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Guardare il “vuoto” dall’interno. Contributo a un dibattito su denatalità e spopolamento

da La Lettura, 3 febbrio 2025

da La Lettura, 12 novembre 2024

di Felice Tiragallo 

Domenica 12 novembre 2024 nell’inserto domenicale “La Lettura” del “Corriere della Sera” è apparso un articolo del demografo Roberto Volpi dal titolo Vuoto Sardegna. L’isola senza figli. Si tratta di un’allarmata presa di coscienza demografica su un’anomalia riproduttiva che colloca proprio nell’isola mediterranea l’epicentro di una tendenza generale in Europa alla denatalità.

Il punto, secondo Volpi, è che le classiche politiche di incentivazione alla natalità (sgravi fiscali alle famiglie numerose, contribuzioni dirette mediante assegni familiari e altri incentivi come facilitazioni in accesso agli asili nido, ecc.) alla lunga si sono dimostrate, almeno in Europa, inefficaci, pur avendo contribuito, nell’ultimo decennio, a tenere relativamente alto il tasso riproduttivo nei Paesi UE più attrezzati.

Per Volpi il nodo problematico di fondo è rappresentato dalla famiglia. Quella basata «sulla coppia uomo-donna uniti in matrimonio e con la prospettiva dei figli» (Volpi 2024: 11). In Italia a proposito c’è un caso di scuola: la Sardegna, l’area geografica al mondo, insieme alla Corea del Sud, col più basso numero medio di figli per donna: nel 2023, 0,9 figli in media per donna. Si tratta di un primato negativo che si collega con altri tre: 1) il tasso di nuzialità più basso; 2) le spose con la più alta età al matrimonio; 3) le famiglie meno numerose. Da qui in poi Volpi si addentra nell’analisi statistico-demografica. Nel 2022 ci sono stati solo 2,7 nati ogni 100 abitanti, contro una media italiana di 3,2, ed europea di 4,3. La sposa arriva al matrimonio a 35 anni, l’uomo a 38: primato europeo e mondiale assoluto.

Come si fa in queste condizioni a mettere al mondo almeno due figli? Ogni famiglia, in media, ha in Sardegna 2,15 componenti (in Italia 2,25). Il dato è allarmante e la preoccupazione di Volpi è anche denunciare il disinteresse, l’indifferenza con cui il dato è accolto dall’opinione pubblica, anche locale (visto che il tema della denatalità non è apparso, come area specifica di intervento, nel programma di governo della coalizione vincitrice nelle elezioni regionali del febbraio 2024).

Per Volpi questi dati non lasciano alcuno spazio neanche al più vago ottimismo. Altri indici sono egualmente “devastanti”: a) il tracollo nella fecondità è uniforme e riguarda tutto il territorio isolano, senza eccezioni; b) anche le donne straniere residenti hanno tassi di fecondità bassissimi: 1,3 figli in media. Ultima considerazione: in Sardegna nel 2022 ci sono stati 2.096 laureati e 3.336 laureate. Volpi intravvede, su questa base, un “ritardo quasi antropologico” dei maschi dalle femmine isolane. Un distacco più abissale dal resto d’Italia, che va letto così: per 100 maschi laureati ci sono 59 laureate che non hanno un corrispondente “potenziale” partner. “Con chi dovrei sposarmi?”

fertility-gap_-il-vero-tema_page-0001Domenica 1° dicembre 2024 Eleonora Voltolina, sempre su “La Lettura” risponde a Roberto Volpi, con un articolo, Fertility gap: il vero tema, che è seguito in calce da una replica di Volpi, Ma pesa il calo dei matrimoni. Voltolina, giornalista e imprenditrice sociale, mette in discussione la questione stessa sollevata da Volpi. Il vero problema è che (in Sardegna) nascono pochi figli? O non è piuttosto che ci nascono meno figli di quelli che si desidererebbe avere?

