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Globalizzazione del pluralismo religioso nel contesto europeo

copertina1di Luca Di Sciullo, Franco Pittau, Nadia Elena Vacaru

In questo contributo si riferisce sul pluralismo religioso così come si presenta in Italia e nell’Unione Europea La documentazione al riguardo è stata desunta dalla raccolta dei Dossier Statistico Immigrazione dal 2000 al 2017. Questo annuario socio-statistico, curato dal Centro studi e ricerche Idos di Roma, si caratterizza per una impostazione che parte dai dati al fine di privilegiare una informazione dal taglio più oggettivo. Il periodo preso in considerazione si apre con il grande Giubileo dell’anno 2000, che porta la Chiesa ad accentuare il carattere ecumenico, a chiedere perdono per i suoi errori del passato e aprirsi a nuovi orizzonti di convivenza.

L’inizio del secolo è anche un periodo significativo per il processo di integrazione europea. L’UE, infatti,  ha deciso di accettare come nuovi Stati membri i Paesi dell’Est Europa, a partire dalla Polonia nel 2004, per continuare con la Romania e la Bulgaria nel 2007 e infine con gli altri Paesi, arrivando da ultimo (2013) a 28 Stati membri con la Croazia.

Il 2000 è anche l’anno in cui viene approvata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta di Nizza), che incorporata nel diritto dell’Unione a seguito del Trattato di Lisbona nel 2007, ha lo stesso valore dei Trattati e definisce i diritti e le libertà di cui godono tutti i cittadini dell’Unione. Nello stesso anno viene definito il testo di una vera e propria Costituzione europea, progetto cui si rinuncerà nel 2007 per la sua mancata ratifica da parte della Francia e dei Paesi Bassi, mentre nella fase precedente della sua redazione si decide di non citare le radici cristiane del Continente.

Queste promesse, in parte  ottimistiche, vengono bruscamente sconvolte dagli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, perpetrati dall’organizzazione Al Qaeda che fa capo a Bin Laden ed è ispirata all’estremismo islamista, che considera il Cristianesimo e il mondo occidentale irriducibilmente in contrasto con l’Islam (atteggiamento mantenuto dall’organizzazione Isis dopo la morte di Bin Laden).

Lo sviluppo di questi eventi segna in Europa il passaggio da una diffusa diffidenza nei confronti dei musulmani a una vera e proprio islamofobia, che rende più difficile la convivenza con i fedeli di questa religione residenti in Europa, tra i quali è nettamente prevalente la rappresentanza di chi vuole vivere in pace nelle nuove società di accoglienza.

Nel periodo preso in considerazione risulta aumentata la presenza immigrata in Europa, passata da meno di 20 milioni a più di 32,5 milioni di cittadini stranieri (50 milioni se il riferimento viene fatto alle persone residenti in uno Stato membro dell’Unione di cui non possiedono la cittadinanza). La loro presenza ha incrementato anche il pluralismo religioso, mentre in precedenza nell’area la tradizione cristiana era stata pressoché esclusiva. Sarebbe fuorviante, da una parte, ridurre il dialogo antireligioso ai soli rapporti con i musulmani, anche se essi sono più numerosi rispetto ai fedeli alle altre comunità religiose, ma è anche vero d’altra parte, che si riscontrano maggiori difficoltà quanto al loro inserimento nelle società occidentali.

Le riflessioni che seguono affrontano il rapporto tra le migrazioni attuali e il fenomeno della religiosità mostrando che non si è verificata la preannunciata  “morte di Dio” e che, al contrario, è aumentata la religiosità sotto l’impatto degli immigrati. Ma non sono mancati una serie di gravi problemi, alimentati soprattutto dagli atti terroristici di matrice islamica. Se l’orientamento delle istituzioni europee, quanto meno sul piano dei diritti formali, può considerarsi equilibrato, lo stesso non si può dire sul piano pratico e sono crescenti le contrapposizioni agli immigrati e alla loro differenza religiosa. Tuttavia,come si sottolinea nelle conclusioni, sono praticamente percorribili le vie dell’apertura e del dialogo da parte dei  cristiani e delle altre confessioni religiose, ciò sarà un gran bene perché le religioni e i luoghi di culto possono fortemente incentivare l’integrazione e la pacifica  convivenza.

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Muslim Arabic man prayingNel terzo millennio Dio non è affatto morto

All’inizio degli anni ’90 Gilles Kepel aveva suggerito che le tre grandi religioni monoteiste, già in espansione, si dovevano considerare destinate a incidere sempre più sulla vita sociale e sui rapporti internazionali [1]. Per quanto inizialmente non da tutti ritenuta credibile, questa previsione si è avverata. Infatti, i teorici del fenomeno della secolarizzazione e della laicità nei vari ambiti della società avevano ipotizzato la progressiva decadenza del sentimento religioso. A rendere inefficiente questa profezia hanno contribuito in misura rilevante gli immigrati, rivelatisi portatori di una religiosità più varia e più diffusa.

I dati di supporto, tratti dall’Osservatorio olandese ’EVS (European Values Study) [2], hanno indicato che la gran parte degli europei si considera appartenente ad una determinata religione, mentre  solo una minoranza frequenta abitualmente una chiesa o una comunità (il 53,7% in Italia, il 35,9% in Spagna, il 12% in Francia).

