Un quadro d’insieme
Sono state finalmente pubblicate da Il Maestrale (Nuoro, 2024), a cura di Piero Mura, Le lettere di Grazia Deledda ad Andrea Pirodda (1891-1899). Diario di un apprendistato umano e letterario. Da tanto tempo si conosceva l’esistenza di questo epistolario [1] ma, per poterlo rendere accessibile, si sono dovute superare le resistenze dei tanti eredi di Andrea Pirodda che, finalmente, ne hanno permesso prima la consultazione presso l’Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna (ISRE) e infine ne hanno autorizzato la pubblicazione.
Si tratta di 190 lettere [2] che, a parte una minoranza di messaggi brevissimi, sono spesso molto lunghe e coprono, benché in modo irregolare, ben nove anni della vita nuorese della scrittrice, non ancora ventenne a gennaio del 1891. A questa data infatti, per l’esattezza al 20 gennaio, risale la sua prima risposta a un pretendente che le ha scritto, ma senza firmarsi: non ne conosce ancora neppure il nome (e gli si rivolge con un Preg.mo Sig.re). Si tratta proprio di Andrea Pirodda, giovane maestro elementare di Aggius (paese della Gallura) che insegna nella Scuola Normale di Nuoro e che le paleserà la propria identità poco tempo dopo. La giovane Grazia gli risponderà con perplessa gentilezza, ma anche con interesse crescente, finché, già nel 1892, lo chiamerà «amico mio» e comincerà a confidargli in modo sempre più diffuso i propri sentimenti intrecciati ai propri sogni di gloria letteraria, riposti nel successo della narrativa che nel frattempo va elaborando.
Leggendo e studiando queste lettere, riordinate cronologicamente da chi le custodiva, ricontrollate da Piero Mura (non sempre la datazione è certa, se non altro perché viene indicato il giorno della settimana e il mese, ma spesso manca l’anno) [3] è ora possibile ricostruire più chiaramente un periodo importante della vita nuorese di Grazia Deledda, che comincia già a sentirsi scrittrice affermata, nonostante l’ostilità dell’ambiente in cui vive e in cui si guarda con moralistico sospetto a questa ragazza che si permette di entrare in corrispondenza con l’universo mondo (editori, giornalisti, scrittori e scrittrici, sardi e non).
Cosa avrà mai da scrivere – si chiede la critica ruspante locale – questa sfacciata che parla della propria comunità e/o che produce una narrativa ‘scandalosa’, anche perché «quelle cose a Nuoro non accadevano»? [4]. Ma Grazia, con determinazione, contro tutti, continua a scrivere e ad esercitare anche nella scrittura epistolare il possesso di quell’italiano che invece, parlando, usa solo molto raramente in un ambiente dalla dialettofonia imperante e generalizzata.
Le tante lettere scritte da Nuoro prima del suo matrimonio e trasferimento a Roma nel 1900 e pubblicate finora (particolarmente importanti sono quelle ad Angelo De Gubernatis o a Giovanni De Nava [5]) sono da leggere anche come un esercizio di scrittura tra realtà e finzione, con la dimensione amorosa in cui sembrano slittare quando questi amici di penna mai visti di persona diventano dei quasi amanti o fidanzati. Ma ciò che colpisce – in queste lettere ad Andrea Pirodda, che invece Grazia Deledda conosce davvero e che, poco a poco, diventerà il suo fidanzato quasi ufficiale – è l’evidente prevalere della sincerità di sentimenti amorosi mescolati alla grande e autentica sofferenza di una giovane che, perso il padre di recente, è in lutto strettissimo; vedrà poi morire per un aborto la sorella Vincenza, vivrà di riflesso la delusione di un’altra sorella, Peppina, per la ‘volatilizzazione’, quasi alle soglie delle nozze, del suo promesso sposo e soffrirà anche perché il fratello maggiore, di nome Andrea pure lui, finirà in carcere per cinque anni, condannato per un pasticcio finanziario poco chiaro.
