di Elio Rindone
Che due fogli di carta, delle stesse dimensioni e prodotti dalla stessa fabbrica con lo stesso materiale, appaiano uguali, è un fatto. Se c’è qualche differenza, è assolutamente irrilevante e nessuno esiterebbe a considerarli uguali. Al contrario, che ci siano due esseri umani eguali nessuno lo affermerebbe: le differenze sono innumerevoli e fin troppo evidenti. Uomo donna, alto basso, grasso magro, bello brutto, forte debole, omosessuale eterosessuale, vecchio giovane, sano malato, colto ignorante, intelligente deficiente, simpatico antipatico, furbo ingenuo, ricco povero, onesto disonesto, sfaticato laborioso…
Allora, come è possibile che riscuota un certo consenso l’idea che tutti gli uomini siano uguali, e che addirittura si siano affermate teorie egualitarie, che mirano a creare società che non tengono conto di quelle innegabili differenze? I sostenitori dell’eguaglianza davvero ignorano così evidenti differenze? E vorrebbero annullarle totalmente, in una società in cui tutti siano uguali da tutti i punti di vista?
Certamente no! Se nessuna persona ragionevole può ignorare le differenze esistenti tra gli esseri umani, bisogna concludere che le teorie egualitarie non propongono un egualitarismo assoluto. Chiedono soltanto che quelle differenze non siano usate per negare ciò che ci accomuna: l’appartenenza alla stessa natura umana. Tutti, buoni o cattivi, siamo pur sempre esseri umani, e non cani o gatti, tigri o leoni. Il problema è, allora, stabilire quanto debba pesare la comunanza di natura e quanto debbano pesare le differenze.
La comune appartenenza al genere umano
I sostenitori dell’uguaglianza, pur consapevoli delle differenze, ritengono dunque che la comunanza di natura implichi l’attribuzione di un certo status, di un certo numero di diritti a tutti gli esseri umani. Un uomo può comprare un cane e divenirne padrone: ma può anche comprare un uomo e farne un suo schiavo? Per secoli la schiavitù non è stata considerata contraria all’appartenenza allo stesso genere umano: oggi essa appare inaccettabile. Cosa significa ciò? Che non è facile riconoscere quali diritti siano propri di tutti gli esseri umani, e che ci possono essere mille situazioni storiche, culturali, economiche che facilitano oppure ostacolano la presa di coscienza di tali diritti.
Parimenti, quando si è cominciato ad accordare ai cittadini la facoltà di scegliere i propri governanti, il diritto di voto non è stato riconosciuto a tutti: erano esclusi i non possidenti e le donne. La condizione di proprietario appartenente al genere maschile costituiva una differenza sufficiente per negare il diritto di voto a chi, pur possedendo la stessa natura umana, era privo di quei requisiti. Oggi, il diritto di voto e quello di non essere ridotti in schiavitù sono invece considerati diritti appartenenti a tutti gli esseri umani, per il fatto che si riconosce loro la dignità di soggetti morali, capaci perciò di autodeterminarsi. E la negazione di tali diritti apparirebbe ai più una palese ingiustizia.
Ecco una questione, quella della giustizia, che entra necessariamente in gioco quando si parla di uguaglianza, come fa notare Norberto Bobbio, l’autore che è il punto di riferimento di questo scritto: «il concetto e anche il valore dell’eguaglianza mal si distinguono dal concetto e dal valore della giustizia» (voce Eguaglianza nella Enciclopedia del Novecento, Treccani 1977). Perché il concetto di eguaglianza richiama quello di giustizia? Perché trattare gli uguali in maniera disuguale è subito avvertito come una forzatura della realtà. L’ingiustizia introduce nella società un disordine che ne compromette l’armonia, garantita invece dalla giustizia: questa «ha in qualche modo a che vedere con un ordine da istituire o da restituire (una volta turbato), con un ideale di armonia delle parti di un tutto, perché, tra l’altro, solo un tutto ordinato ha la possibilità di sussistere in quanto tale».