Anche secondo la rivista francese Futuribles dopo la «fase di rottura religiosa, spinta permissiva e radicalizzazione ideologica del periodo 1960-1970» si è di fronte alla una riaffermazione dei valori religiosi. Secondo il curatore di questo numero della rivista, Yves Lambert, pur continuando a diminuire la formale appartenenza religiosa, la religione era destinata a sopravvivere sotto altre forme e con altre declinazioni, rigenerandosi soprattutto tra i giovani e nei Paesi più secolarizzati.

In Italia, secondo un sondaggio condotto da Eurisko [3], gli italiani attribuiscono alla religione uno spazio sempre maggiore, essendo ritenuta “fondamentale” dal 23% della popolazione, mentre il 38% la considera “importante”, seppure finalizzata alla soluzione dei propri problemi: una religione “propiziatoria, secondo il politologo  Ilvo Diamanti, questa è «la fede in un Dio relativo».  Nei vari Paesi europei le espressioni della religiosità non sono più solo di segno cristiano bensì pluralistiche, e ciò avviene anche in Italia, centro del cattolicesimo mondiale. Qui, al milione e mezzo di autoctoni che non sono cattolici, si sono aggiunti 4 milioni di immigrati. parimenti non cattolici e 1 milione di cattolici, provenienti da altri Paesi: nell’insieme si è determinata una incidenza complessiva dei non cattolici pari al 10% dei residenti, e questa diversità che viene resa visibile dalle loro feste religiose: Ramadan, Divali, Veshak, Hanukah, Holi, Maha Shivratri e così via.

Secondo le stime del Centro studi e ricerche Idos, nell’Unione Europea (circa mezzo miliardo di residenti), è stasto  questo lo stato della multireligiosità sotto l’aspetto statistico nel 2015: quelli di tradizione cristiana sono circa i tre quarti del totale (mentre la loro percentuale a livello mondiale scende a poco meno di un terzo); Il 13,5% della popolazione è atea o agnostica; è diventata consistente e si aggira sui 15 milioni la presenza dei musulmani (il loro numero è più alto, fino a raddoppiare, secondo altre stime) e la loro incidenza percentuale è molto più bassa rispetto a quella loro addebitata a livello mondiale; si riscontra la presenza, ma con valori molto più bassi, di ebrei, induisti, buddhisti e fedeli di altre religioni (tutte al di sotto di 1 milione di unità).

Come evolveranno nel futuro le appartenenze religiose in Europa? A tenere conto delle proiezioni dello statunitense  Pew Research Center (PRC) ciò dipenderà da diversi fattori: struttura della popolazione, speranza di vita, tassi di fertilità e mortalità, flussi migratori e tendenza a rinunciare alla a propria identità religiosa  (per abbracciarne un’altra o non seguirne più alcuna) [4]. Questa l’ipotesi più probabile formulata dal PRC per il 2050. Ipotizzato che la popolazione mondiale passi a 9,3 miliardi (+35%, circa 2 miliardi in più), anche i cristiani aumenteranno del 35% (da 2,1 a 2,9 miliardi) e incideranno per il 31% sulla popolazione mondiale. Un aumento simile (+34%) si può prevedere per gli induisti (da 1 miliardo a 1,4 miliardi). Invece i musulmani, grazie a un più consistente tasso d’aumento (+73%), passeranno da 1,6 a 2,7 miliardi e incideranno per il 29% sulla popolazione mondiale, avvicinandosi al sorpasso dei cristiani (previsto per il 2070). Aumenteranno anche gli altri gruppi religiosi, ad esempio gli ebrei (da 14 milioni a 16 milioni), a eccezione dei buddhisti, per i quali è prevista una situazione di stabilità. Diminuiranno invece gli atei e gli agnostici (dal 16% al 13%).

Queste previsioni escludono per l’Unione Europea l’islamizzazione da molti temuta, perché nel Vecchio continente la popolazione musulmana non inciderà oltre il 10% sul totale. Senz’altro l’Europa influirà di meno (10%, con una perdita di 10 punti) sulla presenza cristiana complessiva e la sua incidenza sarà superata da quella dell’Africa, che passerà dal 19% al 29%, dell’America Latina, che si attesterà sul 22% (seppure in diminuzione di 2 punti percentuali) e anche dall’Asia, in aumento dal 17% al 20%.

Ribadito che da qui al 2050 i fattori sui quali è basata la stima del PRC sono soggetti a modifiche, non si possono non sottolineare alcuni aspetti meritevoli di attenzione:

·    il superamento dell’occidentalizzazione del Cristianesimo nelle sue diverse confessioni e la forte crescita delle sue espressioni pentecostali e carismatiche

·   il maggior tasso di crescita dell’islam e l’interrogativo se questo avverrà secondo una forma dialogante in antitesi a quella proposta dalle minoranze estremiste;

·   la riduzione a livello mondiale del numero degli atei e degli agnostici, che però potranno diventare il gruppo prevalente in Paesi tradizionalmente cristiani, come la Francia e l’Olanda;

Neppure nel futuro si potrà dire che “Dio è morto”, il panorama religioso sarà diverso, come affermato da Papa Giovanni Paolo II nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2001: «Sono molte le civiltà che si sono sviluppate e arricchite proprio per gli apporti dati dall’immigrazione. In altri casi, le diversità culturali di autoctoni e immigrati non si sono integrate, ma hanno mostrato la capacità di convivere, attraverso una prassi di rispetto reciproco delle persone e di accettazione o tolleranza dei differenti costumi» [5].