Di queste e altre disgrazie familiari Grazia Deledda parla apertamente nelle lettere a Pirodda, come non ha mai fatto né farà con nessuno dei suoi altri corrispondenti [6], in una evidente volontà di confidarsi con lui fino in fondo, analizzando le più riposte e talvolta contraddittorie pieghe del proprio animo e cercando di capire, prevenire e discutere le reazioni del suo spasimante. La giovane Grazietta ama profondamente la sua famiglia, ma teme sia il fratello maggiore sia la severità silenziosa di sua madre; e vorrebbe poter fuggire da Nuoro [7], intollerante dei limiti e della grettezza di un ambiente malevolo che, in continuazione, cerca di tarpare le ali alla sua vocazione artistica. Eppure, inizialmente, dice che, quando sarà sposata con Andrea, per amore potrà rinunciare alla scrittura [8]; ma si tratta di un hapax perché in seguito, in modo sempre più convinto, Deledda rivendicherà la propria autonomia di donna e scrittrice. E lo stesso Andrea protofemminista scriveva e teorizzava l’autonomia femminile e la necessità di dare alle donne una debita istruzione, tranne poi non essere molto conseguente nel non rinunciare ad un atteggiamento patriarcale verso la futura moglie, come Grazia talvolta gli rimprovererà.
Un percorso accidentato, con qualche interruzione
Ma andiamo con ordine. Risalgono al 1893 ben 68 di queste lettere indirizzate a Pirodda, che occupano da sole 375 delle complessive 636 pagine dell’epistolario [9]. Sono lettere scritte quasi quotidianamente, a puntate e in ore diverse, in attesa di poter essere inviate (per lo più a mano) al loro destinatario, mediante sotterfugi di vario tipo. Di Andrea, Grazia Deledda ha finito per innamorarsi davvero, se non altro perché, come dice più volte, sente che lui la ama moltissimo e sa che amor «a nullo amato amar perdona»: ne attende e spia per ore il passaggio di fronte alla sua finestra, è felice se ci può essere uno scambio di sguardi e di sorrisi, tocca il cielo con un dito quando è stato possibile un rapidissimo incontro, pur in presenza altrui. I due sono ambedue molto gelosi l’uno dell’altro e la giovane Grazia soffre sentendosi soffocare per il fortissimo controllo familiare e sociale esercitato nei suoi confronti in particolare dal fratello maggiore. Andrea Deledda e l’intera famiglia, zio prete compreso, sono infatti contrari a questa relazione amorosa, vorrebbero per Grazia un pretendente laureato e il giovane e squattrinato Andrea Pirodda, almeno finché non si “eleverà” studiando, non potrà ambire ad essere ammesso a frequentarla, come la stessa Grazia sa e ribadisce in continuazione. Perciò i due innamorati sono costretti a ricorrere a macchinosi espedienti per mandarsi, magari mediante una serva fedele, le rispettive missive, che poi ogni tanto si perdono o finiscono sotto gli occhi indiscreti di qualcuno.
Il tema delle lettere perse (anche quando saranno spedite per posta) e /o aperte da altri prima di arrivare a destinazione attraversa questo intero epistolario fino alla fine, tanto più che, a partire dal 1894, Andrea Pirodda non sarà più a Nuoro (ci tornerà sporadicamente in visita) e andrà ad insegnare a Buggerru, nell’iglesiente. Uno scambio di giornali e riviste segnalerà allora in codice che un’altra lettera è stata spedita o ricevuta, in un tira e molla che andrà avanti per anni, tra periodi di silenzio e/o di progressivo affievolirsi di un rapporto che, almeno per Grazia Deledda, sembra però essere di nuovo molto vivo nel 1897 e 1898. Il fatto è che la scrittrice, che in un primo tempo spera davvero che Andrea si renda degno di lei laureandosi o almeno acquisendo il titolo di professore con un diploma di calligrafia, oltre che partecipando a concorsi che possano riportarlo a Nuoro, vede queste sue aspirazioni continuamente frustrate dalla tacita resistenza di Andrea, rispetto al quale non esita a impancarsi in nome della propria maggiore esperienza quando gli propone di aiutarlo “sfumando”, cioè rivedendo e correggendo, i suoi scritti (prevalentemente giornalistici e pedagogici, ma anche narrativi) prima di mandarli, con il suo appoggio, a editori e riviste varie.
