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Gozzano poeta perbene

eoviyh1w4am8r2jdi Antonio Pane

Chissà se Guido Gozzano, nella sua breve parabola, giunse a incrociare il pittore Domenico Durante o l’impiegato Giovanni Goccione o il geometra Luigi Forlano o lo studente di Giurisprudenza Domenico Donna, eroi scalcinati e goliardici del primo scudetto del nato da poco ma a molto destinato Juventus Football Club. Nel 1905, «bello» e «ventiduenne» come il Majakovskij della Nuvola in calzoni (sebbene di men smisurata presenza), Gozzano doveva intensamente partecipare alla vita mondana della sua Torino, sporgendosi, a partire dalla privilegiata frequentazione della «Società di Cultura» e del dotto cenacolo di Arturo Graf, sugli aspetti più frivoli del panorama cittadino, non escluso il recentissimo fervore suscitato dagli sports, come ben testimonia il sonetto La forza, dedicato «a Mario B., lottatore».

Me lo chiedo scorrendo un bel florilegio del suo lascito poetico, I colloqui e altre poesie, magistralmente curato da Alessandro Fo per l’elegante collana «Interno Novecento» di Interno Poesia, e ritrovandovi le atmosfere («le dritte vie corrusche di rotaie», il «garbo parigino» di Torino, il «tetro Palazzo Madama» di Un rimorso, le «signore | che mangiano le paste nelle confetterie» di Le golose) che da sempre mi fanno pensare a una pellicola dei primordi, uno di quei meravigliosi, tremuli reperti grigioseppia in cui vediamo transitare a velocità doppia le immagini sgranate di donne dai fantastici cappelli e di signori impettiti nei solini, di convulse folle urbane, di astrusi velocipedi, di treni emergenti dal fumo e di arrancanti vetture nimbate di scintille.

Mi trovo così a riflettere che quei venerandi filmati, così veri, così ‘documentali’, sono in verità documento di un sogno: il sogno dello spettatore che li riporta a vita da una incalcolabile distanza. Gozzano somiglia a quello spettatore. La sua Torino è una visione postuma: «sognavo le tue nevi, i tigli neri»; «sognavo sere torinesi». Le sue poesie, così oggettive (basti pensare alle ‘cose’ nominate in un testo-chiave come L’amica di nonna Speranza), così nitidamente ‘fotografiche’, denunciano insieme un distacco, sogguardano i fatti ‘da lontano’, come una rêverie, un teatrino d’antan in cui si può persino incontrare il ‘personaggio’ del sognatore: il guidogozzano che muta l’autobiografia in fiaba, la confessione in racconto di tutti; il guidogozzano sorpreso a soppesare le creazioni del suo autore, quello che nel chiudere I colloqui «aduna i versi, rimaneggia, lima, | bilancia il manoscritto nella mano». E in queste retrospettive carezze si sente un’aria di famiglia, qualcosa di proustiano: penso al «Carlotta! nome non fine, ma dolce che come l’essenze | resusciti le diligenze, lo scialle, le crinoline…» di L’amica di nonna Speranza; al «Risorgeremo dal tempo lontano» di Cocotte; al «rivivo col profumo di mentastro | e di cotogna tutto ciò che fu» nel quarto dei Sonetti del ritorno.

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Guido Gozzano

Guido Gozzano assomma in sé la ‘virtù’ dell’osservatore freddo e avveduto (tra il suo «commesso farmacista» e il provetto entomologo che pure fu) e il ‘vizio’ del «sognatore vagabondo» denunciato nel suo reportage ‘a distanza’ da Goa [1], l’attitudine di «chi assiste alla vita con occhi saggi e contemplativi, come a una cosa inventata», attribuita a un suo «notaio»[2]. Uno sguardo ‘doppio’ che ne favorisce il rimpiattino (il parlar d’altro mentre parla di sé e il parlare di sé mentre parla d’altro), il voto di sottrarsi alla prigione (e alla spocchia) autoriale. Renato Serra, il suo forse più perspicuo lettore, ci avvisa per tempo che Gozzano «si diverte a fare il piemontese, l’avvocato, il provinciale»; che il gozzanismo è «soltanto un’illusione, un gioco creato da lui nella nostra ingenuità»[3].

Il meglio di Gozzano, la sua modernità, è tutto in questo gioco sul ciglio dell’io che si mostra e nasconde, si nasconde e si mostra, nella giostra del significato che si rivela sottraendosi e si sottrae rivelandosi, nell’idea, in breve, di letteratura come falsa menzogna, menzogna-che-non-mente, che avrà da noi una lunga fortuna (si potrebbe misurare il ‘tasso gozzanico’ di Sanguineti, di Manganelli, di Calvino, di Caproni e di tanti altri), ed è opportunamente rilevata nel finissimo (e fraterno) saggio introduttivo di Alessandro Fo (integrato da una quanto mai precisa Nota al testo e da una ricca Notizia biobibliografica), dove si legge che il Nostro «si vietava di parlare di sé, e della sua “arte fatta di paro­le”, senza mentire» (Ma c’è un rifugio? Un tentato colloquio con «guidogozzano»).

2Il meglio di Gozzano, la sua perennità di ‘piccolo (non poi tanto piccolo) classico’, è, ancora, l’alta coscienza formale, la strenua ricerca di compostezza, di equilibrio compositivo, il gusto spiccato della corrispondenza e della simmetria, la concezione del testo come tessuto compatto, coerente, armonioso, in cui ogni parola chiede peso e spessore, a produrre «una pasta piena e fluente, che riempie tutto lo stampo del verso» [4]; in altri termini, la sua dimensione d’artista chiamato a chiudere (come Marcel Proust, come Henry James) tutta una tradizione, a celebrarne i fasti e insieme condannarne senza appello le obsolescenze: a far piazza pulita del petrarchismo con i modi e le parole del Petrarca.

