di Luigi Lombardo
In questi ultimi tempi, a seguito della crisi energetica scaturita dal conflitto russo-ucraino, si è riproposto il tema delle fonti energetiche alternative ai fossili come petrolio, gas, carbone. Se la ricerca e l’impiego di queste fonti sono entrate nei piani alternativi delle nazioni europee finalizzate al reperimento di energia “pulita”, la stessa cosa non è successa per il carbone fossile, di cui i Paesi del Nord Europa sono particolarmente ricchi. La produzione è ripresa (se mai è stata sospesa) e tra le motivazioni addotte ci sarebbe quella di essere il carbone fossile equivalente al carbone di legna.
Certo entrambi i materiali derivano dalla combustione di legna e nell’immaginario collettivo sono visti come fonti pulite, pur divergendo, e sostanzialmente, i procedimenti per ottenerli.
Nel fossile interviene la natura che attraverso i millenni ha creato e crea questo materiale ignifero, che si estrae come un qualsiasi minerale. Il carbone da legna, come è noto, è un prodotto del lavoro dell’uomo, quello che gli ha assicurato per l’avvenire una riserva energetica sicura e in certo senso inesauribile (tale appariva al tempo del suo uso massivo). É sembrato che in fondo il carbone da legna, prodotto naturale, ottenuto con millenarie tecniche di produzione, generasse energia pulita (ai tempi il problema non si poneva neanche), mentre oggi si sa che l’impatto sull’ambiente del carbone “naturale” è del tutto equivalente a quello del carbone fossile.
Certo a primo acchito si pensa, come detto, ad una fonte energetica pulita, ottenuta da un elemento parte della natura, il legno, che i boschi forniscono in abbondanza. Il carbone “naturale” è stato visto ed è visto come una componente essenziale delle riserve energetiche delle famiglie, il risultato di un processo di domesticazione di un elemento primigenio e in fondo non appartenente all’universo domestico qual è il fuoco. Sotto forma di pellet riscalda oggi moltissime abitazioni e altrettante piccole aziende.
Il fuoco di legna e il calore del carbone derivato dalla produzione e dallo spegnimento guidato delle fucati, fiammate, erano parte delle attività quasi giornaliere delle famiglie, fin quando qualcuno non pensò di organizzare, secondo precise norme tecniche, le operazioni di produzione dei carboni di legna, di governare con precisi procedimenti fabbrili l’inesorabile procedere delle fiamme: nacque così nel tempo il mestiere dei carbonai (chiamati in siciliano craunari). Erano artigiani in certo modo ai margini del sistema sociale, quasi che il nero della loro pelle, causato dal fumo e dalle polveri carboniche, li rendesse simili a creature della notte, e le loro società o corporazioni fossero viste quasi come delle sette segrete. Non a caso il noto movimento politico, chiamato Carboneria, trasse dalle società carbonare ispirazione per il nome e per alcune modalità di organizzazione.
Il sistematico taglio dei boschi, sia per ottenere legna da costruzione (per falegnameria come per la carpenteria), sia per produrre carbone per usi domestici, se contribuì alla nascita di alcune forme essenziali e insostituibili di artigianato, ebbe conseguenze gravissime di cui paghiamo forse ancora oggi le conseguenze. Il “grano scaccia il bosco” – per parafrasare una nota concettualizzazione di Orazio Cancila – ha significato la scomparsa di veri polmoni verdi, ma anche di riserve di energia a costo zero per le famiglie.