2Aspetti giuridici del pluralismo religioso nell’Unione Europea [6]

La libertà di religione e di culto è un diritto primario e inviolabile, di cui ogni soggetto è titolare per natura, come tale riconosciuto nel 1948 dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo (art. 18) e, successivamente, da numerose convenzioni internazionali e sovranazionali, tra cui la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue (artt. 10 e 11), che  – come ricordato – è stata incorporata nel diritto dell’Unione in virtù del Trattato di Lisbona (art. e , comma 1).

In Europa vige la separazione tra Chiesa e Stato e ormai sono pochi i Paesi in cui persiste una religione di Stato, o ufficiale,, come avviene ad esempio in Danimarca, Finlandia, Grecia, Gran Bretagna. Tale separazione non pregiudica, tuttavia, le forme di collaborazione tra le Chiese e lo Stato. La stessa comunità islamica, anche quando è priva di un riconoscimento ufficiale (come ad esempio avviene in Belgio dal 1974, in Austria dal 1988, in Spagna dal 1992) ha la facoltà di organizzarsi come fondazione o associazione nell’ambito del diritto privato e di godere di quasi tutti i diritti previsti per le confessioni religiose riconosciute, che, specialmente se prevalenti, possono avere un trattamento di favore, come avviene in Italia per l’insegnamento della religione cattolica a scuola, e in Svezia e Danimarca per il finanziamento della Chiesa luterana.

Il Vecchio Continente, anche se continuerà a essere caratterizzato o da una tradizione cristiana di gran lunga prevalente, all’inizio degli anni Duemila non ha ritenuto di menzionare (come prima accennato) le radici cristiane della sua storia quando si è stata elaborata la proposta di una Costituzione Europea. Papa Giovanni Paolo, con l’Esortazione apostolica Ecclesia in Europa (28 giugno 2003), raccogliendo le indicazioni conclusive del Sinodo regionale dei vescovi europei (autunno 1999), avevo chiesto che nel trattato costituzionale «figuri un riferimento al patrimonio religioso e specialmente cristiano dell’Europa» [7]. L’invito non è stato raccolto e il testo presentato al Consiglio Europeo di Salonicco (20 giugno 2003) si è limitato, invece, a un generico riferimento ai «retaggi culturali, religiosi e umanistici» (come risaputo, il progetto di una Costituzione europea non è stato approvato a seguito dei referendum negativi svoltisi in Francia e in Olanda nel 2004).

A parere di Giuliano Amato, membro della Commissione incaricata di redigere la Costituzione europea e poco dopo capo del governo in Italia, questa esclusione deve considerarsi un effetto della posizione francese, che ha insistito per fare unicamente riferimento ai valori della rivoluzione del 1789, tenendo la dimensione religiosa rigorosamente relegata nella sfera privata. Probabilmente si era anche tenuto conto che tra gli Stati candidati ad aderire all’Unione vi era anche un Paese a maggioranza musulmana come la Turchia e che in Europa vivono milioni di cittadini musulmani, tra l’altro in crescita.

Comunque, la richiesta del Pontefice non consisteva in un semplice riconoscimento formale di una innegabile eredità storica. Infatti, nell’Esortazione Ecclesia in Europa si chiede in maniera dettagliata il pieno rispetto della laicità delle istituzioni e, a livello religioso, il riconoscimento di tre elementi complementari: «il diritto delle Chiese e delle comunità religiose di organizzarsi liberamente, in conformità ai propri statuti e alle proprie convinzioni; il rispetto dell’identità specifica delle Confessioni religiose e la previsione di un dialogo strutturato tra l’Unione Europea e le Confessioni medesime; il rispetto dello statuto giuridico di cui le Chiese e le istituzioni religiose già godono in virtù delle legislazioni degli Stati membri dell’Unione». Non manca nel documento l’enfasi sulla necessità di intensificare il dialogo interreligioso (in particolare con l’ebraismo e con l’Islam, ma anche con le altre religioni) per aiutare l’Europa politica e culturale nel suo rapporto con le diverse realtà interne ed esterne.

Viene anche precisato nell’Esortazione che il Papa per la Chiesa Cattolica «non domanda il ritorno a forme di Stato confessionale», ma piuttosto mette in guardia su come lo «smarrimento della memoria e dell’eredità cristiane» sia «accompagnato da una sorta di agnosticismo pratico e di indifferentismo religioso», così che «molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale e come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia». Ad avviso del Papa il Cristianesimo avrebbe dovuto essere valorizzato come un passato religioso che si affianca all’eredità umanistica europea e, quindi, senza comportare un pregiudizio alla laicità delle istituzioni o una contrapposizione rispetto alle altre confessioni e alle rispettive tradizioni, così da rafforzare la base da cui partire per incrementare il dialogo interreligioso. Tuttavia, se questo riconoscimento è stato pregiudicato sul piano formale, resta impregiudicata la possibilità di perseguirne le prospettive sul piano operativo.

