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di Tano Siracusa
Gli sguardi dei siciliani, il loro linguaggio, la loro violenza. Guardari in siciliano significa anche sorvegliare, tenere a bada, controllare.
Ed è lungo gli sguardi degli altri che si precisano i personaggi, che si intrecciano i disconoscimenti, gli inganni, le finzioni, che prendono forma le maschere per la recita sociale.
Pirandello ha solo evidenziato un tratto della sicilianità che difficilmente passa inosservato.
Denis Mack Smith, ad esempio, lo segnalò come ciò che maggiormente lo aveva colpito visitando l’Isola per la prima volta.
Forse la premessa filosofica di certe forme di individualismo siciliano oscilla fra il dubbio che gli altri non esistano, che siano delle nostre allucinazioni (delle nostre fotografie?) e l’ossessione degli altri, del loro sguardo, di ciò che noi appariamo nel loro sguardo.
L’altro come prolungamento di sé o come emorragia, come rischio di perdita di sé, come alienazione.
Ci sono codici, regole. Chi guarda comanda. Abbassare lo sguardo come segno di riconoscimento dell’altro e di sottomissione, incrociare gli sguardi come reciproca sfida.
Naturalmente tutto è molto sfumato e poi dipende da dove ci si trova, se in via Ruggero Settimo o a Ballarò a Palermo, nella piazza centrale di Palma di Montechiaro o seduto a un caffè di Ganci.
Il galateo degli sguardi in Sicilia è una vasta e ardua disciplina che istruisce al rispetto delle gerarchie, che inibisce il mimetismo, che interdice spesso la reciprocità e istituisce il comando e l’obbedienza, che rende manifesta la violenza implicita nel guardare.
Se un fotografo si sente la coscienza sporca in Sicilia rischierebbe perciò di venire paralizzato dal senso di colpa o dal timore di far scoppiare un casino ad ogni clic.
Lo sguardo fotografico è infatti uno sguardo che esibisce la sua violenza, che pretende di degradare chi viene fotografato a un pezzo di carta, in balìa degli sguardi degli altri, nell’impossibilità di replicare, di restituire lo sguardo, di affermare il suo non essere quella fotografia, quell’immagine irrevocabile su pezzo di carta, una cosa.
In Sicilia fotografare per strada uno sconosciuto può essere più rischioso che altrove.
Gli unici contesti nei quali si può fotografare liberamente, senza rischiare, sono le feste perché la teatralizzazione è in quei casi collettiva e ritualizzata. Oppure quando chi fotografa è conosciuto e accettato da chi viene fotografato.
Questo è vero ovunque, e d’altra parte in altre lingue neolatine, come lo stesso italiano, “guardare” conserva anche il significato di custodire. Si custodiscono le cose e gli animali, ma anche gli uomini. “Guardiano”, “guardia”, vengono da “guardare”.
Ma è nell’isola di Pirandello che la complessità dello sguardo sembra alludere ad una preesistente verità, muta, stabilita dai corpi, da quel loro inoltrarsi nel mondo, incontro agli altri o contro, innanzitutto attraverso gli sguardi.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
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Tano Siracusa, fotografo di origine agrigentina, ha iniziato la sua attività nei primi anni ‘80, alternando reportage di impostazione bressoniana ad un uso più diaristico e introspettivo del mezzo fotografico. È stato condirettore del trimestrale Sudovest e direttore di Fuorivista, ha fatto parte della redazione di Gente di fotografia. Ha pubblicato numerosi libri fotografici, tra i quali: Perdersi in manicomio (1993); Scattando incontro al tempo (2010); Con i suoi occhi (2011); e un libro di racconti ‘illustrati’ da fotografie Specchi e altri racconti (2014). Da molti anni si dedica alla realizzazione di video e documentari. alcuni pubblicati su testate on line.
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