Sino alla fine del “feudalesimo” (che si suole fissare alla data del 1812, ma il processo era iniziato qualche tempo prima con le consistenti quotizzazioni dei feudi) i popoli esercitavano sui boschi gli iura communia, tra cui si distingueva lo ius lignandi, il diritto di rifornirsi di legna per la cucina e per altri usi agricoli o artigianali: questo accadeva quando “la terra era di tutti”. Soppressi gli iura communia, avidi imprenditori, i rapaci burgisi, misero le mani sulle terre comuni e di conseguenza sui boschi. Così le foreste e i boschi furono sempre più sottoposti al taglio sistematico, per farne carbone soprattutto, ma anche per la carpenteria, per la costruzione di navi, di macchine da guerra, o come legna per alimentare fornaci o caldaie per gli zuccherifici (i mulini da zucchero), di cui la Sicilia aveva il primato. Fu allora che le Università e poi i Comuni dettarono norme severe per la conservazione dei boschi sia demaniali che privati, regolamentandone il taglio, attenti non solo alle quantità ma anche alla stagionalità del taglio: si poteva tagliare solo in certi periodi e in quantità stabilite, secondo norme antichissime (le trasgressioni erano però all’ordine del giorno).
Ogni bosco era da sempre considerato la riserva energetica delle popolazioni. Per questo si rendeva necessario controllare l’attività di taglio e il disboscamento che era praticato nei boschi privati. Nel bosco si raccoglieva la legna secca per farne brace, mentre per fare carbone occorreva tagliare in modo razionale e sistematico gli alberi, secondo modalità e criteri suggeriti dalle scienze botaniche, tra cui il principale era il diradamento boschivo. Il carbone di legna era richiestissimo per ogni attività umana che comportava l’uso del fuoco, non ultima (o forse la prima) era quello domestico di riscaldare le case e cucinare il cibo. Ovunque c’era legna in abbondanza, sui Nebrodi, come sulle Madonie (per limitarci alla Sicilia), sugli Iblei come sugli Erei, ma anche in pianura e fino alle rive del mare, nascevano imprese piccole e medie a conduzione familiare o imprenditoriale addette alla produzione di carbone.
Esperti su tutti erano, negli Iblei (il massiccio montuoso esteso tra le province di Siracusa e Ragusa), i carbonai di Cassaro in grado di ricavare ottimo carbone richiestissimo in tutti i paesi. A Cassaro il carbone era prodotto nei boschi comunali. Il Comune concedeva ai carbonai il permesso di tagliare e carbonizzare il legno sia secco che verde del bosco in cambio di un censo annuale.
Il segreto era la materia prima cioè la legna, ma soprattutto la modalità di governo del fuoco nella carbonaia. Il fussuni, come si chiamava la carbonaia, aveva forma circolare e assumeva le sembianze di un capanno di pastori (u pagghiaru). La stagione adatta alla formazione delle carbonaie era il periodo in cui il legno “è morto”, cioè da novembre a febbraio, periodo in cui fra l’altro c’era meno probabilità di incendi. Spesso tuttavia esse erano attive fino ai primi di maggio, sempre sfruttando la legna raccolta nei mesi invernali. Si raccoglieva anche il legno dei rami morti sull’albero, che prendevano il nome di palummari. Era fatto divieto assoluto di raccogliere anche questo siccumi, anche se appunto vicino a cadere. Il regime del legno nel feudo era rigidissimo e si arrivava a forme di vessazione contro chiunque se ne appropriasse senza autorizzazione. Nei boschi privati erano i campieri, armati di fucile, che si occupavano della custodia con poteri quasi assoluti sui contravventori sorpresi con qualche ramo secco.
Un tempo si usava esclusivamente l’accetta (a ccetta) per tagliare, fin quando non fu introdotta la motosega. L’altro strumento usato era la rrunca (roncola). Importante era poi la mazza (mazzuolu) con cui si governava il fussuni, praticando con esso nuovi fori all’occorrenza per sfiatare la carbonaia. Il carbone migliore era chiamato u forti, in quanto ricavato da alberi quali le querce, l’olivastro, l’ilice, e simili; mentre u duci era ottenuto da legni più deboli quali quelli di sottobosco. Era fatto assoluto divieto di usare legno di sughero, riservato per la decortica della scorza. Si otteneva così crauni, craunieddu, mentre particolarmente ricercato dalle “massaie” era il ginisi, a granelli sottili, adatto per il braciere (la conca), ottenuto dalla combustione di scorze di mandorle secche.