Sulla figura di Andrea Pirodda, anticlericale e femminista, e sull’influenza che egli può avere avuto nella maturazione di Grazia Deledda, ha scritto varie volte Piero Mura. Alla sua introduzione e bibliografia in calce a questo epistolario è doveroso rinviare anche per sottolineare gli aspetti di continuo confronto e scambio intellettuale onnipresenti nelle lettere della scrittrice, testimoni pure di un mondo culturale sardo tutt’altro che isolato e arretrato. Numerose riviste fiorivano in continuazione in quegli anni anche in Sardegna [10] (compresa quella “Donna sarda”, diretta da Maria Manca, su cui Andrea Pirodda scriveva usando come pseudonimo il nome della defunta madre, Maria Xanta). E c’era un fermento nazionale di iniziative che la stessa Deledda seguiva con attenzione, cogliendo poi al volo la proposta di Angelo De Gubernatis, promotore e direttore della “Rivista delle tradizioni popolari italiane” e di “Natura e Arte”, alla ricerca di collaboratori per coprire le diverse zone della Sardegna e raccogliere testi di narrativa popolare, oltre che tradizioni di vario tipo [11]. E Deledda, ponendosi lei stessa come capofila per l’Isola, scriverà ai direttori della rivista cagliaritana “Vita sarda” e coinvolgerà o cercherà di coinvolgere tanti altri tra i quali, per Sassari, Luigi Falchi e per la Gallura lo stesso Andrea Pirodda. Manderà poi Andrea a trovare il potente De Gubernatis con una lettera di presentazione, ma in questo epistolario subentra un quasi completo silenzio tra Grazia e Andrea nel 1894, con una sola lettera a lui indirizzata.
Come spiegarlo? La risposta sta nell’allargare lo sguardo ad altri epistolari deleddiani. In particolare, nel 1894, si sviluppa una corrispondenza sempre più evidentemente quasi amorosa tra Grazia e “il Conte” (così viene più volte designato da Grazia nelle lettere ad Andrea), cioè l’illustre studioso e docente universitario Angelo De Gubernatis, che sigillerà le lettere ricevute dalla scrittrice a partire dal 1° aprile 1894 in un pacchetto da aprirsi solo a 50 anni dalla sua morte, non senza aver confessato di essere stato preso da grande passione per questa fanciulla [12]. Ma si deve ricordare che già a novembre 1893 la scrittrice tentava di riprendere i contatti con Stanis Manca, di cui si era in precedenza invaghita e poi, forse anche per ingelosire De Gubernatis, durante il 1894 cercava di far maturare concretamente la proposta di fidanzamento venutale dal giovane poeta socialista calabrese Giovanni De Nava. Però poi riprenderà quello che era stato definito da De Gubernatis il «pietoso idillio Piroddiano», suscitando la reazione irritata di Grazia [13], che continua a parlare di Andrea con crescente nostalgia, finché non dichiara a De Gubernatis (il 10 marzo 1985) di essere tentata di riprendere a scrivergli guardando la penna che Andrea le ha regalato. Cosa che poi farà perché c’è una sua lettera del 6 aprile 1985 e, se per il 1895 rimangono solo cinque lettere indirizzate a Pirodda, la corrispondenza con lui diventerà più regolare e intensa negli anni successivi, come si è detto.
L’intreccio di missive a destinatari diversi, in cui spesso si parla agli uni degli altri, benché monco delle lettere da lei ricevute e di cui Deledda faceva periodici falò, è stato già abbondantemente studiato, almeno per il 1894 (Lavinio 2017 e 2019). Ma la pubblicazione di questo nuovo carteggio con Pirodda permette ancora una volta di insistere, come si è fatto da tempo in vari convegni e come fa ora il curatore del volume, sull’opportunità di costruire un grande corpus delle migliaia di lettere deleddiane disponendole in ordine cronologico a prescindere dalla differenza dei destinatari. La loro digitalizzazione e fruibilità in rete permetterebbe peraltro di costruire tale corpus in modo aperto a ulteriori inserimenti, dal momento che se ne potrebbero sicuramente trovare molte altre, scavando negli archivi di editori e testate, oltre che nel privato delle case di eredi di amici e conoscenti della scrittrice che, ogni tanto, capita di sentire affermare di possedere sue lettere inedite, custodite gelosamente.
