È la prima volta che Aldo Gerbino colloca 18 intense prose poetiche a fronte di 18 immagini di opere non destinate ad una esposizione temporanea né finemente riprodotte come tributo di collaborazione di un artefice amico ad una nuova plaquette (Non è tutto. Diciotto testi per un catalogo. Con una Premessa di Paolo Ruffilli ed una Chiosa di Aldo Gerbino, Milano, Il Club di Milano-Spirali, 2018).
La collezione dell’autorevole poeta-scienziato e critico d’arte – in parte riprodotta in scala ben leggibile nel piccolo formato, in parte miniaturizzata come marca di citazione – è una galleria privata ideale, una soggettiva epitome di figure, che compongono una retrospezione autobiografica del professore che a Palermo ha creato e ordinato la Quadreria Mediterranea dello Steri, sede del Rettorato dell’Università statale, la cui realtà museale, di recente purtroppo inquinata da acquisizioni non sufficientemente meditate, manterrà comunque, almeno nel prossimo futuro, l’impronta originaria della sua appassionata iniziativa di inventariazione e ricollocazione, in un ambiente di gran decoro, delle tele già esistenti in più uffici dell’Ateneo, e della contemporanea promozione di donazioni di gran pregio. E appunto dai dipinti della quadreria provengono alcuni importanti pezzi del repertorio di Non è tutto, che, nell’ordine in cui appaiono al lettore, sono il retro della tela di C’est n’est pas tout (sic) di Filippo del Pisis (1949), cui segue a distanza la foto di Brai del dipinto stesso, particolari isolati del quale figurano sulla copertina, scomposti ed evidenziati quali programmatici grafismi; Renato Guttuso, La Vucciria (1974); Enzo Nucci, Finestra sul Mediterraneo (2010).
Un secondo gruppo cospicuo è rappresentato da disegni di Bruno Caruso, venuto a mancare il 4 novembre dello scorso anno: Il falco sul teschio (1980), El caballero de triste figura (Don Quijote) (1999), Cervantes a Napoli (1999). Caruso fu e resta artista carissimo a Gerbino, che non ha riserve a riconoscere quanto gli deve di ispirazione la totalità dei testi affidati a questo suo inusuale catalogo.
Ai disegni di Caruso s’aggiungono altri dipinti d’ispirazione fra metafisica e surreale, tra cui un Ceccotti e un Attardi. Se però non fosse per alcune grandi opere classiche, che fungono da allegoresi unificante, le altre immagini della personale galleria di Gerbino, quelle non caratterizzate da un disegno dal tratto vigoroso ed esatto di un Guttuso o Caruso o dalla traccia più spessa di un Garbari, parrebbero estranee alla raccolta, nella quale si isolerebbero come paesaggi colti in vaghe luminosità o incerte atmosfere crepuscolari, talora alternanti azzurro ed oro, ora trascorrenti dal blu al nero (Levasti, Nucci, Modica, Guccione).
Simmetricamente disposto a inizio e fine della galleria ideale è il grande affresco allegorico del Trionfo della Morte di Palermo, esemplare di un genere didascalico-edificante bene attestato nell’arte italiana tardo-medievale, che mette in scena una Morte dedita all’attività venatoria, che ha dismesso la falce livellatrice del tempo, eguagliatrice dei ceti quando giunge l’ora, per armarsi invece d’arco e turcasso e trafiggere di sorpresa, verosimilmente coi dardi delle pestilenze periodicamente ricorrenti nell’età media, giovani nel fiore degli anni, fanciulle dalle candide braccia, che godono dei piaceri della caccia e dei ludi d’amore, resi più eccitanti dall’intrattenimento/differimento attraverso la musica ed i versi eletti.
A questa immagine, la prima d’una galleria di reperti disposti in rigorosa successione lineare, corrisponde il commento ammonitorio, che a noi «per poco tempo incolumi spettatori», a noi, «impietosa umanità dell’oggi, già corrotti nel lagunare stambugio del corpo», tocca di meditare sull’«impervio incendio del mondo» e sulle «grida pervase dal raccapriccio». In questi termini l’invito edificante a non distogliere la mente dalla fine nostra incombente ricapitola i temi essenziali e costanti dell’opera grafica sterminata di Bruno Caruso, che il palermitano Trionfo studiò, attualizzò, variò, usandolo come vivaio d’immagini, e addirittura copiò in un olio su tela nel 1999, che Aldo Gerbino riproduce miniaturizzato in coda, nel corpo della sua postfazione.