L’autrice contesta la rilevanza attuale del rapporto fra numero di matrimoni e numero di figli. Anche in Sardegna si formano coppie che decidono o meno di procreare indipendentemente dal matrimonio. Si contesta che il fatto di non fare figli sia per sé negativo. Prima di tutto viene la tutela della piena libertà di fare figli, scelta che deve essere libera e consapevole. Da non fare solo per obbedienza a un a tradizione o per scongiurare lo spopolamento del territorio. Quello che deve preoccupare è il gap fra i figli desiderati e i figli che è possibile avere, il fertility gap.

Ci vogliono politiche che permettano alle persone di realizzare il proprio progetto di famiglia. E qui si passa, per Voltolina, alle considerazioni di contesto. La Sardegna è depressa economicamente. quindi buona parte dei giovani si trasferisce altrove nella ricerca del lavoro, trasferendo anche la sua potenzialità riproduttiva. Le donne immigrate non riescono a progettare una famiglia numerosa. Inoltre, c’è l’aumento complessivo dell’infertilità e la mancanza (almeno in Sardegna) di presidi per la procreazione assistita. Poi, riguardo allo squilibrio nei titoli di studio, Voltolina afferma che più che il pericolo di avere un partner con un titolo di studio inferiore, gioca per le donne (laureate) la previsione della gravosità dei loro compiti e delle loro vite in caso di maternità, sapendo di non poter spartire al 50 e 50 col partner le responsabilità di cura (Voltolina 2024, p. 13).

Il problema per Voltolina è che, piuttosto che usare toni di allarmismo che generano una percezione ansiogena della situazione, occorre concentrare l’attenzione su provvedimenti capaci di ridurre il gap di genere: parità dentro la coppia, congedi di maternità e di paternità paritari, diminuire la penalizzazione della donna nel mondo del lavoro, ecc. Da notare che Voltolina non fa cenno alla specifica realtà della Sardegna; la sua è una risposta generale. Le condizioni per supportare le persone che desiderano figli sono mutate. La politica e la narrazione pubblica si adeguino, conclude.

La controrisposta di Volpi è tranchant: se il principale argomento di confutazione del mio discorso è che anche in Sardegna c’è minore propensione alle nozze e i figli li fa anche chi non si sposa, allora – dice Volpi – stiamo freschi. Per il demografo è invece il matrimonio l’istituzione che assicura la maggiore garanzia di durata e di stabilità di un contesto adatto ad accogliere figli. L’indice di correlazione fra tasso di nuzialità e tasso di natalità è altissimo. In Italia il crollo del matrimonio religioso è stato fatale per le nascite. Nessuno – puntualizza Volpi – dice che i figli si devono fare anche se non li si desidera. Ma è incomprensibile non avere nulla da dire «su un tasso di fecondità da sprofondo e sul silenzio tombale di un’intera classe dirigente regionale al riguardo». In ciò Volpi mostra di non tenere conto del dibattito ormai pluridecennale sullo spopolamento che anima – sia pure a intermittenza –la politica regionale, e conclude: «Ma quella della Sardegna è, a tutti gli effetti, una fuga a precipizio verso il niente».

«Una fuga a precipizio verso il niente?». Le conclusioni di Roberto Volpi risuonano come una previsione infausta che coinvolge tutti. Questo breve dibattito mette in luce, infatti, più che un problema, una condizione di vita comune a molte aree dell’Europa continentale e insulare. I dati statistici evocati da Volpi e le considerazioni sulle politiche di genere proposte da Voltolina appaiono come segnali di una realtà che è dentro di noi, in molti di noi, ad esempio in Sardegna, dove gli indizi di un evidente impoverimento umano si estendono dalle cosiddette zone interne a tante realtà ormai costiere e urbane, dove i vuoti di vita economica, evidenti in tante strade prima trafficate, alludono a vuoti sociali che si capisce non saranno colmati dalle nuove generazioni, ridotte e spesso orientate altrove.

I ricercatori che come me hanno provato a interpretare lo spopolamento rurale nella dimensione antropologico-culturale possono ricevere dalla lettura degli interventi ospitati in “La Lettura” del Corriere della Sera del 17 novembre 2024, impressioni contrastanti, non coincidenti con la dialettica che essi esprimono.