Appare recente una giusta ripresa di attenzione e studi nei confronti di Grazia Deledda, unica donna che in Italia abbia conseguito il Nobel per la letteratura. Anche grazie a varie iniziative dell’ISRE [14], oltre che grazie ai vari convegni svoltisi nel 2021 in occasione dei 150 anni dalla sua nascita (Manca 2022), si è diventati sempre più consapevoli della straordinaria modernità di questa scrittrice che, con grande autodeterminazione e costanza, con una produzione narrativa di grande mole e con una notevole capacità manageriale ha praticato quello che sentiva il proprio ‘mestiere’, soddisfacendo una vocazione nutrita fin da piccola. A partire da un piccolo centro come la sua Nuoro (isola barbaricina nell’Isola, si può dire), Deledda ha poi raggiunto risultati impensabili per le donne scrittrici che, nella seconda metà dell’Ottocento e primo Novecento, cominciavano a farsi avanti nel mondo delle lettere, guardate con sospetto da tanti che si sentivano come spodestati in un ruolo che avevano sentito fino ad allora come quasi esclusivamente maschile. Ed erano donne che pretendevano di lavorare, di fare almeno le giornaliste, che si impegnavano in campagne socialmente importanti, che volevano il diritto di voto e la possibilità di divorziare. E Deledda era tra queste se, diventata amica di Sibilla Aleramo e Giovanni Cena, seguiva con interesse la loro iniziativa per l’alfabetizzazione nella campagna laziale; se, scrivendo Dopo il divorzio [15], creava un mondo narrato in cui una legge sul divorzio, per quanto parziale, era già stata approvata e se nel 1909 si candidava alle elezioni politiche nazionali per il collegio di Nuoro, nella lista dei radicali.
Nel suo autobiografico e postumo Cosima, Deledda ha ricostruito, benché in modo romanzato, il proprio percorso di formazione in Sardegna prima di salpare verso Roma, da lei sentita come la «Gerusalemme dell’arte» e centro pulsante della vita intellettuale e letteraria nazionale. Nel ricostruire tale percorso, l’autrice non trascura di citare anche le prime esperienze amorose, né dimentica quel lapidario «[mi sei sembrata] come una nana» che risuona nei suoi incubi e che Stanis Manca le avrebbe scritto dopo esserla andata a trovare per conoscerla, quando lei si illudeva che invece intendesse chiederla in sposa. Eppure in Cosima sembra non ci sia traccia alcuna di Andrea Pirodda: segno di una rimozione/cancellazione (da donna profondamente ferita?) di quel fidanzato con cui ancora nel 1897 e 1898 Grazia parlava ormai di date di nozze da fissare, pur rimandandole ora per motivi economici, ora per un corredo non ancora pronto, ora in attesa che il fratello Andrea finisse di scontare la propria pena. Ma è davvero così, di rimozione totale si tratta, oppure, leggendo in parallelo le lettere ad Andrea appena pubblicate e le pagine di Cosima in cui si parla di Antonino o di Fortunio, non si può sospettare che qualcosa della storia con Andrea si sia trasferita nella rappresentazione di questi primi amori giovanili? [16].
Comunque, tornando all’epistolario appena pubblicato, si capisce/intuisce alla fine che Andrea Pirodda, accampando anche lui vari pretesti (non ultimo il sospetto di avere una disfunzione che gli impedisse di poter consumare davvero il matrimonio) finisca, proprio lui, per tirarsi indietro… Grazia, in una decisione forse d’impeto, partì per Cagliari il 22 ottobre 1899 (dopo avere scritto ad Andrea un laconico «parto tra un’ora»). E sappiamo come finì: a Cagliari lei conobbe Palmiro Madesani e nel giro di pochissimo tempo, l’11 gennaio del 1900, se lo sposò. Mentre Andrea sposò, poco tempo dopo, nel medesimo anno, una sua alunna di Buggerru (una quattordicenne) dopo avere ottenuto la dispensa per il matrimonio. Ed è una storia di famiglia che i suoi nipoti ancora ricordano [17].