Alla cavalcata del destriero dalle orbite cave seguono immediatamente due raffigurazioni topiche del corpo morto: come ancora per poco asettico oggetto della Lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt (1632), ma nella rielaborazione grafica a suo tempo predisposta da Gerbino per un breve testo epigrammatico di Sanguineti e come ripugnante materia in decomposizione dell’anatomista e virtuoso ceroplasta barocco Gaetano Giulio Zumbo, autore dell’impressionante diorama La pestilenza (1695 circa) del museo zoologico della Specola.
La composita e ideale galleria personale messa assieme dall’istologo ed embriologo presidente dell’Accademia delle Scienze Mediche di Palermo, in quanto corrisponde a un’intenzione non immediatamente palese nelle singole opere, fra loro tanto distanti e disparate per genere e distanza cronologica, apparirebbe indubbiamente priva di coerenza e unità senza l’illustrazione ecfrastica che, quasi autobiograficamente, ripercorre talune tappe fondamentali di un processo continuo di acquisizione di cognizioni e percezioni, che ha come filo conduttore la pratica e la memoria visiva, l’emozione oggettivata nell’esperienza tattile e sensuale di un collezionismo instancabile e accanito.
Ma l’illustrazione di cui dico si vale della procedura indiretta dell’allusione erudita, che non conferma affatto l’individuazione nella «sicilitudine», da parte del prefatore Ruffilli, dell’ispirazione fondamentale di Gerbino, che, se questa davvero fosse la sua genesi di poeta e critico d’arte, quasi non avrebbe sussistenza al di là dell’Oreto ed oltre il Lilibeo, né fuori dell’orizzonte del pure assai culto pirronismo sciasciano, precipitosamente scambiato con la razionalità di una Aufklärung d’importazione, che sarebbe la radice di Gerbino scienziato.
Se le immagini del Trionfo della Morte aprono e chiudono la galleria ideale delle figure, due strofe di Proust dedicate agli stilemi rococò-edonistici di Watteau, nella raccolta Les plaisires et les jours del 1896, sono offerte come chiave interpretativa per orientare il lettore fra i 18 testi e le 18 immagini: una volta nella traduzione di Fortini, nella pagina delle citazioni in esergo che precede la galleria, ed una seconda volta, in francese, in epigrafe alla chiosa conclusiva intitolata Distanze, che, proprio a partire da Proust, enuncia il principio di una poetica della non compiuta equivalenza dei modi figurativi e verbali per comunicare un oggetto dato, in quanto esso è intenzionato direttamente da una percezione emotivamente connotata, e in quanto la stessa percezione lo coglie per intenzione obliqua, non nel suo esserci-là ma in quanto è per così dire idealizzato, immaginato mediante la «distanza» da un sentire affidato alla memoria selettiva.
Il verso cardine di Proust su Watteau recita: Le vague devient tendre, et le tout près, lointain, presentando un doppio effetto di divergenza della percezione dell’indeterminato atmosferico, da una parte e, dall’altra, di ciò che è talmente vicino da essere quasi palpabile. L’indefinito della luce crepuscolare, col suo palpitare instabile di chiari e scuri, che dura fino al definirsi netto di un’alba o di un tramonto, evoca tenerezza verso le figurine umane di uno dei tanti dipinti di Antoine Watteau, trasfigurate dalla distanza come da una mascherata arcadica. L’estraniamento del tout près, il suo distanziarsi, rende accettabile il gesto d’amore più mendace (le geste d’aimer plus faux) ma nondimeno circonfuso di spleen e seducente levità. La distanza giustifica, in altri termini, i riti mondani che sdrammatizzano, legittimando la più disimpegnata fatuità, un eros tutto affidato all’intrattenimento (barques, goûters, silences et musique) da amanti che sanno bene «che l’amore ha bisogno d’essere abbellito con sapienza» (L’amour ayant besoin d’être orné savamment). Implicita ma leggibile in filigrana è insomma la gaia scienza psicologica che condanna il greve amore romantico (e cristiano).
