanti politici del Partito Comunista e Socialista e della Democrazia cristiana, impegnati nei sindacati e nei movimenti delle Colonie Libere, delle ACLI e dei Circoli Culturali Realtà Nuova, tuttora presenti in ogni cantone. Era quello un periodo di grande fermento politico in tutto il continente e in Svizzera i nostri connazionali erano impegnati per l’affermazione degli elementari diritti civili. Era l’epopea dei treni rossi che ritornavano in Italia puntualmente per ogni elezione amministrativa, regionale e legislativa, inseguendo gli slogan dei grandi riferimenti politici nazionali «Torna per votare, torna per cambiare». In quel substrato sociale si era creato e perfezionato un mondo parallelo, nel quale trovavano spazio e agivano insegnanti, missionari, assistenti sociali, patronati, partiti politici, associazioni e centinaia di migliaia di connazionali, che con il loro agire hanno forgiato il senso della libertà diffusa e della felicità, contribuendo all’emancipazione e alla modernizzazione di questo Paese. Senza quelle tante storie la Svizzera sarebbe stata diversa, un’altra cosa rispetto al Paese che si è evoluto diversificando la sua vocazione finanziaria e di nazione neutrale per divenire una società accogliente e aperta al mondo.
Quelle esperienze hanno caratterizzato il ruolo pionieristico degli italiani in Svizzera nella costruzione della rappresentanza degli italiani all’estero, concretizzatasi nella conferenza dell’emigrazione italiana nel mondo del 1975 e in quella mondiale dell’emigrazione italiana del 2000, dalle quali hanno preso forma i Co.Em.IT., diventati successivamente Co.Mit.Es., il CGIE; inoltre, a partire dal 2006 si è concretizzata la presenza di 18 parlamentari nelle due Camere di Montecitorio e di Palazzo Madama, nelle quali nei primi tre mandati ci hanno rappresentato Gianni Farina, Franco Narducci, Antonio Razzi e Claudio Micheloni. L’apporto dei tre parlamentari eletti nel Partito democratico, nel sostanziare le questioni legate al mondo degli italiani all’estero in occasione dei provvedimenti parlamentari, è stato di alto profilo e il lascito del loro lavoro, costituisce la base sulla quale continuare a costruire l’integrazione degli oramai quasi 6 milioni di connazionali residenti all’estero nel tessuto nazionale e nell’internazionalizzazione del nostro Paese.
Gli stessi protagonisti, impegnati sulla scena svizzera a tener vivi i rapporti con il nostro Paese, si sono spesi per far progredire l’integrazione di tutti gli stranieri nella Confederazione elvetica, facilitando la costituzione di strumenti e di organismi di rappresentanza a livello federale. Da qui muove la costituzione della Commissione federale degli stranieri di emanazione del Consiglio federale degli stranieri, nell’ottobre del 2000, alla cui vicepresidente fu chiamata Anna Rüdeberg-Pompei. Nello stesso anno, sempre su iniziativa delle organizzazioni italiane, fu istituito il Forum per gli stranieri, diventato anch’esso organismo consultivo del governo, e alla sua presidenza si insediò Guglielmo Grossi coadiuvato da Vania Alleva, Guglielmo Bozzolini, Grazia Tredanari, Sulla scia di questo spirito pionieristico nel 2012 è stato istituito il Forum per l’italianità per la promozione e diffusione della lingua e della cultura italiane. Questi organismi si aggiungono al gruppo d’amicizia interparlamentare Italia-Svizzera, che più volte all’anno è convocato per aggiornare argomenti relativi agli accordi bilaterali.
Sono questi gli ambiti nei quali per decenni hanno lavorato e si sono distinte figure straordinarie quali Angelo Tinari, Salvatore Loiarro, Carlo Matriciani e Gianfranco Bresadola, Dino Nardi, assieme alle figure iconiche di Leonardo Zanier e Luigi Zanolli e dei tre parlamentari citati, dando vita a iniziative editoriali e giornalistiche, a programmi televisivi e radiofonici, quali “Radio l’Ora italiana” di Zurigo, e la prima televisione privata svizzera “Tele Diessenhofen”, nella quale io stesso ho condotto un intero programma in lingua italiana.