Da un lato le parole di Volpi sono una fondatissima sirena di allarme su un disastro imminente e annunciato. Siamo un Titanic lanciato verso l’iceberg del tracollo demografico e solo una mobilitazione delle coscienze (e anche dei corpi!)  può scongiurarlo. Come rispondere altrimenti? Volpi implica che da sole le politiche di sostegno alla natalità non bastano. Occorrerebbe, se ho bene inteso, che a prescindere dalle opinioni, dalle scelte personali e dagli stili di vita radicati in ciascuno si imponesse una sorta di cambiamento culturale di fondo verso la nuzialità riproduttiva come primario impegno civile, un imprinting da consegnare alle nuove generazioni. Si tratta di modelli culturali che oggi è più facile trovare in comunità umane ispirate da una forte intenzionalità solidaristica di tipo religioso o confessionale, propri di elaborazioni complesse della minaccia di distruzione (molti esempi si possono trovare, oggi, nel Medio Oriente).

Eleonora Voltolina, d’altro canto, pur nella genericità delle sue argomentazioni (di fatto non si riferisce mai al caso sardo), ci ricorda che da molti punti di vista è sterile, se non vano, distaccare la mera dimensione del comportamento riproduttivo dal quadro più complesso e inesorabilmente articolato – in senso culturale – degli atteggiamenti di scelta della maternità e dei progetti di vita che vi si legano. Mettendo così nel giusto rilievo il grande tema del mutamento sociale delle donne e della loro posizione nelle società complesse.

Mi sono chiesto quali siano stati i casi concreti in cui in Sardegna io, come antropologo, abbia incontrato questa crisi di volontà progettuale riproduttiva. E mi sono venute in mente delle situazioni in cui ogni volta la crisi era il risultato del tramonto, o dell’indebolimento di un quadro di identità e di distinzione sociale prima saldo.

Faccio tre esempi.

Fotogramma da Tempus de Baristas, di Mac Dougali, 1993

Fotogramma da Tempus de Baristas, di Mac Dougali, 1993

Nel primo, il cineasta e antropologo statunitense David MacDougall realizza a Urzulei nel 1993 un film documentario, Tempus de Baristas. Time of the Barmen, che tratta della vita e dei problemi di tre allevatori di capre [1]. Uno di essi, Mimìnu (Domenico), di circa 40 anni, è un pastore celibe. Mentre la cinecamera lo segue nella vita quotidiana emerge la sua indole pacifica e sensibile, la sua dedizione al lavoro con gli animali, l’empatia e la sagacia nel condurli e nel proteggerli. Ma una amara confessione, colta dal cineasta con attenzione e delicatezza, dice anche che Mimìnu non trova una donna che ne condivida il progetto di vita. Negli anni ’90, nel paese dell’Ogliastra sembra non ci siano più delle donne che si identifichino nel modello tradizionale di famiglia, in cui l’allevatore è pendolare fra campagna solitaria e paese e la moglie sopporta il carico di tutta la vita domestica e sociale del gruppo familiare. Il vuoto che si crea è quindi, prima di tutto, all’intero del modello culturale che si credeva ancora condiviso.

Fotogramma da Armungia, La foto del paese, 2000 (ph. Felice Tiragallo)

Fotogramma da Armungia. La foto del paese, 2000 (ph. Felice Tiragallo)

Il secondo esempio chiama in causa il mio lavoro di ricerca ad Armungia, piccolo centro di 400 abitanti nel Gerrei, regione storica poco più a sud di Urzulei. In questo paese – fra la fine anni ‘90 e l’inizio 2000 – ho cercato di mettere in luce quali fossero le condizioni in cui i suoi abitanti organizzavano la loro vita quotidiana e producevano un immaginario specifico del loro essere un centro “in spopolamento” [2].