In effetti, la Raccomandazione n. 170 del 4 febbraio 2005 del Consiglio d’Europa, ha sottolineato che la dimensione religiosa costituisce parte integrante della conoscenza della storia dell’umanità e della civiltà. Da questo riconoscimento consegue la necessità di adeguate politiche sociali, culturali, formative (specialmente nelle scuole) e urbanistiche (per quanto riguarda le esigenze dei luoghi di culto) [8]. Questa grande apertura può, però, avere dei limiti. Il 29 giugno 2007 l’Assemblea del Consiglio d’Europa, a conclusione di un dibattito sul dialogo interculturale e interreligioso, ha approvato una raccomandazione (n. 1804/2007, dal titolo “Stato, religione, laicità e diritti dell’uomo”), nella quale si afferma che «i diritti dell’uomo devono avere la precedenza rispetto ai principi religiosi» nei casi in cui sussista tra loro un conflitto. Vi si aggiunge che «gli Stati non possono accettare neanche la diffusione di principi religiosi che, messi in pratica, implicherebbero una violazione dei diritti dell’uomo. Nei casi dubbi gli Stati devono esigere dai responsabili religiosi una presa di posizione senza ambiguità sul primato dei diritti dell’uomo, come registrati nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nei confronti di ogni principio religioso» [9].

Concretamente, le autorità europee hanno avvertito la valenza specifica del “fattore religioso” a supporto della coesione sociale e dei percorsi di integrazione degli immigrati. O principi fondamentali comuni dell’’Unione garantiscono la pratica di culture e religioni diverse è garantita dalla Carta dei diritti fondamentali e deve essere salvaguardata, a meno , a meno che non sussista un che non sia in conflitto con altri diritti europei inviolabili o con le legislazioni nazionali. Questa impostazione, sul piano operativo, è stata ribadita nell’Agenda per l’Integrazione (2005) e nel Manuale sull’integrazione per i responsabili delle politiche di integrazione e gli operatori del settore (IIIa edizione, 2010). In questo documento si riconosce che le società europee possono venire arricchite dalle culture e dalle religioni di cui sono portatori gli immigrati; e perciò vengono auspicate piattaforme per un dialogo costruttivo tra le diverse confessioni e tra queste e le autorità pubbliche, con la consapevolezza che i leader religiosi, essendo in grado di raggiungere la base della popolazione migrante, possono fornire suggerimenti su un’ampia gamma di questioni. Il modello europeo in tema di pluralismo religioso risulta essere molto complesso e meritevole di approfondimenti, anche alla luce delle diverse esperienze vissute oltre atlantico, come di seguito si vedrà.

3L’Europa di fronte al terrorismo islamico e ai simboli del pluralismo religioso

In Germania, secondo un sondaggio della Wirtschaftswoche, risultava che già nel 2004 il 57% della popolazione tedesca temeva fortemente che la violenza per motivi religiosi fosse sull’orlo dell’esplosione [10]. La paura non era infondata e negli anni successivi si è determinata una vera e propria escalation. Il terrorismo incombe attualmente come una minaccia moralmente devastante. che non può avere giustificazioni e impedisce di attribuire ai terroristi la qualifica di rappresentanti del mondo islamico. Bisogna chiedersi perché sia andato accanendosi contro i Paesi dell’Unione Europea in maniera così spettacolarmente violenta. È nutrita la serie degli eventi sanguinari che hanno colpito non solo la Francia, ma anche altri Paesi europei. Citiamo, tra i tanti, uno degli attentati terroristici degli ultimi anni. Il 6 luglio 2016 un anziano sacerdote, Jacques Hamel, in servizio presso una parrocchia vicina a Rouen, è stato sgozzato, mentre celebrava la messa, da due giovani terroristi islamici. Hanno trovato la morte anche due fedeli che assistevano alla messa. I preti, al pari delle chiese. sono diventati un bersaglio simbolico privilegiato in questa sedicente “guerra religiosa”.

Gli autori di questi massacri hanno agito al grido di “Allah Akbar”, seguendo le indicazioni i dell’Isis. Si vorrebbe così far credere che è in atto una guerra di religione per colpire i Paesi di tradizione cristiana, ma le motivazioni religiose, talvolta ritenute credibili in Occidente, sono in realtà estrinseche, come denunciato con forza da autorevoli esponenti dell’Islam: e anche in ambito cristiano. Papa Francesco ha denunciato con vigore che l’invocazione di Dio a sostegno di questi misfatti costituisce una bestemmia. Più realisticamente si è di fronte a espressioni di un fanatismo religioso violento, alimentato dal disordine geopolitico internazionale e, in diversi Paesi occidentali, anche dal disagio e la emarginazione sociale di molti immigrati musulmani.