Altri punti d’interesse da approfondire
Sarebbe però riduttivo guardare a questo epistolario come al documento di una semplice storia d’amore infine interrottasi. Quanto alla scrittura deleddiana, su cui hanno pesato a lungo troppi pregiudizi, queste lettere confermano la grande facilità di scrittura, fluente ed efficace, della giovane donna. Vi compaiono, certo, alcuni sardismi: tra quelli più persistenti l’assenza di articolo di fronte ai possessivi (ad es., sistematicamente troviamo mie sorelle) e il ricorso ad avere anziché essere come ausiliare nei riflessivi e nei falsi riflessivi, come è normale nell’italiano regionale in Sardegna (almeno in area nuorese e logudorese) persino tra le persone colte (es.: mi avevo fatto due bluse: 81; non mi ho perduto di vederti: 396). Ma ci sono anche alcune incertezze o popolarismi, non regionalmente marcati, soprattutto per qualche congiuntivo o condizionale (si vedano i numerosi sii o abbi per sia o abbia come seconda persona del congiuntivo presente, oppure esempi come «se mi avresti amato non mi avresti neppure fatto parola dell’eroe»: 145). Espressioni come queste ultime in particolare sono spesso segnalate in nota con un sic da parte del curatore e, nell’insieme, sembrano emergere con una frequenza maggiore rispetto a quella reperibile nelle lettere coeve indirizzate ad altri. Ciò può essere dovuto alla tranquilla sicurezza di chi scrive così, senza troppe formalità e preoccupazioni di revisione, a chi la saprà comunque capire e giustificare se il caso.
E con Andrea la scrittrice difende anche le proprie scelte linguistiche, come quando leggiamo: «La parola azzurrità è uno dei tanti neologismi che il Pompeiano mi rimprovera e che sono invece di moda, assai usati, come tu stesso dici, dai migliori scrittori. Questa parola io mi pare d’averla trovata persino nel De Amicis» [18]. Mentre poi, nella medesima lettera, poco più avanti, si sfoga con lui denunciando con occhio già disincantato, come farà più volte, che «In letteratura si va avanti solo in forza di raccomandazioni e di favori reciproci». Quanto a lei, si fa passare per una ragazza «strana, artisticamente selvaggia» e perciò in continente hanno una «idea curiosa» di lei [19]. Passi del genere rivelano quanto fosse consapevole l’autoesotismo di cui si è spesso parlato in anni recenti in ambito critico; un autoesotismo che la scrittrice è riuscita a costruire e sfruttare al meglio e che ha determinato il suo grande successo di pubblico, specie grazie ai romanzi ambientati in Sardegna, producendo però una lunga e ingiustificata disattenzione per la sua narrativa meno esoticamente connotata.
Insomma, si aprirebbe a questo punto la possibilità di scavare meglio a proposito di un mondo critico ed editoriale in cui Deledda ha saputo muoversi con grande maestria. Con notevole pazienza, sarebbero da studiare e da approfondire, a integrazione di quanto già si sapeva della biografia umana e intellettuale della scrittrice, le notizie precise e in parte inedite ricavabili da questo carteggio, che rivelano ancora una volta una giovane donna orgogliosa e lontana dalle finte modestie, che ha un profilo di lettrice onnivora, che legge i classici ma è anche attentissima alle novità della produzione letteraria a lei contemporanea. Giudica e recensisce scrittori e poeti, si mostra precocemente infastidita dai critici che vogliono incasellarla in schemi che sente già come troppo stretti e difende orgogliosamente (come continuerà a fare negli anni della maturità) la propria grande autonomia di giudizio, di scelte letterarie e di pensiero che l’ha sottratta e la sottrae in modo piuttosto originale a qualunque -ismo (verismo, decadentismo…) con cui si sia cercato di definirla.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1] Solo una quindicina di lettere a Pirodda erano state pubblicate da Di Pilla 1966.