Una annotazione diversa e felice meritano i Comitati degli Italiani all’Estero e i Consiglieri del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, le cui prerogative li vedono protagonisti in un ruolo di interdizione e di ponte per curare gli interessi delle nostre Comunità nei rapporti con le autorità locali dei ventisei cantoni e con la rappresentanza diplomatica italiana dei cinque presidi consolari. Il loro operato e la loro presenza si sono rilevati essenziali e sussidiari ai servizi di prossimità offerti dalle istituzioni di riferimento: in una prospettiva di riforma del loro ruolo, essi vanno sostenuti e rafforzati nelle loro prerogative perché, nell’esercizio delle loro funzioni, spesso sono confrontati con sindaci, parlamentari, imprenditori, assistenti sociali, docenti, avvocati, come anche con i missionari, con il mondo associativo e con le forze di polizia.
Se, con il tempo, in Svizzera sono mutati gli atteggiamenti verso le minoranze linguistiche, culturali e etniche, lo si deve anche, e in particolare misura, ai nostri connazionali. Oggi nel Parlamento nazionale svizzero, nei parlamenti cantonali, nelle amministrazioni comunali siedono molti rappresentanti italo-svizzeri, figli di una storia emigratoria qualificante e di una cultura millenaria: lo stesso dicasi per tanti di loro chiamati a dirigere la rete delle università, dei policlinici, delle conferenze cantonali dei magistrati, dell’istruzione, come anche di impresari e di dirigenti di multinazionali, di grande e medie aziende private.
Gli italiani in Svizzera censiti dall’Ambasciata italiana a Berna alla fine del mese di agosto di quest’anno sono 660 mila. Gli svizzeri all’estero sono oltre 700 mila e di questi oltre 60 mila vivono in Italia. Molti italiani in Svizzera hanno la doppia cittadinanza. Le trasformazioni avvenute con il tempo in quella Svizzera, che il sociologo Jean Ziegler ha spesso criticato per la sua Absonderheit (“peculiarità”) o differenza, sono evidenti nelle diverse aree geografiche del Paese. Si è portati a auspicare un ulteriore progresso della Svizzera, intriso di una sostanziale caratterizzazione culturale e sociale di italianità, grazie anche alle decine di migliaia di connazionali della nuova mobilità, che continuano a trasferirsi in Svizzera con una media di 10 mila all’anno.
A differenza del passato e dell’emigrazione di massa, che spinse molti nostri connazionali a trasferirsi in questo Paese per ragioni di lavoro, la maggioranza dei nuovi trasferimenti avvenuti negli ultimi dieci anni, è costituita da figure qualificate, professionali e accademiche, ma anche di artigiani e di operai specializzati, che concorreranno ad arricchire di sapere e conoscenza, di opere qualificanti quest’isola felice, aperta al mondo, nella quale non solo la lingua italiana ma anche parte della nostra storia sarà chiamata a modellare il futuro della Svizzera, che vorremmo parte della realtà politica dell’Europa comunitaria, nella quale la sua storia potrà integrarsi senza perdere le proprie caratteristiche.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
Note
[1] Rinaudo S., Il cammino della speranza. L’emigrazione clandestina degli italiani nel secondo dopoguerra, Einaudi, Torino, 2009
[2] Cfr. sulla rivista Dialoghi Mediterranei gli articoli di Franco Pittau, con la collaborazione di altri ricercatori e operatori, di analisi dei percorsi di integrazione delle collettività italiane nei seguenti Paesi: Stati Uniti n. 41/2020, Francia, n.47/2021, Regno Unito n. 49/2021, Brasile n. 48/2021, Argentina n. 51/2021.