Infatti, prosegue Bobbio:
«Sin dalle più antiche rappresentazioni della giustizia, questa è sempre stata raffigurata come la virtù o il principio che presiede all’ordinamento in un tutto armonico o equilibrato tanto delle società umane quanto del cosmo (l’ordine del cosmo, del resto, è concepito […] come una proiezione dell’ordine sociale): ora, affinché regni l’armonia nell’universo o nella civitas sono necessarie due cose, che ognuna delle parti abbia assegnato il proprio posto secondo ciò che le spetta, il che è l’applicazione del principio suum cuique tribuere […] e che, una volta che a ogni parte è stato assegnato il proprio posto, l’equilibrio raggiunto sia mantenuto da norme universalmente rispettate».
Un professore severo, per esempio, può essere accettato e stimato dai suoi studenti solo se dà a ciascuno il voto che merita; se promuovesse anche una sola volta un alunno ignorante ma raccomandato, questa palese ingiustizia provocherebbe la reazione indignata della classe. In effetti, verrebbero meno, con il mancato rispetto delle regole, la fiducia e la stima indispensabili per mantenere l’ordine e l’armonia del gruppo. E ciò vale persino per una banda di ladri: per mantenere la coesione ed evitare la lotta tra i suoi membri, è necessario che il bottino sia spartito tra di loro in modo che ciascuno abbia ciò che gli spetta.
In una scuola, è ovvio, i criteri sono facili da stabilire: uguali livelli di preparazione, voti uguali. In uno Stato, invece, la situazione è molto più complessa, e non è facile né delimitare i campi in cui è ragionevole un uguale godimento dei diritti, come abbiamo visto nel caso della schiavitù o del suffragio universale, né stabilire quali delle differenze esistenti tra i cittadini debbano pesare e in che misura. Così, un ordine che per secoli sembra giusto, a un certo punto può apparire ingiusto e non più accettabile. Certe diseguaglianze vengono abolite, magari ricorrendo alla violenza contro chi sta in alto e ovviamente tende a mantenere lo statu quo, come nel caso della rivoluzione francese: il Terzo Stato, la borghesia, non tollera più i privilegi di nobiltà e clero.
Nel 1789 viene così approvata la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, che afferma: «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune» e subito dopo precisa: «Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione».
Ma non è facile riconoscere gli stessi diritti appena conquistati a chi sta in basso: infatti, per esempio, la schiavitù nelle colonie francesi sarà abolita nel 1794, ripristinata da Napoleone nel 1802 e abolita definitivamente nel 1848. Così, per quanto riguarda il suffragio femminile, la battaglia sarà ancora lunga e, salvo eccezioni, bisognerà attendere il ’900. La Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata nel 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, stabilisce infatti tra l’altro che «Chiunque ha il diritto di prendere parte al governo del proprio Paese, direttamente o attraverso rappresentanti liberamente scelti».
I progressi della coscienza morale portano dunque a rifiutare diseguaglianze considerate naturali per secoli. Ma le conquiste morali hanno effetti sulla realtà solo grazie alla lotta di chi soffre le conseguenze dell’ingiustizia. Agli inizi della rivoluzione industriale, per esempio, si riusciva ad imporre come equo il salario di un operaio se esso era sufficiente per mantenerlo in vita e consentirgli di generare la prole che poteva sostituirlo nel lavoro. Solo grazie alle lotte operaie questo criterio è stato rigettato, e ora la nostra Costituzione (ci occupiamo qui dell’Europa, con particolare attenzione all’Italia), all’art. 36 stabilisce che «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». L’obiettivo non è, quindi, l’uguaglianza assoluta, perché bisogna tener conto della quantità e della qualità del lavoro svolto, il che giustifica retribuzioni diversificate. Ma, fatte salve queste differenze, si riconosce l’appartenenza di tutti i lavoratori al genere umano, e perciò è considerato giusto il salario che garantisce non la mera sopravvivenza ma una vita umana dignitosa, anche se non è facile tradurre tutto ciò nei fatti.
Quando una società è giusta?
