L’esperienza insegna. Ma a volte no. È questo il caso della gestione ancora una volta tutta italiana dell’ennesima emergenza profughi che ha investito la nostra penisola negli ultimi mesi. L’Italia non è nuova a fenomeni del genere. Negli ultimi decenni è stata ininterrottamente interessata da un flusso costante di persone in arrivo sulle sue sponde meridionali, che la nostra politica prosegue testardamente a definire “emergenze”, anche quando invece il fenomeno sembra ormai aver assunto dei caratteri strutturali. Quando nel febbraio 2013 venne definitivamente chiusa la cosiddetta “Emergenza Nord Africa” (ENA), scaturita dalle turbolenze della Primavera Araba e soprattutto dalla fine del regime di Gheddafi in Libia, il bilancio è stato tutt’altro che positivo. Si sono sprecati fiumi di parole sulla gestione assolutamente schizofrenica di quell’intervento, che secondo molti ha portato ad un notevole sperpero del denaro pubblico, per realizzare forme di accoglienza che ben pochi benefici hanno avuto sui propri destinatari. Si è scatenata la corsa ai fondi da parte di quanti aveva relegato i profughi in qualunque tipo di struttura, non ultimi gli alberghi, dove i servizi offerti spesso andavano ben poco oltre al semplice vitto e alloggio. Questo tema è stato trattato in modo molto delicato dal film di Andrea Segre La prima neve, dove si racconta proprio dell’amicizia che nasce tra un rifugiato e un bambino sullo sfondo delle montagne altoatesine. Purtroppo la realtà è stata molto più cruda, e situazioni simili a quella del film, ma con toni decisamente più drammatici, hanno visto ad esempio molti profughi accolti in strutture alberghiere delle Alpi lombarde, spesso abbandonati a se stessi in località di montagna isolate.
Al momento della chiusura dell’ENA, da più parti si sono sentite voci, alcune anche delle istituzioni allora coinvolte, di critica e autocritica sulla gestione generale dell’intervento. Si sono spese dichiarazioni ad effetto a non ripetere gli stessi errori, ed anzi ad imparare da quanto sbagliato in passato per migliorare nel futuro. Nello specifico il nodo cruciale che ha portato al fallimento dell’ENA è stato sicuramente l’assenza di una gestione integrata dell’accoglienza, che, con l’affidamento alla Protezione Civile del coordinamento generale e l’apertura a qualunque soggetto interessato, ha in qualche modo introdotto attori inesperti in questo settore, come la stessa Protezione Civile o ad esempio gli albergatori [1]. Il risultato è stato una diversificazione notevole degli interventi, con modalità di accoglienza estremamente diverse tra zone differenti. Infatti i meccanismi di funzionamento del sistema ENA consentivano ampi margini di autonomia nella gestione dei fondi ricevuti, portando quindi ad esperienze di accoglienza a volte diametralmente opposte. Vi sono state realtà virtuose, capaci di attivare reti locali e sinergie tra soggetti pubblici e privati del territorio in grado di accompagnare i profughi ad un reale percorso di auto-promozione, nel rispetto della dignità dei singoli. Vi sono stati invece esempi meno virtuosi, dove ha prevalso la logica del business, e dove i fondi ricevuti sono diventati semplicemente un’ottima opportunità di guadagno per qualche abile imprenditore sociale.
In tutto questo l’esperienza di anni di un sistema consolidato di accoglienza integrata dei rifugiati, lo SPRAR [2], ha ricoperto un ruolo assolutamente marginale. Questo aspetto ha avuto sicuramente ripercussioni sull’offerta di servizi effettivamente erogati ai profughi, spesso di scarsissimo livello e ben lontani da quelli garantiti dai progetti SPRAR, che invece sono da anni impegnati nella tutela e nell’integrazione dei rifugiati. Va inoltre aggiunto che in qualche modo l’esclusione dello SPRAR da questa partita ha rappresentato anche un cambio concettuale importante rispetto all’immagine dei profughi stessi. Il loro inserimento nell’ENA ha di fatto imposto loro il marchio dell’emergenza, lasciando in secondo piano la titolarità o meno ad essere riconosciuto come rifugiato. Pur avendo seguito la procedura di richiesta asilo come i beneficiari dello SPRAR, di fatto gli accolti nell’ENA sono rimasti ingabbiati nella definizione di “profughi dell’emergenza” e non di rifugiati a pieno titolo [3].