[3] https://www.fedlex.admin.ch/eli/cc/IX/706_624_706/it
[4] Scuola Ticinese, “San Gottardo. Cento anni: 1882-1982”,
https://m4.ti.ch/fileadmin/DECS/DS/Rivista_scuola_ticinese/ST_n.98/ST_98_completo.pdf; https://www.areaonline.ch/La-rivolta-dei-regnicoli-fra-le-polveri-del-Gottardo-cb293300
[5] Cfr. Pittau F., Emigrazione e colonizzazione italiana in Africa, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 37, maggio 2019
[6] Da notare che il fratello Oronzo Reale fu più volte ministro nel dopoguerra. Cfr. https://www.findmittel.ch/archive/archNeu/Ar40.html?tab=aktenserien
[7] Su questa figura di ambasciatore, che tenne le porte sempre aperte agli emigrati e seppe promuovere un apprezzabile livello di tutela in una fase quanto mai complessa, cfr. Castro S., Egidio Reale tra Italia, Svizzera e Europa, Franco Angeli, Milano, 2012
[8] Cerutti M., «Les Italiens à Genève à l’époque du fascisme et de la Société des Nations», in Genève et l’Italie, 1994: 101-116; cfr una breve sintesi del saggio redatto dallo stesso autore con il titolo Antifascisti e fascisti in Svizzera,
http://www.storiaxxisecolo.it/antifascismo/antifascismo13a.html
[9] Palma P., Una bomba per il duce: La centrale antifascista di Pacciardi a Lugano (1927-1933), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003
[10]https://www.varesenews.it/2020/07/giovanni-bassanesi-volo-antifascista-lodrino-milano-2/944680/
[11] Broggin R., Terra d’asilo. I rifugiati italiani in Svizzera 1943–1945, Il Mulino, Bologna, 1993: 19
[12] Nel 2020, a 120 anni dalla sua nascita, Zurigo ha commemorato lo speciale rapporto avuto con la città da questo scrittore e uomo politico: https://www.progetto-radici.it/2020/12/04/zurigo-per-silone-2020-a-120-anni-dalla-nascita/
[13] Cfr. Barcella P., I frontalieri in Europa. Un quadro storico, Biblion, Milano 2019
[14] “L’accordo del 1948 e le Convenzioni sulla sicurezza sociale del 1949, 1951 e 1962”, https://www.larivista.ch/laccordo-del-1948-e-le-convenzioni-sulla-sicurezza-sociale-del-1949-1951-e-1962/
[15] L’analisi della loro composizione (quella delle studentesse) mostra la rappresentazione che avevano dell’Italia e della Svizzera: Schooling in Switzerland: Young Emigrants in the Seventies, in Studi Emigrazione, LIV, n. 205, 2017. Cfr. anche Barcella P., Migranti in classe. Gli Italiani in Svizzera tra scuola e formazione professionale, Ombre corte, Verona, 2014
[16] Cfr. Ricciardi T., I figli degli stagionali: bambini clandestini, in S. Castro S., Colucci M., a cura di, L’immigrazione italiana in Svizzera dopo la seconda guerra mondiale, in “Studi Emigrazione”, a. XLVII, n. 180, ottobre-dicembre 2010: 872-876
[17] Quando si svolse il referendum, le donne in Svizzera non avevano ancora raggiunto l’obiettivo del diritto di voto, si tratta quindi esclusivamente di elettori maschi
[18] Cfr. una presentazione di questo istituto giuridico in Idos, Istituto di Studi Politici, Pio V, a cura di Coccia B. e Pittau F., La dimensione sociale dell’Europa dal Trattato di Roma ad oggi, Edizioni Idos, Roma, 2017, in particolare: 50-58
[19] Cfr., ad esempio, Pittau F., Il fenomeno del frontalierato. Condizioni economico-statistiche- e socio-giuridiche, in Affari Sociali Internazionali, n, 4, 1992: 97 e ss.
[20]Il testo è pubblicato in
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/LSU/?uri=CELEX%3A22002A0430%2801%29
[21] Sulle grandi aperture in ambito migratorio del diritto comunitario segnaliamo: Idos, Istituto di studi politici “S. Pio V”, a cura di Coccia B., e Pittau F., La dimensione sociale europea. Dal Trattato di Roma ad oggi, Edizioni Idos, Roma, 2017
[22] Cfr. Il fenomeno del frontalierato. Condizioni economico-statistiche- e socio-giuridiche, in Affari Sociali Internazionali, n. 4, 1982: 97 e ss.