Rispetto alla Urzulei di MacDougall alcuni elementi si confermavano e altri si aggiungevano. I dati elaborati sugli atti matrimoniali registrati all’ufficio anagrafico comunale dal 1946 confermavano la straordinaria conversione materiale, culturale e valoriale del mondo femminile armungese. Gli isolati matrimoniali erano esplosi. Le ragazze già a metà anni ‘60 si formavano e si sposavano spesso fuori del paese. L’accesso alle scuole superiori e al lavoro si collegava ora a una prevalente esogamia, e compariva quindi una moderna progettualità femminile lontana dal modello della famiglia rurale. Alla base di tutto ciò stava il fatto che l’ondata migratoria dei primi anni ‘60 aveva spazzato via radicalmente l’equilibrio tradizionale dato dalla copresenza fra agricoltori e allevatori. Le ragazze di Urzulei che rifiutavano il modello di mogli di pastori, quelle di Armungia che l’emigrazione portava lontano dai precedenti isolati matrimoniali di una sub-regione appartata appaiono quindi le antesignane di quella successiva schiera di laureate evocate da Roberto Volpi che, a loro volta, non trovano i loro partner per un progetto di natalità.

Lula, dalla ricerca di S. Latiani Per Bette agreste

Monte Ortobene, dalla ricerca di S. Latiani Per Bette agreste

Il terzo caso etnografico che propongo lo devo a Susanna Latini, una giovane ricercatrice impegnata oggi in un percorso dottorale che seguo come tutor, e che si è laureata con una brillante tesi sugli attuali paesaggi pastorali della Barbagia [3]. Questa indagine ha rivelato la presenza nel territorio di attori sociali nuovi. Si tratta di giovani conduttori e conduttrici di aziende di allevamento spesso impegnati nello sviluppo di progetti di vita intenzionali, in cui l’allevamento, la qualità della produzione, l’alta sensibilità ecologica e spesso dei livelli di formazione scolastica di livello universitario, conducono a modi inediti di stare nel territorio. Sono esperienze in cui si arriva alla costituzione dell’azienda e della famiglia dopo percorsi di vita spesi anche in ambito urbano e conclusi spesso con dei ritorni, che indicano la necessità di considerare l’aspetto diasporico, pendolare, a volte virtuale delle comunità delle aree interne, che esistono comunque, anche grazie a internet, ai social network, a reti costanti di contatto digitale, malgrado la loro vita sociale non corrisponda più soltanto con la presenza nel territorio dei loro componenti.

Fotogramma da Armungia, La foto del paese, 2000 (ph. Felice Tiragallo)

Fotogramma da Armungia,. La foto del paese, 2000 (ph. Felice Tiragallo)

Visto quindi dalla mia prospettiva il problema della denatalità in aree come la Sardegna entra in una scala forse più ravvicinata che non smentisce affatto l’eloquenza della statistica, ma richiede di includere nell’attenzione pubblica un diverso linguaggio, in cui il “vuoto” demografico si articola paradossalmente in fermenti di azione sociale che hanno un legame col territorio e con le persone che ad esso si riferiscono e che sono in parte inediti. Si tratta della vitalità che da anni anche questa rivista e la sua sezione permanente, Il centro in periferia, coordinata da Pietro Clemente, si sforza di monitorare e di interpretare.  

La conclusione, alla luce di queste esperienze, è che il vivere con la coscienza dell’allarme sociale la condizione di spopolamento non può far rinunciare a vederlo legato anche a un problema culturale, alla definizione di modelli nuovi, ancora in formazione, capaci di dare carne e sangue al proposito di “restare paese”. Malgrado tutto, non conosciamo ancora il nome della nave in cui siamo a bordo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025 
Note
[1] Tempus de Baristas, 1993, David MacDougall, Istituto Superiore Regionale Etnografico, Fieldwork Films, BBC Television (Italia, Australia, Gran Bretagna), 100 min. 
[2] Felice Tiragallo, Restare paese. Per un’etnografia dello spopolamento in Sardegna, Cagliari, CUEC, 2009.
[3] Susanna Latini, Bette agreste. Antropologia del paesaggio e tutela del territorio fra i caprari della provincia di Nuoro, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari di Venezia, a. a. 2020-21.

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Felice Tiragallo,  professore associato di discipline demo-etnoantropologiche presso l’Università degli Studi di Cagliari, si occupa di mutamento culturale, di antropologia visuale e di cultura materiale. Dirige, presso l’Ateneo di Cagliari, il Laboratorio di Etnografia Visiva. Fra i suoi testi: Restare paese (2005), Visioni intenzionali (2013) e Max Leopold Wagner fotografo. La Sardegna oltre il linguaggio (2018).

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