La differenza tra accoglienza SPRAR e, chiamiamola così, accoglienza straordinaria riguarda essenzialmente due aspetti. Il primo concerne gli strumenti, soprattutto per l’integrazione socio-economica, messi a disposizione dai progetti SPRAR, che costituiscono un importante valore aggiunto rispetto al semplice vitto e alloggio dei centri di accoglienza straordinaria. Il modello dello SPRAR prevede infatti fondi specifici per la formazione professionale e l’inserimento lavorativo, oltre a regolamentare la fruizione dei corsi di italiano attestando addirittura il numero di ore settimanali minimo che l’ente gestore deve erogare ai propri beneficiari. È chiaro quindi come al rifugiato accolto nello SPRAR non viene offerto semplicemente un tetto sulla testa e qualcosa da mangiare, ma una serie di servizi che intendono accompagnarlo a 360 gradi nel suo inserimento in Italia.
Il secondo aspetto riguarda invece le modalità di rendicontazione dei fondi ricevuti, che nel caso dello SPRAR sono molto più rigide, garantendo quindi in qualche modo che tali fondi vengano realmente spesi per i profughi e non intascati da qualche imprenditore del sociale senza scrupoli. Infatti nel caso dello SPRAR i fondi vengono erogati soltanto a fronte della presentazione di una relazione molto minuziosa di tutte le spese sostenute, con tanto di relative pezze giustificative. Gli enti locali e gestori devono quindi rendere conto nel dettaglio di come hanno utilizzato quanto ricevuto, ed attenersi a criteri molto severi di gestione delle spese. Nel caso invece dell’accoglienza straordinaria, gli enti gestori ricevono semplicemente una quota pro die pro capite, ovverosia a presenza giornaliera per ogni singolo ospite, senza la presentazione di alcuna pezza giustificativa. È facile immaginare che la gestione corretta dei fondi sia affidata alla responsabilità del singolo ente gestore, non esistendo forme di controllo etero imposte. Un’ulteriore differenza non da poco è che nello SPRAR l’ente titolare dei fondi è sempre un ente locale, Comune, Provincia o Regione, che poi solitamente affida la gestione diretta ad un soggetto del privato sociale. Questo in qualche modo dovrebbe garantire una maggiore correttezza nell’amministrazione dei fondi, e un rispetto degli standard minimi previsti dal Ministero. Nel caso dell’accoglienza straordinaria invece spesso la gestione viene affidata direttamente dalle Prefetture a soggetti del Terzo Settore, con i rischi di una minore trasparenza e una maggiore spregiudicatezza nell’utilizzo dei fondi stessi.
L’assenza di una strategia di ampio respiro, oltre al mancato coinvolgimento dello SPRAR nella gestione dell’ENA, è stata lamentata dalla stessa Direttrice dello SPRAR, Daniela di Capua, che in un’intervista al Corriere Immigrazione del 17 febbraio 2013 mette in evidenza alcuni dei punti deboli gestionali dell’ENA [4]. Nella stessa intervista Daniela Di Capua apre però uno spiraglio per il futuro, auspicando l’istituzione di un Coordinamento Nazionale per gli interventi sui richiedenti asilo e i rifugiati, in modo da superare la disorganicità delle recenti esperienze ed arrivare ad un modello sinergico di azione.