Vi è anche un altro aspetto della questione da considerare: l’avversione di parte delle popolazioni europee verso gli immigrati in quanto portatori di tradizioni religiose differenti, specialmente dopo il susseguirsi degli attentati terroristici di matrice islamistica e il massiccio arrivo di richiedenti asilo di religione musulmana a partire dal 2014. Secondo L’Ecri (European Commission against Racism and Intolerance), organismo che opera all’interno del Consiglio d’Europa, le comunità più esposte ai discorsi e agli atti d’odio sono quelle musulmane ed ebraiche, specialmente se ne viene palesata l’appartenenza da abiti o simboli, come l’hejab o la kippah.

In Francia, dove in varie città si sono svolte diverse manifestazioni per garantire alla ragazze islamiche di portare il velo. nel 2004 è stata approvata la legge che vieta l’esibizione dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche: la proposta del Presidente Chirac è stata ampiamente condivisa dalla popolazione. In Italia, dove l’influenza del Papa e delle realtà ecclesiali è più forte ed ampia, è sicuramente ridotta l’avversione ai simboli religiosi. In quell’anno (sondaggio condotto dalla Fondazione Nord Est) non c’è stata una maggioranza favorevole al divieto come in Francia (30% contro 59%).

Anche il mantenimento del Crocifisso nelle scuole ha trovato gli italiani favorevoli (8 su 10 sondaggio Abacus condotto nel 2003). Va ricordato che in Italia successivamente  è stata sollevata in giudizio (senza essere avallata dai giudici) la questione relativa alla sua rimozione dalle scuole e nel 2005 quella relativa alla sua rimozione dalle aule dei tribunali. I ricorrenti hanno ritenuto con queste richieste di dare un segno di rispetto ai fedeli di altre religioni e di attuare con coerenza i princìpi di laicità dello Stato, anziché considerare che il crocifisso non è una suppellettile né un oggetto di culto, bensì «un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento dei valori civili, che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato» [11]. Pertanto, l’equilibrata conclusione che ne devono trarre i credenti consiste. non nello schierarsi contro la posizione della società laica, che è stata varata per esigenza di neutralità e di equilibrio, quanto contro una sua interpretazione che rischia di sconfinare in un laicismo esasperato, che non rende ragione al passato dell’Europa e lascia insoddisfatti gli immigrati sinceramente attaccati al loro credo religioso. Insomma, il modello europeo non è privo di limiti.

4La posizione della Chiesa cattolica sul pluralismo religioso

Non vi è dubbio che nel mondo odierno la fede cristiana sia maggiormente sottoposta a persecuzioni [12]. È parimenti evidente, come sottolineato da Papa Benedetto XVI, la fase di crisi delle chiese storiche, mentre avanzano le sette ed altri movimenti religiosi alternativi. «Chi vive e opera nella Chiesa cattolica, meno colpita dalla crisi dalle Chiese protestanti tradizionali, prova spesso un senso di inutilità e di frustrazione, come se il mondo contemporaneo non avesse alcun bisogno della parola religiosa. Il mondo occidentale si mostra staccato dalla sua cultura, non appare evidente la necessità di Dio e la Chiesa appare cosa antiquata con proposte che non destano interesse. Per il Papa non è il caso di scoraggiarsi, mentre bisogna oltrepassare il tunnel e convincere i contemporanei razionalmente sui valori morali, dialogando con il mondo laico» [13].

Questi condizionamenti non hanno impedito alla Chiesa Cattolica di coltivare un atteggiamento positivo di fronte al pluralismo religioso e alle migrazioni internazionali, considerate un “segno dei tempi”  nel quale coinvolgersi per proporre il suo messaggio spirituale e promuovere il dialogo interreligioso.  Secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II, l’apertura ai fedeli di altre religioni non contrasta con la fedeltà al messaggio cristiano: in diversi testi conciliari i fedeli delle religioni non cristiane sono associati alla salvezza, anche se in modo diverso rispetto ai cristiani (Lumen Gentium, n. 16), e riconosciuti illuminati da raggi di luce (Nostra Aetate, n. 2), possessori di elementi di grazia che toccano i cuori e di germi del Verbo (Ad Gentes, nn. 9 e 11).

Il dialogo tra le religioni è sempre più necessario, non tanto come esercizio teorico bensì come incontro concreto tra credenti, da impostare in maniera corretta come raccomandato da Paolo VI nell’Enciclica Ecclesiam suam del 1964) [14]. Giovanni Paolo II nell’Enciclica Redemptoris missio (7 dicembre 1990) evidenzia che le migrazioni hanno prodotto un fenomeno nuovo per cui i non cristiani giungono numerosi nei Paesi di antica cristianità, sollecitando la Chiesa a nuove forme di contatto e di scambio (cf. nn. 37 e 82). Lo Spirito Santo agisce anche tra gli uomini di buona volontà, nelle società, nel corso della storia, tra i popoli, nelle culture e anche nelle religioni (nn. 28-29). Pertanto «il dialogo non nasce da tattica o da interesse, ma è un’attività che ha proprie motivazioni, esigenze e dignità: è richiesto dal profondo rispetto per tutto ciò che nell’uomo ha operato lo Spirito, che soffia dove vuole» (n. 12) [15].