[2] Cui si aggiungono le due in Appendice, di cui non si è trovato l’originale, ma che erano tra quelle pubblicate da Di Pilla 1966.
[3] Si può aggiungere che in tale riordino è rimasta almeno una svista evidente, dal momento che la lettera n. 60 della raccolta è evidentemente antecedente alla n. 59, dato che le tre lettere di presentazione predisposte dalla scrittrice (per De Gubernatis, Boccafurni e Provaglio, che Andrea andrà a trovare a Roma) sono solo annunciate nella n. 60, mentre le si dice allegate alla n. 59.
[4] Maria Giacobbe (2010: 263) ricorda questa «rustica sottospecie nuorese di “critica letteraria”», in cui si giocava ad identificare con Tizio o Caio i personaggi della sua narrativa, per concludere che Grazia Deledda «aveva esagerato perché quelle cose [scandalose] a Nuoro non accadevano».
[5] Ora, rispettivamente, in Deledda 2007 e De Nava 2015, cui aggiungere quelle al giornalista della Triibuna e “duca dell’Asinara” Stanis Manca (Deledda 2010).
[6] Per esempio, a proposito della vicenda giudiziaria del fratello, sarà molto vaga persino con De Gubernatis, pur nella grande confidenza raggiunta con lui. Si limiterà ad accennargli (in una lettera del 1897) di un suo «stretto parente» ingiustamente condannato, per il quale vorrebbe essere aiutata a chiedere la grazia alla Regina (Deledda 2007: 351).
[7] «Mi piacerebbe star lontana da Nuoro, non dalla famiglia: perché Nuoro è un luogo il più disgraziato del mondo, dove l’invidia e l’egoismo e i pettegolezzi regnano sovrani» (lettera ad Andrea Pirodda del 18 aprile 1893: 237).
[8] «Così tu temi che io finisca con l’amare più l’arte e la celebrità che te, ed io ora ti dico: vuoi che infranga la mia penna, vuoi che distrugga tutti i miei sogni passati? Non hai che a pronunziare una parola e sarà fatto» (lettera ad Andrea Pirodda del 1° marzo 1893: 148). Però poco tempo dopo già corregge un po’: «Se potessi diventar subito tua moglie non scriverei più per dedicarmi tutta a te: ma finché tu mi sarai lontano, – come ti ho esposto nella mia ultima, – io continuerò a scrivere, anche dovessi perdere la salute» (lettera ad Andrea Pirodda del 9 aprile 1893: 221).
[9] Sono numeri che si ottengono sottraendo, in questo volume di complessive 739 pagine, quelle occupate dall’introduzione del curatore, dagli indici (compreso l’indice, utilissimo, dei nomi citati) e dalle bibliografie.
[10] Cfr. i numerosi studi in tal senso di Govanni Pirodda, molti dei quali ora raccolti in Pirodda 2022.
[11] Può suonare persino superfluo ricordare che da tali interessi demologici nascerà anche il volume di G. Deledda, Tradizioni popolari di Nuoro.
[12] «Questa mirabile fanciulla scriveva lettere stupende, affettuose, disinvolte, poetiche [e] si confidava a me, come io a lei. Ci siamo scritti come due innamorati, ma senza alcuna speranza d’incontrarci mai» (A. De Gubernatis, Presentazione di Grazia Deledda, ora in G. Deledda, 2007: XLIX – L).
[13] Nella lettera ad Angelo De Gubernatis del 30 febbraio 1894, quando gli dice di non tollerare che si ironizzi sulle sue passioni (Deledda 2007: 101).
[14] Cfr. i volumi curati da Collu 2019 e da Lavinio 2019.
[15] Romanzo pubblicato nel 1902 (da Roux e Viarengo, Torino) e tempestivamente tradotto in inglese, contribuendo ad accentuare la fama internazionale di Grazia Deledda.
