di Silvia Mazzucchelli
L’8 Agosto del 1991 la nave Vlora arriva a Bari con un carico di 20 mila migranti albanesi. È la fotografia di un fallimento politico e sociale. La massa umana, che il regime di Tirana lascia sulle sponde pugliesi, porta con sé cenci e disperazione, tutto ciò che resta del grande progetto socialista. Le sirene pubblicitarie delle televisioni commerciali che dall’Adriatico approdano a Valona e da lì proseguono per tutto il Paese delle Aquile, sconfiggono, nettamente e definitivamente, la timida balbettante propaganda di Radio Tirana. Se infatti in Italia si contano a decine i nostalgici ascoltatori di Radio Tirana, sono centinaia di migliaia gli albanesi che, grazie ad antenne di fortuna, sono in grado di captare, assieme al segnale di Rai Uno, le speranze di un mondo libero. Dove libertà vuol dire, soprattutto, se non solamente, poter comprare ciò che si vuole, magari con i soldi vinti indovinando il numero di fagioli nella ciotola trasparente di Pronto Raffaella. A partire dal secondo dopoguerra, l’Albania è un regime assolutamente totalitario, con un popolo reso ubbidiente da un’occhiuta polizia, costruita e mantenuta sul modello della Stasi e del Kgb. Il sospetto, l’infiltrazione e la delazione sono gli ingredienti di una socialità malata, su cui vigilia e decide il Grande Padre.
Il Grande Padre è Enver Hoxha, dittatore dell’Albania dal 1945 al 1985, fedelissimo di Stalin detto Piccolo Padre in Unione Sovietica, come in una matrioska impazzita figli a loro volta del Grande Bolscevico Lenin. Proprio Lenin è il volto più emblematico e ingombrante, in senso fisico e politico, della mostra fotografica, Grande Padre, di Camilla de Maffei, che si è tenuta a Reggio Emilia all’interno del Festival di Fotografia Europea, e dell’omonimo libro, Grande Padre. Viaggio nella memoria dell’Albania. con i testi di Christian Elia e le foto della de Maffei. Christian Elia, Fotografie di Camilla de Maffei (Milieu edizioni, 2022).
L’enorme testa scura di Vladimir Il’ič Ul’janov occupa tutta la superficie del fotogramma, instillando nello spettatore un immediato senso di oppressione e chiusura. Fotografato dal basso, incombente come un dio malevolo, quel volto evoca uno sguardo a cui non è possibile sottrarsi; una sorta di Grande Fratello di pietra. O, meglio, una Medusa senza crini che pietrifica e immobilizza chi la fissa, lo costringe a rimpicciolirsi al cospetto di uno sguardo onnisciente.
«Quello costruito in Albania tra il 1945 e il 1991 è la realizzazione politica e sociale più vicina al concetto di carcere assoluto teorizzato di Jeremy Bentham, il Panopticon – scrive Elia – (…) in fondo quella del potere, in Albania, è una storia di grandi padri. Dai capi famiglia ai leader politici, dai modelli di importazione alle false promesse: c’è sempre un padre che vuole trattare gli albanesi come eterni minorenni». È sotto questo peso che si osservano le fotografie.
A un potere che guarda dall’alto e da lontano, autoritario e oppressivo, si contrappone lo sguardo di fotografa, fatto di attenzione e prossimità. «Osservare da dentro, senza fretta e senza pretese, aiuta lo sguardo a scavare, ad andare oltre la superficie, alla ricerca di tracce che prima sembravano invisibili» scrive nell’introduzione al libro. L’occhio non è quello del potere che schiaccia e cancella, ma di chi si avvicina, osserva, ascolta. L’immagine non è il calco reificato della realtà che si sostituisce alla realtà stessa, ma diventa il luogo di una scelta: ognuno di noi, davanti a un’immagine, deve decidere come farla partecipare, o non partecipare, alle nostre iniziative di conoscenza e azione. La fotografia mostra lo stigma di una società e di una forma di potere che passa attraverso uno stigma fisico.
Una foto, scattata a Tirana nel 2019, mostra solo una porzione del volto di una donna. L’occhio dell’obbiettivo punta sul suo occhio piangente. Sembra voler recuperare una visione per troppo tempo costretta al buio, o forse lo sguardo chiede di perdersi in una memoria distante e magari più felice. Un altro primissimo piano coglie un frammento del volto di un uomo maturo, ne ritaglia solo la bocca nell’atto di parlare. Il diritto ad esprimersi dopo essere stati costretti al silenzio per decenni? In uno scatto in cui il volto riempie tutto il fotogramma, il desiderio di parlare si trasforma in bisogno di urlare. Ma non è un urlo che esprime dolore esistenziale, racconta invece rabbia, indignazione e ribellione.
«Quando vennero a prendermi, perquisirono casa mia e bruciarono tutti i libri che possedevo. Tutto venne usato contro di me: la musica che ascoltavo, i vestiti che indossavo, molti dei quali mi erano stati regalati dai turisti che lo stesso regime invitava. Mi accusavano di essere ‘pericoloso come la peste’, di aver infettato con il male dell’Occidente i giovani albanesi. E di spionaggio. Il mio primo processo avvenne davanti a duemila persone. Mi sputavano, mi prendevano a calci, mi lanciavano di tutto. La pubblica accusa, per tre volte, mi ha chiesto se amassi il partito. Per tre volte ho detto di no. Gli ho detto che il partito era come una mela, rossa fuori, ma marcia dentro. Mi hanno chiesto chi erano i vermi, gli ho risposto che erano i capi del partito».
Questo il racconto dell’ingegnere elettronico Saimir Maloku.