Questo commento di Proust, vero e proprio fil rouge della Chiosa, è generalizzato e rivalutato da Gerbino in «principio di distanza», che punta con decisione su di una scelta insieme tecnica e stilistica della lettura proustiana di Watteau, che dallo sfondo (le lointain nel lessico francese della pittura), dal «lontano» di un tableau, fa nascere le atmosfere che in tenue continuità di coloriti cangianti assorbono e sfocano le figure in proscenio. Così inteso, il «principio di distanza» può valere come la lezione fondamentale di Bruno Caruso, quale si palesa nella «sua volontà di scardinare la precisione della realtà con la distanza procurata dal sogno, di phantàsmata ricreati dalla storia, nella doglianza della vita». Nella sua dimensione emotiva la distanza è «doglianza», distaccato disincanto dello spleen, che Caruso visse denunciando in disegni e colore la «sublimata umana epopea» della violenza e iniquità della storia, tal quale poté anche apparire al delirio vendicatore del malinconico Cavaliere dalla triste figura, incarnazione di una giustizia irrealizzabile dalla sua spada.
In maniera diversa Filippo De Pisis, primario centro ispiratore della galleria ideale, visse solo da appartato dandy la doglianza «nella carne», sofferenza lacerante rinnegata dal sarcasmo delle sue mascherate. «Ho sempre apprezzato – osserva a proposito Gerbino – l’immagine di quella “cipria di baci intorno a bocche stanche” [Proust, Watteau cit.] in cui pertinacemente gioca a nascondino il comptulus di turno, cioè il ‘civettuolo’, il vanesio, lo sfarfallante soggetto qui equipaggiato da inconsapevole funzione lenitiva e che ritrovo intatto nel finis dell’esistenza del pittore e poeta ferrarese».
Attraverso l’esibizione di immagini di De Pisis ma soprattutto in forza dell’approfondimento analitico di queste, il principio di distanza si specifica in tesi dell’incompletezza e insufficienza delle singole arti a esprimere adeguatamente uno stesso inesauribile oggetto. Una nostalgia latente del Gesamtkunstwerk wagneriano, che certamente fu criterio ideale di integrazione delle arti del Proust dei Plaisirs? Forse.
In ogni caso l’insufficienza delle singole arti a rappresentare adeguatamente un medesimo oggetto, o la percezione di esso, è detta chiaramente dal titolo dei diciotto testi per un catalogo, Non è tutto, e dai particolari dell’omonima tela di De Pisis riprodotti sul bianco della copertina: il vaso di fiori in quanto pittorica natura morta e la penna e il calamaio, che rinviano a quelle parole e a quella scrittura che l’olio su tela non riesce a dire.
Dal «fondo comune delle arti» (così Montale recensendo nel 1954 le poesie di De Pisis) non si perviene alla loro identità, ancorché vagheggiata dall’illusione dell’autosufficienza di ciascuna. Fra la traccia del pennello e quella della penna resta adesso, per un Gerbino che non trova più, come ancora pochi anni fa, identità fra il «fondo comune delle arti» ed il fondo di ciascuna di esse, talché le immagini e i testi a fronte corrispondenti si comporterebbero come il mote enunciato nella copla, o cuarteta o redondilla, e la sua glosa, forma poetica castigliana presente nel capitolo 18 della seconda parte del Don Chisciotte, che nel medio omogeneo della lingua dice la stessa cosa due volte: in forma liricamente contratta e nel suo più esteso commento, parimenti rimato e incorporante come clausole strofiche i versi illustrati. Adesso, avendo approfondito il principio di distanza, Aldo scorge fra l’immagine e il testo a fronte «improvvisi salti semantici capaci di dare uno stimolo, di ‘accelerare il pensiero’ (Brodskij)». Dunque convergenza ponderatamente perseguita e non più identità.
Naturalmente questa maniera di concepire la composizione per contiguità di segni di differente natura, l’accoppiamento speculare di verba-picta e spazialità, non può essere un ritorno agli inserti di testo biblico o di massime edificanti direttamente o ai margini dello spazio pittorico delle iconografie musive o affrescate dei luoghi del culto cristiano di un Medioevo che imporrà i suoi stereotipi ben oltre i confini della Rinascenza. Il Trionfo della Morte di Palermo, al quale non manca nessuna delle icone allegoriche obbligatorie, non contiene bensì tali testi ma si può dire che li presupponga, data la frequenza di cartelli e cartigli in tante delle opere trecentesche, o posteriori, che ci sono pervenute: dall’affresco di Bartolo di Fredi in San Francesco di Lucignano (Arezzo) a quello del Borlone per l’Oratorio dei Disciplini di Clusone (Bergamo), due dipinti di grandi dimensioni che hanno a soggetto la Morte come cacciatrice, non come ministra del Tempo, e presentano la raffigurazione della caccia col falco, esattamente come nel capolavoro palermitano. La saggezza semisapienziale cui si ispirano queste raffigurazioni venatorie della cavalcata della Morte sono mirabilmente compendiate dal Libro di Sidrac: «Che ène morte? Morte ène sonno eternale, paura delli ricchi, desiderio delli povari, cacciatrice di vita, risolvimento di tutti».