[16] Antonino è Antonio Pau, uno studente amico di Andrea Deledda, mentre Fortunio è da tutti concordemente identificato con il giovane (figlio di un cancelliere e di una sua serva) Amico Cimino, dalle mal riposte ambizioni letterarie, che prende a scrivere lettere appassionate a Cosima. Abita nella stessa strada, passa e ripassa sotto la sua finestra, la raggiunge poi la sera nell’orto quando il fratello di Cosima non è in casa. A lui, dicendo di non averlo in realtà mai considerato, si riferisce Grazia nelle lettere a Pirodda, chiamandolo “l’eroe” e sospettandolo di diffondere malignità sul suo conto oltre che di essere riuscito a fare sparire qualche lettera scrittale da Andrea.
[17] Cfr. anche Ciusa 2016: 41.
[18] Lettera ad Andrea Pirodda del 5 aprile 1893: 207. Luigi Pompeiano, direttore di alcune riviste tra cui “Vita sarda”, aveva evidentemente scritto a proposito di Deledda muovendole la critica qui evocata.
[19] Lettera ad Andrea Pirodda dell’11 maggio 1893: 288.
Riferimenti bibliografici
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De Nava L., 2015, La quercia e la rosa. Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe, Il Maestrale, Nuoro.
G. Deledda, 2007, Lettere ad Angelo de Gubernatis (1892-1909), a cura di Roberta Masini, Centro di Studi Filologici Sardi / CUEC, Cagliari.
G. Deledda, 2010, Amore lontano. Lettere al gigante biondo (1891-1909), a cura di Anna Folli, Feltrinelli, Milano.
F. Di Pilla (a cura di) 1966, Grazia Deledda. Premio Nobel per la letteratura 1926, Fabbri, Milano.
M. Giacobbe, 2010, “Grazia Deledda a San Pietro”, in M. Farnetti, a cura di, Chi ha paura di Grazia Deledda?, Albano Laziale-Roma: Jacobelli: 257-265.
C. Lavinio, 2017, Incroci epistolari tra realtà e finzione. Grazia Deledda nel 1894 (e oltre), in M. Gargiulo (a cura di), Incroci. Luoghi della creatività e reti della comunicazione, Aracne, Roma: 57-85;
C. Lavinio, 2019, Epistolari deleddiani: un esercizio di scrittura tra realtà e finzione, in U. Collu (a cura di): 91-107.
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D. Manca (a cura di), 2022, “Sento tutta la modernità della vita”. Attualità di Grazia Deledda a 150 anni dalla nascita. Tre volumi [con gli atti, rispettivamente, del convegno di Cagliari, di Sassari e di Nuoro],. Nuoro-Cagliari, ISRE – AIPSA.
G. Pirodda, 2022, Specchiate sembianze. Studi di letteratura sarda, a cura di A. Cannas, D. Caocci e P. Mura, Cagliari, UnicaPress. (https://ojs.unica.it/index.php/medea/article/view/5129)
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Cristina Lavinio, già ordinaria di Linguistica educativa all’Università di Cagliari, ora in pensione, è responsabile per l’italiano del polo della Sardegna, nell’ambito del progetto nazionale promosso dall’Accademia dei Lincei “I Lincei per una nuova didattica nella scuola”. Fa parte della giuria del Premio Tullio De Mauro (sezione del Premio nazionale “Salva la tua lingua locale”). È stata segretaria nazionale del GISCEL (Gruppo di Intervento e di Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica) e si è sempre occupata anche di formazione degli insegnanti e di educazione linguistica. Le sue numerose pubblicazioni vertono su temi di linguistica del testo, di linguistica italiana e sociolinguistica, riguardano le varietà della lingua, la comunicazione orale e scritta, generi narrativi di tradizione orale e popolare, lingua e stile di numerosi scrittori sardi, tra i quali Grazia Deledda Si ricordano qui il volume Narrare un’isola. Lingua e stile di scrittori sardi (Bulzoni 1991), la cura di Bestiario. Novelle scelte di Grazia Deledda (Demos,1994) o quella di Oralità narrativa, cultura popolare e arte. Grazia Deledda e Dario Fo (ISRE-AIPSA 2019), oltre a vari altri saggi su atti di convegni deleddiani, fino a un contributo sulle prime attestazioni e il persistere di vari luoghi comuni a proposito della scrittrice (in corso di stampa su “Italica Wratislaviensia”).
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