Nel documento del Pontificio Consiglio della pastorale per i Migranti e gli Itineranti Erga Migrantes caritas Christi (3 maggio 2004) le migrazioni odierne vengono qualificate come «il più vasto movimento di persone, se non di popoli, di tutti i tempi» (n. 96). Dal momento che coinvolgono un movimento di persone e di popoli mai visto possono favorire il dialogo, la conoscenza e la comunione, così da essere considerate un “segno dei tempi”, un “appello dello Spirito” che consente di realizzare il progetto di Dio di formare di tutti i popoli una famiglia. «Le migrazioni attuali pongono ai cristiani nuovi impegni di evangelizzazione e di solidarietà, chiamandoli ad approfondire quei valori, pure condivisi da altri gruppi religiosi o laici, assolutamente indispensabili per assicurare una armonica convivenza. Il passaggio da società monoculturali a società multiculturali può rivelarsi così segno di viva presenza di Dio nella storia e nella comunità degli uomini, perché offre un’opportunità provvidenziale per realizzare il piano di Dio di una comunione universale».

A livello operativo Papa Giovanni Paolo II nel 1986 ha promosso l’incontro interreligioso di Assisi, che da allora si ripete annualmente. Lo “spirito di Assisi” porta a superare la rassegnazione e il senso di impotenza, a non accettare la violenza, a promuovere la libertà, la pace, l’incontro tra le culture e le civilizzazioni nell’ottica di una convivenza ispirata alla tolleranza a tutti i livelli e, naturalmente, ad aprirsi a tutte le religioni e a tutti gli uomini di fede.  Nel 2011 Benedetto XVI ha apportato una notevole innovazione all’incontro interreligioso di Assisi, invitando a parteciparvi anche quattro non credenti. Uno di essi, il filosofo messicano Guillermo Hurtado, in una intervista ha voluto precisare che l’incontro di Assisi non è più soltanto “interreligioso” perché, attuando la vocazione universale della Chiesa cattolica, «coinvolge tutta l’umanità nella ricerca della verità e della pace, compreso un agnostico aperto alle manifestazioni della religiosità: si tratta di una ricerca condivisa dall’umanità, nella quale un agnostico, e anche un ateo, possono partecipare con fiducia e convinzione piena. […] Dobbiamo promuovere il dialogo tra credenti e non credenti in questo momento della storia, nel quale siamo sommersi in una crisi molto grande, per trovare soluzioni comuni ai problemi comuni» [16]. Secondo Papa Giovanni Paolo II «se globalizzazione è il termine che, più di ogni altro, connota l’odierna evoluzione storica, anche la parola dialogo deve caratterizzare l’atteggiamento, mentale e pastorale, che tutti siamo chiamati ad assumere in vista di un nuovo equilibrio mondiale» [17].

5Come affrontare il futuro con fiducia

Roma, che con la Città del Vaticano è il centro del Cattolicesimo, opera come un centro che dà impulso al dialogo interreligioso. Con questo impegno sono fattivamente in sintonia anche le altre confessioni cristiane. Da Roma viene diffuso con perseveranza il messaggio del dialogo, che porti ad accettare tutti i credenti e a non fare della propria fede uno strumento di divisione. Se tutti i luoghi sacri, e specialmente quelli più importanti quali senz’altro sono Gerusalemme per l’Ebraismo, la Mecca per l’Islam sunnita e Teheran per l’Islam sciita, se si proponessero congiuntamente come centri di promozione del dialogo interreligioso, l’impatto su scala globale sarebbe così positivo da togliere radicalmente alibi al terrorismo a sfondo religioso, ma come tristemente risaputo le religioni non sempre si sono adoperate in tal senso [18].

Il segretario dell’ONU, Ban Ki-Moon, lanciando il 1 febbraio 2013 la prima Settimana mondiale dell’armonia interreligiosa, precisava che «il rispetto della diversità e del dialogo pacifico è una condizione essenziale se la famiglia umana vuole cooperare a livello mondiale di fronte alle minacce che pesano su tutti gli abitanti del pianeta e cogliere le opportunità comuni». La convivenza multireligiosa nei Paesi di immigrazione, se correttamente praticata, è in grado di incentivare la pace a un livello molto più ampio. ma per raggiungere questo obiettivo si richiedono gli aggiustamenti di seguito indicati.

Con riferimento ai Paesi europei di accoglienza

In Occidente una faticosa storia, protrattasi per secoli e contrassegnata da sanguinose “guerre di religione”, si è conclusa paradossalmente con l’affermazione dello Stato laico, concepito come il “contenitore” più adeguato delle diversità religiose, purché riesca a non sconfinare nel laicismo da una parte, e nel clericalismo dall’altra. Le popolazioni mostrano un atteggiamento dai comportamenti incerti. Da un lato, si assiste all’accettazione di un realtà multiculturale e multireligiosa, ritenuta un valore positivo ed arricchente. Dall’altro, la paura della diversità si traduce in una riemersione di una vera e propria “guerra di religione”. Il tono è particolarmente accesso nei confronti dell’Islam, che ha rimesso in discussione la stessa identità dell’Europa e portato a riflettere su diversi temi (nazionalismo etnico e radici cristiane e liberali).