Chiarito tutto ciò, possiamo congedarci dal lettore di questa recensione per invitarlo a leggere i testi a fronte di Aldo Gerbino. Ma non senza una doverosa postilla sul loro stile «apocalittico».
Non è l’accadere della morte il tema proposto da Aldo Gerbino ma il corpo morto, considerato a partire dalla sua presenza non solo virtuale nel putrido «stambugio del corpo», contemplato nella universale marcescenza dei fiori recisi di De Pisis, simbolo, da freschi e tonici, di effimero lirismo sessuale. E torna con insistenza il corpo morto: quello degli ortaggi e delle carni diversamente offerte al consumo da Rembrandt e Guttuso, quello dei corpi ignudi in abbandono di donne rideste da «tante morti apparenti», per non dire della più cruda putrefazione dei corpi offerti allo sguardo osservatore dal ceroplasta Zumbo, che si dilata in generale dissoluzione della luce nei bagliori incerti dei crepuscoli. E poi, ancora? Poi, infine, il compiersi della dissoluzione del corpo vivente nel suo definitivo ritorno alla materia inorganica, che lo restituisce al cosmo. Ma il compiersi è senza fine.
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
Nota bibliografica per lo slow reader. Non si propongono further readings ma esclusivamente un breve elenco di fonti citate ed alcuni scritti recenti di Aldo Gerbino, dai quali Non è tutto nasce come ricapitolazione ed elaborazione ulteriore.
Fonti
Marcel Proust, Les plaisirs et les jours; illustrations de Madeleine Lemaire; préface d’Anatole France; et quatre pièces pour piano de Reynaldo Hahn, Paris, Calmann Lévy, 1896; Filippo De Pisis, Poesie. Prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 2003; Libero De Libero, Il Trionfo della Morte. Galleria Nazionale della Sicilia, Palermo, Flaccovio, 1958; Edoardo Sanguineti, Rembrandt van Rijn, in «Plumelia. Almanacco di cultura», Bagheria, Plumelia, 2004, p. 17.
Saggi e poesie di Gerbino
Fiori gettati al fuoco. Mercati, voci. Per una collezione d’arte moderna e postmoderna, in: Organismi. Il sistema museale dell’Università di Palermo. Percorsi – saggi – schede. A cura di Aldo Gerbino, Bagheria, Plumelia, 2014: 187-209; Fiori gettati al fuoco. Ipotesi per una collezione: Steri – Quadreria mediterranea, dipinti, incisioni, Bagheria, Plumelia, 2014: 1-45; Fazzoletti arborei, linfe floreali e piume: botanica ed entomologia in Filippo de Pisis, n. 2 della Biblioteca della «Rivista di Studi italiani», XXXIII (2015), Dicembre: 90-104; Nel fulgore di una pulsar. Tredici testi per tredici dipinti di Enzo Tardia. Premessa di Piero Longo, Bagheria, Plumelia, 2017; Nel fervore della scienza, la “grazia del dire”. Giovanni Filippo Ingrassia: clima culturale, bioatmosfere, in Rosalia. Eris in peste patrona. A cura di Vincenzo Abbate, Gaetano Bongiovanni, Maddalena De Luca, Palermo, Edizioni della Fondazione Federico II, 2018: 31-48.
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Nicola De Domenico, già docente di Filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Messina e di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Palermo, è stato componente dei consigli scientifici, rispettivamente, della Internationale Hegel-Gesellschaft e dell’Istituto Gramsci Siciliano di Palermo. Nel 2008 ha svolto attività di ricerca presso il Sidney-Sussex College, Cambridge UK, in qualità di Visiting Fellow. Collabora stabilmente con il «Giornale di Metafisica» e con la Fondazione Nazionale “Vito Fazio-Allmayer”. È presidente del Centro Internazionale di Cultura Filosofica “Giovanni Gentile” e ha al suo attivo diverse pubblicazioni sulla Filosofia italiana e tedesca contemporanea.
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