[23] Sulla complessità dei problemi applicativi cfr. https://www.swissinfo.ch/ita/tre-anni-dopo-il-9-febbraio-2014_cosa-resta-della-decisione-della-svizzera-di-porre-un-freno-all-immigrazione/42947816
[24] Cfr. http://www.mercurival.com/mercuri/index.php/2-news/931-150-anni-d-immigrazione-italiana-in-svizzera-sesta-parte
[25] Lüthi C., La rivolta del Käfigturm, in: Dizionario storico della Svizzera (DSS), versione del 26.11.2014, https://hls-dhs-dss.ch/it/articles/017247/2014-11-26/
[26] Hess S., Tumulti antiitaliani, in: Dizionario storico della Svizzera (DSS), versione del 09.03.2015: https://hls-dhs-dss.ch/it/articles/016531/2015-03-09/, consultato il 29.09.2021
[27] Dubois R., Les Ritals en terre romande, Ed. L’Aire, 2007; Gian Antonio Stella, nel volume L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli, Milano, 2001, ha documentato come gli atti di razzismo e di xenofobia contro gli italiani fossero diffusi anche in altri Paesi
[28] Barcella P., Emigrati italiani e missioni cattoliche in Svizzera, Fondazione Migrantes, Roma, 2007; Emigrati italiani e missioni cattoliche in Svizzera (1945-1975), Libreria universitaria, CIG
[29] Cfr. Barcella P., Furneri V., Una vita migrante. Leonardo Zanier, sindacalista e poeta (1935-2017), Carocci, Roma 2020
[30] Sull’organizzazione attuale cfr.https://www.ultimavoce.it/le-colonie-libere-italiane-in-svizzera-quegli-ideali-antifascisti-che-ci-unirono/
[31] Sulla nuova emigrazione cfr. due recenti pubblicazioni del Centro studi e ricerche Idos e dell’Istituto di studi politici “S. Pio V”: Coccia B. e Pittau F. (a cura di), Le migrazioni qualificate in Italia: ricerche, statistiche, prospettive, Edizioni Idos, Roma, giugno 2016: 208; Coccia, Ricci, Europa dei talenti. Migranti qualificati dentro e fuori Europa, Edizioni Idos, Roma, 2019: 35-45 (in italiano e in inglese).
[32] Venturi F., Nudi col passaporto. La verità sull’emigrazione italiana in Svizzera, Pan, Milano, 1969
[33] Pittau F., Politiche dell’dell’immigrazione: l’eredità della prima Repubblica, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 46, novembre 2020
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Giuseppe Bea ha operato fino al suo pensionamento presso la Confederazione Nazionale Artigianato e piccole Medie Imprese, sia a livello locale, come Segretario provinciale Roma, sia a livello nazionale, essendo stato responsabile per CNA World (il programma rivolto agli imprenditori immigrati), dell’area internazionale e delle Relazioni istituzionali e della Comunicazione. Per la Confederazione ha partecipato a vari organismi ministeriali di consultazioni ed è stato anche membro della Camera di Commercio italiana di Nizza. Laureato in sociologia, si è adoperato a livello formativo e anche di ricerca. È stato anche tra i fondatori dell’Osservatorio Nazionale Imprese. È docente di economia delle imprese immigrate nei master specifici presso l’Università degli studi di Tor Vergata e la Link campus University. Nel 2013 ha ottenuto la onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana.
Alessia Montuori è dottore di ricerca in Teoria e Ricerca sociale. Dal 1990 si occupa di migrazioni e asilo politico a livello di studio e ricerca e nell’impegno sociale. Ha presieduto per circa dieci anni l’associazione “Senza confine”, attiva nel campo dell’immigrazione in Italia, e il premio per tesi di laurea intitolato a Dino Frisullo. Nel 2014 è emigrata in Svizzera, dove dopo essersi occupata di richiedenti asilo e minori stranieri non accompagnati lavora attualmente con persone affette da disturbi dello spettro autistico.
Franco Pittau, dottore in filosofia, è studioso del fenomeno migratorio fin dagli anni ’70, quando è stato anche impegnato sul campo in Belgio e in Germania. Ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario del genere realizzato in Italia). Già responsabile del Centro studi e ricerche IDOS (Immigrazione Dossier Statistico), continua la sua collaborazione come presidente onorario. È membro del Comitato organizzatore del Master in Economia Diritto Intercultura presso l’università di Roma Tor Vergata e scrive su riviste specializzate su emigrazione e immigrazione.
Michele Schiavone, pugliese, dopo la scuola dell’obbligo è emigrato in Svizzera, dove ha conseguendo il diploma di traduttore e interprete. Negli impegni lavorativi ha esercitato funzioni attinenti alla sua qualifica professionale e, inoltre, come giornalista pubblicista è intervenuto sulla stampa di San Gallo per curare la pagina italiana. Dal 2000 al 2015 ha rappresentato la comunità italiana presso il Consolato di San Gallo Dal 2001 è segretario del Partito Democratico in Svizzera e dal 2016 è segretario generale del Consiglio generale degli italiani all’estero.
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