È indispensabile superare la diffidenza nei confronti delle religioni degli immigrati e non porre impedimenti alla strutturazione dei loro luoghi di culto, che sono anche estremamente funzionali all’integrazione. Questi luoghi attivano reti di amicizia, di scambio, di mutua assistenza e promuovono diverse iniziative socio-culturali, mostrando l’intreccio profondo che sussiste tra la dimensione religiosa e quella della solidarietà. Pertanto, sussiste l’obbligo per i decisori pubblici di accompagnare in maniera adeguata questa evoluzione, superando i ritardi legislativi e amministrativi e incentivando il rispetto del pluralismo religioso anche tra le rispettive popolazioni

Con riferimento alle religioni non cristiane

Si sta affermando, seppure faticosamente e per gradi, la convinzione che i credenti di tutte le religioni siano responsabili “in solido” della testimonianza nei confronti del mondo di oggi, dal quale la religiosità viene spesso percepita come un controvalore. Questa finalità deve essere sempre più posta alla base degli scambi tra le religioni, e fungere da stimolo per ricercare impostazioni comuni e non conflittuali. Questo impegno riguarda tutte le comunità religiose degli immigrati e, in particolare, quelle più numerose come la musulmana. Non basta che i musulmani di base siano aperti, lo devono essere anche i loro vertici. Hanif Kureishi (padre pakistano e madre londinese), drammaturgo, regista e tra gli scrittori inglesi più letti nel mondo, partecipando al Festival della Filosofia di Roma nel maggio 2007, in un confronto col noto islamologo Tariq Ramadan (padre egiziano ma nato in Europa) così ha affermato: «Esistono molti musulmani moderati, sono la stragrande maggioranza, li conosco e li rispetto. Ma non un Islam, inteso come ideologia di quel tipo» [19]. Bisogna, quindi, che i musulmani europei accettino più convintamente i valori della tradizione europea: la laicità dello Stato e del diritto, la reciproca autonomia tra Stato e religioni, la stessa indipendenza della cittadinanza dall’appartenenza religiosa, la condanna totale e definitiva del terrorismo come metodo di confronto. A sua volta, ha ragione anche Tariq Ramadan nel denunciare il diffuso clima di sospetto nei confronti dei musulmani, qualcosa di simile al sospetto diffuso contro gli ebrei negli anni ’30 [20].

Con riferimento ai cristiani dei Paesi di accoglienza

Andando contro l’eccessiva semplificazione delle altre civiltà e delle altre religioni e ponendo fine alle visioni pregiudiziali e stereotipate, bisogna favorire un confronto sereno e costruttivo per creare un nuovo umanesimo planetario, tenendo conto che le culture non sono entità impermeabili e immutabili, ma da sempre fatte di incontri e scambi [21]. Queste esigenze devono essere le linee ispiratrici nella formazione dei fedeli. Per il cristiano è Cristo il perno (o sacramento) della salvezza universale. Questo è il nucleo centrale della sua fede, che non pregiudica affatto il rispetto delle diverse credenze. La coscienza di ogni persona rimane l’ultima definitiva istanza di mediazione con la realtà divina e pertanto va sempre rispettata, almeno fino a quando essa non travalichi l’ambito dei propri diritti e sia di pregiudizio alla comune convivenza.  Questa impostazione non mancherà di dispiegare i suoi effetti tonificanti e tuttavia, per influire in maniera più incisiva, dovrebbe coinvolgere, oltre ai rappresentanti delle comunità religiose e ai rispettivi fedeli, gli stessi politici la cui funzione consiste nell’essere i primi garanti della libertà religiosa dei loro cittadini.