Purtroppo l’approccio all’ultima ondata di sbarchi, partita lo scorso autunno e tutt’ora in corso, ci mostra al contrario che non ci si è allontanati molto dalle logiche dell’ENA. Uno dei primi documenti del Ministero dell’Interno che stanziava fondi per l’accoglienza dei nuovi profughi è del gennaio 2014. I fondi, come nel caso dell’ENA, erano da erogare ad enti gestori, pubblici e privati, in convenzione diretta con le Prefetture. Peccato che proprio in quei giorni si aspettasse l’uscita delle graduatorie SPRAR, che avrebbero delineato la nuova rete dei progetti territoriali per il triennio 2014-2016: una rete rinnovata al proprio interno, con un ampliamento da 3mila a 15mila posti, e con la possibilità per ogni progetto territoriale di mettere a disposizione ulteriori posti aggiuntivi in caso di necessità. Nel complesso, lo SPRAR nel nuovo triennio garantisce infatti all’incirca 20mila posti, con la prospettiva proprio di poter far fronte alle varie emergenze sbarchi all’interno di un sistema integrato. Un cambiamento di prospettiva notevole per un sistema che da anni lotta per consolidarsi e uscire finalmente dalla logica emergenziale che da sempre connota il modello dell’accoglienza italiana. Difficile quindi interpretare la decisione del Ministero dell’Interno di dare l’avvio alla nuova rete SPRAR e quasi in contemporanea attivare altrettanti posti attraverso le convenzioni dirette con le Prefetture.
Ancora una volta si è visto quindi nascere un canale parallelo di accoglienza, con modalità di gestione diverse e parametri di accoglienza spesso profondamente squilibrati. Con il solito rischio che il singolo profugo possa seguire percorsi assolutamente diversi a seconda che per un colpo di fortuna venga inserito in una struttura piuttosto che un’altra. È chiaro che la volontà politica di evitare un unico modello integrato di intervento ponga una serie di criticità a molti livelli. Queste criticità sono state segnalate al Ministero dell’Interno da più parti, anche da quegli enti locali più sensibili al tema dei profughi, che temono in qualche modo il ripetersi dell’esperienza devastante dell’ENA di tre anni fa [5]. Un segnale positivo è arrivato per fortuna nello scorso mese di luglio, quando è stato raggiunto un accordo tra Governo, Regioni, Province e Comuni per il varo di un Piano di accoglienza per i profughi – che peraltro hanno continuato ad arrivare, e si è da poco toccato il numero 100mila dall’inizio del 2014. Il Piano dovrebbe prevedere tre fasi distinte: la ricezione dei migranti al momento dell’arrivo sulle nostre coste, lo smistamento entro 48 ore dall’arrivo in hub regionali, e la successiva collocazione in SPRAR [6]. Teoricamente questo modello dovrebbe consentire un raccordo sinergico tra Centri di primissima accoglienza e lo SPRAR, evitando la proliferazione delle molteplici strutture di accoglienza di cui sopra. Resta da capire con quali modalità tale piano verrà attivato, e soprattutto quando e come cesseranno le attività tutte quelle strutture in convenzione con le Prefetture, che ad oggi continuano ad accogliere i profughi parallelamente allo SPRAR. Resta infatti il dubbio che la celebre frase del Gattopardo “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” si dimostri ancora una volta drammaticamente profetica.
Dialoghi Mediterranei, n.9, settembre 2014
Note
1 Marchetti, C. 2014 “I rifugiati da eroi a profughi dell’emergenza” in https://www.academia.edu/7602965/ p.126
2 Lo SPRAR nasce nel 2002 su iniziativa del Ministero dell’Interno e letteralmente significa Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati.
3 Marchetti, C. 2014, cit. p. 127.
4 Cfr. http://www.corriereimmigrazione.it/ci/2013/02/di-capua-e-mancata-una-strategia/
5 Si cita ad esempio la comunicazione allo SPRAR del Sindaco di Modena Giorgio Pighi, delegato ANCI per l’immigrazione del 21 marzo 2014
6 http://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2014/07/10/news/immigrazione-91235654/
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Chiara Dallavalle, già Assistant lecturer presso National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia culturale, è coordinatrice di servizi di accoglienza per rifugiati nella Provincia di Varese. Si interessa degli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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