Se la comune appartenenza al genere umano è l’elemento da porre a fondamento di una società giusta, occorre allora rimuovere, per quanto possibile, quelle differenze che dipendono da circostanze negative di cui gli individui non sono responsabili. Per favorire la piena realizzazione umana di tutti, bisogna quindi organizzare, per esempio, un sistema scolastico che offra a tutti la possibilità di istruirsi o un sistema sanitario che garantisca a tutti la cura delle malattie. E bisogna preoccuparsi, in particolare, di chi incontra particolari difficoltà nello sviluppo delle sue doti umane a causa di gravi carenze economiche. Per l’art. 3 della Costituzione, infatti, «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
A causa dell’opposizione dei ceti privilegiati, occorrono spesso secoli perché certi cambiamenti si realizzino, ma bisogna riconoscere che in molti Paesi si è passati da società più disuguali a società meno disuguali. Gradualmente si è affermato, infatti, il principio che la legge è uguale per tutti, che tutti i cittadini devono godere di diritti fondamentali quali la libertà di pensiero e di parola, e che è compito dello Stato garantire a tutti le stesse opportunità, con la conseguenza, scrive Bobbio, che «allo scopo di mettere individui diseguali per nascita nelle stesse condizioni di partenza, può essere necessario favorire i più disagiati».
Eppure, se è innegabile che notevoli passi avanti sono stati fatti, è ugualmente innegabile che sussistono ancora enormi diseguaglianze, tanto che in certi casi, e negli stessi Paesi europei che si vantano di essere all’avanguardia nel campo dei diritti, la realtà è infinitamente distante dall’uguaglianza proclamata a parole. Per quanto riguarda i diritti umani, il trattamento riservato, per esempio, ai migranti – respinti in mare o trattenuti in Turchia o rinchiusi in Libia in campi di detenzione che, come attesta Amnesty International, sono veri e propri luoghi di tortura – è compatibile con la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, entrata in vigore nel 2003?
E la schiavitù, abrogata in teoria, è davvero estranea alle condizioni di vita imposte di fatto a tanti lavoratori, soprattutto stranieri, che lavorano in condizioni inumane per paghe da fame?
E in campo economico?
Pur senza sottovalutare l’importanza degli obiettivi raggiunti, dai sostenitori dell’eguaglianza, in campo giuridico, per cui tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, e in campo sociale, per cui lo Stato deve garantire la parità dei punti di partenza, la nostra società resta fortemente diseguale, specialmente in campo economico. Anche escludendo l’eguaglianza assoluta, conseguente all’abolizione della proprietà privata, non si può negare infatti che l’eccessiva diseguaglianza sul piano economico nega a miliardi di esseri umani nel mondo una vita sia pur minimamente dignitosa.
Bobbio ricorda che certi principi sono enunciati da tempo:
«Tutti gli uomini sono (o nascono) eguali. Questa massima corre e ricorre entro l’ampio arco di tutto il pensiero politico occidentale, dagli stoici al cristianesimo primitivo, per rinascere con nuovo vigore durante la Riforma, assumere forma filosofica in Rousseau e nei socialisti utopisti, ed essere espressa in forma di vera e propria regola giuridica nelle dichiarazioni dei diritti dalla fine del Settecento a oggi».
Ma queste sono solo belle parole, affermazioni teoriche che non incidono sulla realtà se l’uguaglianza proclamata non si riempie poi di contenuti concreti, e lascia fuori, in particolare, la dimensione economica. Per quanto riguarda l’Italia, per esempio, nel 2021, secondo i dati forniti dall’ISTAT, più di cinque milioni di persone, e cioè il 9,4% della popolazione, è in condizione di povertà assoluta.
Sono purtroppo ancora attuali le critiche che rivolgeva ai protagonisti della rivoluzione francese Sylvain Maréchal, collaboratore di Gracco Babeuf e autore del Manifesto degli uguali (1796): «Da tempo immemorabile ci si ripete ipocritamente, gli uomini sono eguali; e da tempo immemorabile l’ineguaglianza più avvilente e più mostruosa pesa insolentemente sul genere umano. […] Noi dichiariamo di non poter più sopportare che la stragrande maggioranza degli uomini lavori e sudi al servizio e per il piacere dell’estrema minoranza. Da troppo tempo meno di un milione di individui dispone di ciò che appartiene a più di venti milioni di loro simili, di loro eguali».