Le più accreditate fonti stimano intorno a cinquemila le esecuzioni politiche durante la dittatura, ma non c’è stata per l’Albania quella cesura storica, quella sorta di lavacro politico corrispondente al dopo Stalin o al dopo Mao. Senza fare i conti col passato, l’Albania si è ritrovata di colpo da un socialismo frugale e pauperistico ad un capitalismo deregolato e consumistico, mettendo assieme le scorie del nuovo e i detriti del vecchio regime. Per questo il lavoro di Camilla de Maffei non è la testimonianza di un dopo contrapposto ad un prima, ma la raccolta paziente di minuti frammenti di un durante, nel tentativo di restituire la complessità di un tessuto sociale consunto.
Ma le rughe dei volti si sono formate in un tempo lungo che non porta il marchio di un particolare regime e gli edifici, una volta obbedienti a canoni estetici e funzionali di un progetto ideale, sono ricondotti alla legge inesorabile delle possibilità e delle necessità.
«Tirana è come una matrioska: passeggiare per i suoi viali e i suoi quartieri, di viaggio in viaggio, è come affondare negli strati di tutti i poteri che sono passati dalla capitale albanese, ciascuno lasciando il suo segno, destinato ad essere mangiato dal potere successivo, che però non cancellava mai fino in fondo quello passato. Questo ha generato un’ipertrofia: abitativa, edilizia e narrativa»,
ricorda Elia. I balconi chiusi a formare un nuovo ambiente o le verande riadattate a stenditoi sono cicatrici capaci di raccontare, come quelle sulla carne umana, cosa accade a un corpo sociale quando è messo a dura prova dagli eventi.
Le foto di edifici scattate a Permet o a Tirana esprimono squallore, disagio, bruttezza, eppure ci riportano segnali di voglia di vivere, di trovare un proprio modo di stare al mondo. Il coacervo di fili per connettersi chissà dove e a chissà cosa, gli indumenti appesi ad asciugare, le lampadine che rilucono all’esterno a dispetto di improbabili tendaggi, rappresentano la risposta quotidiana alla lotta per la sopravvivenza. Le colate di cemento impiegate a profusione a gloria del regime sono invece, oltre che noiose e patetiche, lugubri e devitalizzate. Quando non sono deserte, vi appaiono figure marginali, uomini reietti, estranei a sé stessi. Oppure servono come palestra di climbing, una parete su cui si leggono una A cerchiata e un ACAB, una sfida nella sfida.
Il nemico dell’individuo è sempre lo stesso, sebbene cambi spesso casacca, e si chiama potere. A volte ci si prende una sbronza, sembra suggerire Camilla de Maffei, quando inquadra i musi filanti di belle luccicanti automobili. In questa mostra e nell’omonimo libro non c’è una sola fotografia che si proponga di celebrare la bellezza. Non un volto, non un edificio e neanche un panorama. Anzi, sembra che la fotografa voglia aderire, capovolgendola, all’idea della kalokagathìa, utilizzando una bruttezza fisica per rendere un clima di devastazione e bruttura morale. Guardiamo la foto di un agglomerato urbano con un alto edificio al centro, circondato da una coorte di costruzioni, alcune abitate, altre vuote o sventrate, senza presenza umana, un anticipo di apocalisse. O quella di una donna con uno sguardo torvo, gli occhi semichiusi, come lo è la bocca, da cui si intravede un dente posticcio, storto. I capelli neri, scomposti, sconfinano con il vestito dello stesso colore, ad alimentare un pallore freddo del viso.
Il sole dell’avvenire ha assunto toni lunari, e il socialismo, in queste foto, ha azzerato la dimensione sociale. Solo una foto, infatti, mostra un gruppo di soli uomini, presumibilmente operai, intenti ad ascoltare qualcuno e, non casualmente, in primo piano c’è una testa sfuocata e in fondo un tizio distratto da un telefonino. Un uomo è seduto sopra una sedia portatile, è vestito in modo formale, con un completo scuro. Di lui si vedono solo le mani, raccolte tra le gambe, senza che si siano composte in un gesto che abbia un significato particolare. Provvisoria la sedia, ignoto l’uomo, senza senso le mani. Forse il ritratto migliore dell’Albania di oggi.
Oppure si può preferire un’altra immagine, quella di una mano, solo quattro dita in verità, che emerge dal nero dello sfondo. È una mano di un operaio di età matura, di quelli che hanno visto il socialismo prima e le vetrine scintillanti poi, con le unghie consumate e poco curate. Tra l’indice e il medio si staglia una sigaretta accesa. La solitudine e l’attesa. Di qualcosa che si sa che non potrà più venire, che si è creduto potesse giungere e che non si è mai compito se non in forme distorte e aberranti. Uno struggimento, una nostalgia del futuro. Nevila Nika, ex direttrice dell’archivio di Stato albanese ha scritto di Enver Hoxha: «Quando ricevetti la notizia, piansi. Tanto. Ma non per lui. Piansi pensando a me, a tutti noi. Piangevo, e pensavo: è morto comunque troppo tardi e nessuno ci ridarà gli anni che se ne sono andati».
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
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Silvia Mazzucchelli, laureata in Scienze umanistiche, ha conseguito un master in Culture moderne comparate e un dottorato in Teoria e analisi del testo presso l’Università di Bergamo. Ha pubblicato due saggi dedicati alla fotografa e scrittrice Claude Cahun. Della stessa autrice ha curato Les paris sont ouverts (Wunderkammer, 2018) e scritto il saggio introduttivo per la traduzione in italiano del pamphlet. Ha collaborato con numerose riviste, fa parte della redazione della rivista on line Doppiozero. Da circa due anni sta conducendo uno studio analitico sul lavoro fotografico e poetico di Giulia Niccolai.
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