Questo ‘sgombero’ – la destituzione del lirismo vacuo e pretensioso, l’eterno retore che non teme di concepire «una collana di sonetti su Posillipo o sulle Terme di Caracalla»[5] – è compiuto in sordina, senza gesti eclatanti, senza proclami, con le buone maniere di chi è sicuro del fatto suo ma si guarda bene dal farlo sentire. Il traumatico «Io mi vergogno, | sì, mi vergogno d’essere un poeta!» di Signorina Felicita istituisce sulla finta autoaccusa un divieto che non potrà più essere ignorato (ancora echeggiando nel «Che vergogna rileggersi» di Ripellino) [6].

Il richiamo alla ‘decenza’, l’invito alla sobrietà, la misura per così dire igienica, ha il suo contraccambio nell’altra mossa capitale, questa di carattere inclusivo, costituita dallo ‘sdoganamento’ dei mondi minori, delle province del mondo, da una estensione dell’area del poetabile: manovra contigua a quella che Puccini realizzava nel melodramma con le sue eroine del quinto piano (o a quella oggi imbastita dalle Topolino Amaranto di Paolo Conte).

Il ‘proprio’ di Guido Gozzano, il suo originale contributo agli annali della nostra poesia risiede allora nella capacità di proporre una musica nuova senza pretendere di foggiarsi, come faranno i futuristi, nuovi strumenti, di ‘allargare il campo’ osservando le vecchie norme, facendo tesoro di quel che è dato. Non a caso uno dei suoi procedimenti prediletti sarà il prestito esibito, la più o meno facile citazione (dal dantesco «non son colui, non son colui che credi!», alle ariostesche «opere d’inchiostro», al dannunziano «Fare bisogna», alla famosa luna, «punto sopra un İ gigante», ‘rubata’ a De Musset) da rimodulare con qualche malizia su un registro medio, sul quotidiano borghese che ne modella la maschera linguistica.

71egmdhbnlInsomma, il gioco di Gozzano è la partita di un artefice consapevole e coscienzioso, portatore peraltro di una serietà intellettuale, di una filosofia austera – quella del positivista senza Dio, del lettore di Schopenhauer e dell’infelice Nietzsche posto audacemente in rima con «camicie» e «felice» – tradita nell’impianto delle Epistole entomologiche o in testi come Ah! Difettivi sillogismi!. La leggiadra e leggendaria levità delle sue migliori riuscite è il frutto di un lavoro paziente e tenace che investe l’accorta costruzione del soggetto (visibile nel passaggio da L’ipotesi a La signorina Felicita), l’adeguatezza del metro, l’accurata scelta delle parole e i loro sistematici richiami – nel regime anaforico che include arguzie acustiche («il dono mi lasciò dell’abbandono»), figure etimologiche («Amor non mi piagò di quella piaga»; «trillando un trillo gaio di fringuello»), rime equivoche («bambini, fate pian piano! | le amiche provano al piano») –, la tangibilità di certe metafore («l’acqua tessuta dall’immensità | chiude il mio sogno come in una rete»; «la strada boschiva che pare | un gran corridoio nel verde»; «l’azzurro infinito del giorno | è come una seta ben tesa»), la straordinaria sapienza con cui sono inseriti nel verso corrivi lacerti dialogici, filastrocche infantili, cammei dialettali (sontuosamente orchestrati come le canzoni di strada di Mahler o le marcette di Šostakovič), fino all’impagabile (e perfettamente endecasillaba) onomatopea di Invernale: «“… cri… i… i… i… i… icch…” l’incrinatura» (che sembra banalizzare certe sparatorie verbali di Marinetti).

La poesia di Gozzano è in primo luogo una poesia ben concepita e ben scritta, con le carte in regola, la poesia ‘perbene’ di un autore borghesemente perbene (e giustamente passato in proverbio con le sue «rose che non colsi», le sue «buone cose di pessimo gusto»); ed è poi una eversione ‘gentile’, a volo di farfalla, educata, sommessa, «dolcesorridente» come la Graziella di Le due strade, e per queste due divergenti ma necessarie vie è ancora capace di raggiungerci, ancora ‘nostra’.

Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Note
[1] Vd. Guido Gozzano, Verso la cuna del mondo, a cura di Giorgio De Rienzo, Milano, Mondadori («I Capolavori della Narrativa Moderna»), 1984: 107.
[2] Nel racconto Madre d’oltre Alpe, ora in Guido Gozzano, I sandali della diva. Tutte le novelle, introduzione di Marziano Guglielminetti, edizione e commento di Giuliana Nuvoli, Milano, Serra e Riva («Biblioteca del Minotauro»), 1983: 301.
[3] Le due citazioni da Le lettere, ora in Renato Serra, Scritti letterari, morali e politici. Saggi e articoli dal 1900 al 1915, a cura di Mario Isnenghi, Torino, Einaudi («NUE»), 1974: 407, 406.
[4] Ivi: 407-408.
[5] Vd. la lettera a Amalia Guglielminetti (Il Meleto, 24 maggio 1908), in Guido Gozzano – Amalia Guglielminetti, Lettere d’amore, www.liberliber.it, 2012: 114.
[6] L’incipit della poesia n. 21 di Sinfonietta, Torino, Einaudi, 1972: 115.

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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).

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