Ottenute le opportune autorizzazioni private e comunali, scelto il luogo, una radura in mezzo o ai margini del bosco, si preparava il focolare di alimentazione, disponendo delle pietre a cerchio, attorno a cui si sistemava la legna a catasta verticale, sistemando i tronchi con inclinatura al centro. Su questa catasta si costruiva il resto, lasciando al centro il fornello di alimentazione (a fucunata) con una finestrella che fungeva da porta di alimentazione e presa d’aria. Questa catasta si chiudeva con la braccami, cioè rami di grossezza variante fino ad un massimo di circa 10 cm di diametro. Quest’ultimo strato si ricopriva di fogliame e terriccio di sottobosco, curando di lasciare qua e là delle prese d’aria, soprattutto nel culmo della stessa.
Si dava fuoco alla catasta e si governava il fuoco, stando attenti che la fiamma non divorasse rapidamente il tutto, tenendolo cioè sempre accupatu, costante e inesorabile. La carbonaia ardeva (ma senza fiamma) a volte fino a una settimana, a seconda dello spessore della legna. Il segnale che la carbonaia era quasi pronta era dato dal fumo che fuoriusciva, che cominciava a diventare di un colore tendente all’azzolu (azzurro). A questo punto bisognava bloccare la combustione: il carbonaio (U fussunaru) introduceva dalla bocca (o testa) una certa quantità d’acqua per spegnere il focolare, quindi vi gettava del terriccio nuovo per soffocarlo definitivamente. Un bravo carbonaio, con la sua squadra, riusciva a governare contemporaneamente più di dieci e fino a trenta fussuni. La fatica era tanta e l’attenzione massima, al fine di evitare lo spegnimento, ma anche i furti notturni.
Il carbone oggi ci arriva dai Paesi dell’est e i nostri fussunari hanno spento i loro focolari: restano ultimi residui carbonai, come il signor Paolo Zirone, di anni 77, che ancora oggi produce carbone, utilizzando la legna del bosco di Baulì [1]: legno di quercia e ilici, come in passato. I suoi fussuni, che ho potuto osservare tra il 2015 e il 2019 (la pandemia lo ha indotto a lasciare perdere) vengono accesi in una cava, detta Purbella, poiché gli è stata vietata l’accensione ai margini del bosco. Essi sono di dimensione più piccola, per motivi di sicurezza (non superano i due metri). Si accendono a partire dal mese di ottobre. Il carbone prodotto nel bosco di Baulì era di tipo “forte”, cioè di durata maggiore in quanto derivava dalla carbonizzazione di legni forti come la quercia e l’ilice. Questo carbone, un tempo, arrivava sino a Malta e a Palermo. La legge forestale borbonica era attenta in estremo grado ai disboscamenti operati dai carbonai su concessione dei proprietari o dei comuni. Tra i più esperti carbonai fussunara oltre ai Cassaresi, erano i Canicattinesi, i Sampalisi (Solarinesi) e, dobbiamo ricordare i Modicani, che nel passato erano veri maestri in quest’arte [2].
Il documento più antico che parla del carbone di Baulì è del 1562: in esso il mastro carbonaio Benedetto Di Domenico di Palazzolo si obbliga al sacerdote don Sebastiano Oddo (probabilmente l’amministratore) a «facere ei carbonem in nemore nuncupatu di Baulì in la cava di lu dittu boscu arringu» da consegnare nel bosco al prezzo di tarì tre a salma, e questo dal mese di ottobre al mese di aprile, con l’obbligo per il carbonaio di guardare lu fussuni giorno e notte.
Ma leggiamo uno di questi contratti (obbligazioni) di fornitura del prezioso materiale e le modalità di vendita:
«Palazzolo 17 gennaio 1774: Rosario Arezzi e Simone Agosta di Modica qui oggi a Palazzolo si obbligano al dr. Michele Iudica a nome del marchese di Dainammare don Bernardo M. Trigona e Deodato con numero dieci uomini prattici, escluso detto d’Arezzi, dalli 16 febbraio prossimo e per tutto il 20 maggio prossimo 1774, carbonare tutti quegli alberi designandi dal detto di Iudica nel bosco fondo di Baulì, cioè sotto sopra per tutti li radici di detti alberi magistrevolmente secondo ricerca l’arte» [3].