Parole attuali più che mai oggi, perché le sperequazioni economiche si sono accresciute negli ultimi decenni al punto che la ricchezza ha finito col concentrarsi nelle mani dell’un per cento della popolazione mondiale. Come osserva Luigi Ferrajoli, «a dispetto dell’uguaglianza nei diritti proclamata in tante carte costituzionali e in tanti patti internazionali, le disuguaglianze nelle concrete condizioni di vita hanno raggiunto in questi anni dimensioni che non hanno precedenti nella storia. […] La mobilità sociale non si è bloccata, ma ha cambiato direzione: non più dal basso verso l’alto, ma dal basso verso condizioni di reddito e di vita ancora più basse» (I crimini di sistema e il futuro dell’ordine internazionale, in Teoria politica. Nuova serie, Annali IX, 2019: 403). In effetti, è in aumento non solo il numero dei poveri e dei disoccupati ma anche quello di coloro che, a causa della riduzione dei salari, lavorano e tuttavia restano sotto la soglia di povertà. Eppure, se si volesse, non sarebbe difficile eliminare la povertà nel mondo: basterebbe utilizzare, prosegue Ferrajoli, l’1% del prodotto globale, e «precisamente l’1,13% del Pil mondiale, circa 500 miliardi di dollari l’anno, molto meno del bilancio annuale della difesa dei soli Stati Uniti» (ivi: 411).
Oligarchie più che democrazie?
E questa scandalosa disparità economica minaccia la stessa uguaglianza politica, perché quelli che oggi sono chiamati ‘poteri forti’ sono in grado di influenzare le scelte degli elettori. In effetti, quelle che chiamiamo democrazie spesso non sono che regimi in cui minoranze organizzate competono tra loro per la conquista del potere sicché, con buona pace del suffragio universale e della sovranità popolare, agli elettori resta un solo diritto: quello di scegliere, mediante un voto condizionato dalla ricchezza e dalla propaganda delle élites, da quale gruppo di potere saranno governati.
Ovviamente i cittadini in balia dei talk show non si rendono conto della realtà, evidenziata da studiosi come Luciano Canfora: «il capitalismo […] ha coinvolto nella sua macchina manipolatrice delle coscienze anche le parole eversive per eccellenza […]. Di fatto è un sistema oligarchico: ma vive e gode ottima salute perché è riuscito a snaturare e fare suo il meccanismo democratico» (Critica della retorica democratica, Bari 2011: 97-98).
Le decisioni che contano, quelle economiche, sono prese in effetti dai grandi potentati finanziari di cui i governi nazionali sono solo semplici esecutori. Lo riconosce senza ambiguità Gustavo Zagrebelsky: gli Stati nazionali «sono rimasti, ma hanno perso peso e autonomia nella gestione dei fattori economici che condizionano la vita sociale. Allora, in sostanza, questi Stati sono mantenuti in piedi a quale scopo? Per eseguire e garantire equilibri che li sovrastano» (Canfora-Zagrebelsky, La maschera democratica dell’oligarchia. Un dialogo a cura di Geminello Preterossi, Bari 2014: 54). Che le votazioni siano diventate quasi “un passatempo” è dimostrato dal fatto che «le nostre oligarchie non si preoccupano [se non per la carriera dei singoli candidati] del risultato elettorale, perché tanto le politiche che ne deriveranno non potranno che essere le stesse» (ivi: 91). Le differenze tra i partiti che si presentano alle elezioni, infatti, sono spesso più apparenti che reali, sicché, prosegue Zagrebelsky, «lo stesso passaggio elettorale […] è semplicemente una distribuzione di pesi, ma all’interno del medesimo gioco», gioco che alla lunga finisce col provocare un «senso di frustrazione […] che causa la diminuzione della partecipazione politica, a incominciare da quella elettorale, la quale, a sua volta, porta al rafforzamento della chiusura del sistema di potere e quindi al distacco dei cittadini dalle istituzioni» (ivi: 38).
È ormai assodato che dopo la caduta dell’Urss – che offrendo, pur con i suoi aspetti negativi, un sistema alternativo a quello capitalistico, aveva indotto i Paesi occidentali a promuovere lo ‘Stato sociale’ – è in atto il tentativo di tornare a modelli di Stato che sembravano superati. Come osserva Salvatore Veca, «Il vertiginoso aumento delle disuguaglianze di condizioni economiche e di status sociale ha generato una sorta di ancien régime postmoderno»; tentativo che si può e si deve contrastare, come suggeriva John Rawls, che Veca cita definendolo «il più grande teorico della giustizia sociale» del 900: «le società aristocratiche o castali sono ingiuste […]. La struttura fondamentale di queste società incorpora l’arbitrarietà che troviamo in natura. Ma non è necessario che gli esseri umani si rassegnino a subire questi fatti contingenti. Il sistema sociale non è un ordinamento immutabile al di là del controllo umano» (S. Veca, Sulla disuguaglianza, in Iride, Filosofia e discussione pubblica, 1, 2016).