Dialoghi Mediterranei, n.32, luglio 2018
Note
[1] La rivincita di Dio, Milano, Rizzoli, 1991.
[2] www.europeanvalues.nl.
[3] I risultati sono stati pubblicati il 23 giugno 2003 dal quotidiano La Repubblica
[4] The Future of World Religions: Population Growth Projections, 2010-2050, aprile 2015.
[5]http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/messages/peace/documents/hf_jp-ii_mes_20001208_xxxiv-world-day-for-peace.html.
[6] Si riportano i risultati di uno studio condotto dal Forum Internazionale ed Europeo di ricerche sull’immigrazione (FIERI) su il “Il trattamento giuridico delle minoranze islamiche in Europa e negli Stati Uniti”(Torino, 18-21 giugno 2003).
[7] S. Ridolfi, La Chiesa cattolica e l’Unione europea, in Idos, Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, a cura di Coccia B, e Pittau F., La dimensione sociale dell’Europa. Dal Trattato di Roma ad oggi, Edizioni Idos, Roma, 2017:155-156).
[8] Il volume di Roberta Medda-Winscheider, attento all’inserimento degli immigrati e anche alla dimensione religiosa, commenta la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e favorisce una serena riflessione sul tipo di società da promuovere in un contesto di multireligiosità: R. Medda-Windischer, Nuove minoranze. Immigrazione tra diversità culturale e coesione sociale (Cedam, 2010)
[9] È in sintonia con tali indicazioni la “Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione”, un documento che nel 2007 è stato redatto sulla falsariga della Costituzione italiana e con decreto del Ministero dell’interno (23 aprile 2007) è stato proposto all’approvazione delle comunità immigrate per attestarne la sintonia con i principi fondamentali che regolano la vita societaria in Italia: allora non ci fu la sottoscrizione da parte di tutte le associazioni islamiche alle quali fanno capo le moschee.
[10] P. Valentino, in Corriere della Sera, 18 novembre 2004.
[11] Avvenire, 16 febbraio 2016
[12] cfr. https://www.porteaperteitalia.org/pdf/wwl_2017World. Watch List. Dove la fede costa di più.
[13] M. Politi, “Ratzinger e la società senza Dio. Le Chiese storiche stanno morendo”, La Repubblica, 29 luglio 2005. Non è solo il Papa ad aver condotto un’analisi così realistica. Anche per altri uomini di chiesa ritenere che l’Europa sia ancora sostanzialmente e in misura maggioritaria cristiana è “fuori dalla realtà” (Intervista al card. Francesco Pompeddera, prefetto emerito del Supremo tribunale della segnatura apostolica, raccolta da L. Accattoli, in: Corriere della Sera, 17 dicembre 2004).
[14] Mario Ponzi, “Chiarezza, fiducia e prudenza, cardini del dialogo tra le religioni”, intervista al card. Jean Luis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso a commento del 25° anniversario del convegno di Assisi, in L’Osservatore Romano, 27.10.2011.
[15] È noto che, secondo la teologia inclusivista, il fare perno sulla rivelazione di Gesù Cristo non impedisce di considerare le altre religioni come portatrici di valori e di verità che possono essere incluse nel mistero di Cristo (e della sua Chiesa), riferimento che però deve essere tenuto fermo in un dialogo chiamato a esporre gli elementi comuni delle religioni ma anche le loro specificità (cfr. Julien Ries, Università Cattolica di Lovanio, “Teologia delle religioni, dialogo interreligioso e missione cristiana” inwww.meetingrimini.org/detail.asp).
[16] La Stampa 27.10.2011.
[17] Discorso rivolto il 18 maggio 2004 ai partecipanti all’incontro «Il dialogo interculturale interreligioso ed ecumenico nel contesto delle odierne migrazioni», promosso dal Pontificio Consiglio per la pastorale dei migranti, Giovanni Paolo.
[18] cfr. Paravati C., Pittau F., “Roma, capitale della multireligiosità .Una dimensione mondiale”, in Libertà Civili, maggio-giugno 2017: 120-124.
[19] Proprio per questo motivo è stato costituito nel mese di aprile 2017 il primo “Think tank” dei musulmani in Italia, composto da membri inseriti nei vari ambiti e provenienti da tutte le parti del Paese: cfr. http://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2017/04/07/news/nasce_il_primo_think_tank_dei_musulmani_italiani-162460224/
[20] Alessandra Capponi, “Scintille all’incontro sull’Islam. Litigano Kureishi e Ramadan”, in Corriere della Sera, 14 maggio 2007
[21] Le differenze etnico-culturali vanno accettate a anche in ambito cristiano, tenendone conto nell’accoglienza riservata i credenti della stessa confessione, che nella prima fase dell’integrazione possono avere bisogno anche di strutture pastorali specifiche
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Luca Di Sciullo, dottorato in filosofia, è attuale presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS, dove si è specializzato nell’analisi dei processi di integrazione degli immigrati a livello territoriale. Ha curato, per conto del CNEL, una serie di nove Rapporti sugli Indici di integrazione degli immigrati in Italia, di cui ha ideato, messo a punto e consolidato la metodologia di misurazione. Dal 2009 è docente di filosofia presso l’Istituto Filosofico Teologico “San Pietro” di Viterbo, aggregato al Pontificio Ateneo “S. Anselmo” di Roma.
Franco Pittau, ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario di questo genere realizzato in Italia) e suo referente scientifico fino al 2917, si occupa del fenomeno migratorio dai primi anni ’70, ha vissuto delle esperienze sul campo in Belgio e in Germania, è autore di numerose pubblicazioni specifiche ed è attualmente presidente onorario del Centro Studi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico. è anche direttore responsabile della rivista Affari Sociali Internazionali, prima edita da Franco Angeli con la cura redazionale del Ministero degli Affari Esteri – Direzione generale degli italiani nel mondo, e ora pubblicata dal Centro studi e ricerche IDOS.
Nadia-Elena Vặcaru, docente presso la Facoltà di teologia e di science religiose dell’Università Laval (Québec, Canada), nel 2009 ha conseguito il dottorato in Geografia (presso l’Università “Alexandru Ioan Cuza” di Iasi, Romania) e nel 2013 il Dottorato in Teologia (presso l’Università di Bucarest, in Romania). Le ricerche attuali, condotte in singoli progetti o in collaborazione con gruppi dei settori della teologia, filosofia, sociologia e geografia, sono incentrate sull’evidenziazione, da una prospettiva interdisciplinare, del ruolo della Dottrina sociale della Chiesa nella società contemporanea. Tra i temi privilegiati nei suoi studi sono: la pastorale e l’etica sociale, le migrazioni contemporanee, l’accoglienza e l’integrazione degli immigrati, il patrimonio religioso.
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