Come detto il bosco di Baulì era con i suoi circa 150 ettari di Frattina (bosco fitto) una riserva di legna per le comunità vicine, che ottenevano dal suo feudatario (la famiglia Iudica di Palazzolo) il permesso di legnare e nfussunari: nel documento che segue sono ben dieci le carbonaie che si chiede di allestire nel bosco:
«Palazzolo 15 settembre 1785: Sebastiano Cultrera della terra di Bagni a nome anche dei fratelli Noto anche essi di Bagni dichiarano di ricevere dallo spettabile barone don Michele Iudica la somma di onze 5 e tarì 4 in pecunia a saldo per «aver fatigato tutti e tre giorni ventuno per ognuno e ciò per bruciare n° dieci fossi di carbone nel bosco di Baulì quali fossi fecero la quantità di 77 salme [23 tonnellate circa] della misura della terra di Bagni, le quali fosse di carbone furono servite e lasciate da Antonino Lo Nigro, Giorgio Cappello, Antonino Sortino e Giacomo Cappello tutti della terra di modica ed essi sudetti Cultrera e fratello Noto bruciaro su ordine del spett.le capitano della detta città di Modica come dallo medesimo Cultrera s’asserisce» [4].
Come detto, ormai il carbone da legna, usato esclusivamente per i “barbecue a carbonella”, per le grigliate all’aria aperta nei giorni di festa, proviene dai Paesi dell’Est. La qualità non è minimamente paragonabile al carbone “di tradizione”, come da me sperimentato: cambia anche l’odore che sprigiona l’uno o l’altro carbone, la forza della fiamma e la durata della combustione. Intervistato da me uno dei migliori arrustiemangia catanesi di via Plebiscito (la ricerca verteva sulle tecniche di cottura delle carni come delle verdure con tecnologie tradizionali) si lamentava perché non trovava più u carbuni da Muntagna (il carbone dell’Etna): già l’Etna la fucina di Efesto, il regno del fuoco, la dimora di re Artù, e le mille creature nerofumo, che trasportavano a valle nei sacchi caricati su emaciati muli (chiamati barduini) il carbone etneo, che sembrava uscito dalle stesse viscere del vulcano, che andava famoso e si vendeva a prezzi più alti.
Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
Note
[1] Oggi in territorio di Noto, ma distante pochi chilometri da Palazzolo. Fu feudo della più importante famiglia palazzolese: gli Iudica. Nel Medioevo era bosco reale.
[2] A Palazzolo gli ultimi carbonai sono stati i signori Liistro Paolo e Giuseppe Tomasi, e i componenti della famiglia Tanasi, chiamati per ingiuria craunari.
[3] «Pro mercede ad ragione tarì 4 e grani dieci singula salma di detto carbone da misurarsi fossa per fossa, consignando al detto Iudica in detto bosco di Baulì col tummino chi ha stato consignato al detto di Iudica [...]. Da pagare alla ragione di tarì tre in prezzo di mondelli due di frumento e tarì uno di denaro, e così continuare a pagare di settimana in settimana. Sotto il seguente patto che il detto Arezzi deve servire il detto Iudica per derettore e soprastante sopra dieci uomini ed anche in far la vendita di carbone al prezzo ki designerà Iudica, con dover andare per la vendita in più paesi che li designerà detto Iudica durante il tempo». Per questo lavoro Iudica pagherà in più «tarì due in denaro e quartuccio uno di vino qui in Palazzolo per ogni giorno anche pelli giorni di festa che detto Iudica farà andare in viaggio al detto d’Arezzi di patto. Quae omnia», Archivio di Stato di Siracusa, agli atti del notaio defunto Bonaiuto Giambattista, vol. 9456.
[4] Archivio di Stato di Siracusa, agli atti del notaio defunto Pirri Paolo, bastardello 4275.
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate di recente ha pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa (2019); Taula Matri. La cucina nelle terre di Verga (2020); Processo a Cassandra (2021).
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