Che non si ritorni a «una sorta di ancien régime postmoderno» dipende dunque dai cittadini, dalla loro consapevolezza che l’uguaglianza è, come ribadisce Gustavo Zagrebelsky, il valore politico più importante:
«Perché il più importante? Perché dall’uguaglianza dipendono tutti gli altri. Anzi, dipende il rovesciamento nel loro contrario. Senza uguaglianza, la libertà vale come garanzia di prepotenza dei forti, cioè come oppressione dei deboli. Senza uguaglianza, la società, dividendosi in strati, diventa gerarchia. Senza uguaglianza, i diritti cambiano natura: per coloro che stanno in alto, diventano privilegi e, per quelli che stanno in basso, concessioni o carità. […] Senza uguaglianza, le istituzioni, da luoghi di protezione e integrazione, diventano strumenti di oppressione e divisione» (Senza uguaglianza la democrazia è un regime, in La Repubblica 26/11/2008).
In conclusione, sembra che l’ideale dell’uguaglianza sia più facile affermarlo in teoria che realizzarlo in pratica, e ciò perché, per quanto possano essere approvate nobili Dichiarazioni dei diritti umani, le relazioni sociali spesso si basano più sui rapporti di forza che sui principi morali. In realtà, come notava Aristotele, la maggior parte degli uomini, più che lasciarsi guidare dalla ragione e dalle virtù della giustizia e della temperanza, si abbandona a passioni che non sa controllare. In genere, essi non si accontentano di ciò che spetta loro, ma vogliono sempre di più: «senza limite, infatti, è la natura del desiderio per il cui soddisfacimento i più vivono» (Politica II 8). Di conseguenza, «gli appartenenti alle classi superiori» rifiutano l’uguaglianza, perché «convinti di meritare qualcosa di diverso dagli altri», mentre i membri delle classi inferiori aspirano all’uguaglianza perché «pensano di avere di meno [di ciò che meritano], ritenendosi eguali a quelli che hanno di più» (Politica V 2). Ma, una volta raggiunta l’uguaglianza, anche loro vorranno essere, per riprendere l’espressione della La fattoria degli animali di George Orwell, ‘più uguali degli altri’. Si comprende, quindi, perché la storia attesti quanto sia stato e sia difficile costruire società fondate sulla giustizia, che come abbiamo visto è strettamente legata all’eguaglianza.
Il riconoscimento teorico, fondato sul dato oggettivo dell’appartenenza alla stessa specie, non è però privo d’importanza perché, a chi è consapevole della dignità propria di ogni essere umano, offre solidi argomenti per battersi per una società più giusta, contrastando i tentativi, sempre in atto e spesso coronati da successo, del potere politico ed economico di assicurare il predominio dei più forti.
Pare, dunque, che si possa essere d’accordo con Bobbio quando afferma che «Dal pensiero utopico al pensiero rivoluzionario l’egualitarismo ha percorso un lungo tratto di strada: eppure la distanza tra l’aspirazione e la realtà è ancora tanto grande che, guardandosi attorno e indietro, qualsiasi persona ragionevole deve seriamente dubitare se mai possa essere interamente colmata».
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
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Elio Rindone, docente di storia e filosofia in un liceo classico di Roma, oggi in pensione, ha coltivato anche gli studi teologici, conseguendo il baccellierato in teologia presso la Pontificia Università Lateranense. Per tre anni ha condotto un lavoro di ricerca sul pensiero antico e medievale in Olanda presso l’Università Cattolica di Nijmegen. Da venticinque anni organizza una “Settimana di filosofia per… non filosofi”. Ha diverse pubblicazioni, l’ultima delle quali è il volume collettaneo Democrazia. Analisi storico-filosofica di un modello politico controverso (2016). È autore di diversi articoli e contributi su “Aquinas”, “Rivista internazionale di filosofia”, “Critica liberale”, “Il Tetto”, “Libero pensiero”.
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