di Concetta Garofalo
Uno dei più significativi paradossi dell’epoca contemporanea diventa sempre più evidente: ai processi di globalizzazione internazionale, ormai avviata da decenni, fa da contrappunto lo slegamento dei microsistemi culturali rispetto alle macrostrutture di organizzazione sociale e politica. L’agency individuale perde performatività nei confronti dell’azione sociale collettiva sempre più irrimediabilmente compromessa da interventi unilaterali imposti secondo una logica utilitaristica e impersonale, addirittura, transnazionale. Progressivamente si riduce il potere d’intervento sociale individuale con ripercussioni sul sistema personale di aspettative. Tale fenomeno sociale concorre a determinare a livello simbolico culturale la percezione di impotenza e l’elaborazione collettiva di schemi comportamentali efficaci soltanto entro limitati micro-sistemi di appartenenza (nucleo familiare, contesti urbani e suburbani, associazioni e club, forme di aggregazione fra pari formali e informali). Assistiamo, inoltre, al ritorno di rinnovate forme di isolamento culturale, nazionalismi, estremismi e fanatismi ai quali fa da contrappunto uno dei rischi più alti per la società civile moderna: l’indifferenza.
L’indifferenza predomina sulla compartecipazione e sull’azione performativa. Allora, quali punti di vista disciplinari prevalgono nell’analisi delle molteplici e contraddittorie configurazioni dell’istanza individuale che emergono in riferimento alle tensioni sociali e all’andirivieni fra microsistemi e macrosistemi? Ogni sistema culturale e sociale ha una struttura (discorsiva e non-discorsiva) articolata al suo interno su diversi livelli – figurativo di superficie e generativo profondo – e dotata di una morfologia e di una sintassi fra le quali si coniuga la relazione fra modello, mise en forme e prassi, fra essere e fare, fra individuo e collettività, fra produzione e ricezione, fra ricezione e produzione. Fra l’istanza interiore e la dimensione sociale sussiste una semiosfera di confine porosa attraversata da continui, perlopiù inconsapevoli, flussi di informazione in entrata e in uscita. È la dimensione nella quale si definiscono i complessi processi che, in psicologia, vengono definiti autostima, autoefficacia, alto funzionamento, percezione del sé, credenze e stili attributivi. Processi che diventano istanza interiore e soggettiva e che ri-attraversano il confine sotto forma di azioni e schemi comportamentali. La semiosfera di cui parlo ha un carattere di divenire e trasformazione, è una dimensione di potenziale sociale, uno “spazio” evolutivo di “sviluppo prossimale”, che permette all’istanza interiore di rendersi manifesta sotto forma di azioni nello spazio in un tempo dato. Lo spazio fisico è la dimensione nella quale rispetto ad un tempo storico si traduce tale passaggio.
Applicare come metodologia di analisi e descrizione la spazializzazione delle dinamiche sociali mette in evidenza il carattere relazionale delle posizioni dei soggetti-agenti e attua il principio di differenziazione nel processo di costruzione delle disposizioni e delle rappresentazioni generatrici delle pratiche sia individuali sia collettive. A tal proposito propongo alcuni accenni alla teoria della pratica di Bourdieu, per riflettere sulla questione da un punto di vista più specificamente sociologico; infatti, strettamente correlata è la questione, più in generale, della conoscenza teorica dei fatti sociali presi ad “oggetti culturali”.
Il soggetto-agente, variamente citato come individuo organico, individuo biologico, persona sociale, persona fisica, trova collocazione all’interno di uno spazio sociale strutturato. Per l’individuo-agente, il passaggio da persona fisica a persona sociale non avviene in maniera intenzionale e consapevole, ma attraverso processi strutturanti di attribuzione delle disposizioni degli habitus collettivi (classe, famiglia, istituzioni), quali ad esempio l’attribuzione del nome proprio, l’omogamia, l’accesso condizionato a beni, servizi e capitali nell’ambito della stessa classe sociale di appartenenza. Sembra quasi di assistere a un processo di auto-conservazione del sistema sociale mediante l’attuarsi nelle azioni, individuali e collettive, dei rapporti dialettici fra produzione, riproduzione e conservazione dell’habitus, nel tempo e nello spazio, di generazione in generazione. Bourdieu propone la “teoria della pratica” come via per superare le posizioni antitetiche del soggettivismo e dell’oggettivismo, ricorrendo ad una modalità di “conoscenza prassiologica”. Bisogna, cioè, dirigere la conoscenza dei sistemi sociali sul modus operandi e recuperare la valenza di verità delle azioni attraverso un approccio relazionale. Nel tentativo di superare il privilegio accordato alla struttura e quindi l’interpretazione del mondo sociale come realtà pre-costituita dagli individui che si muovono all’interno di sistemi simbolici, Bourdieu non ricade nella supremazia concessa all’autonomia del soggetto.
Nel sistema teorico di Bourdieu, pur essendo riconosciuta centralità alle azioni e alle pratiche, nella dialettica fra struttura e individuo, quest’ultimo perde attribuzione di agentività. Nei sistemi sociali, è il passato agito che diviene agente nel presente e che si proietta nel futuro, attribuendo coerenza e continuità alle pratiche, attraverso le cosiddette “strutture strutturate e strutturanti” dell’habitus; essi sono principi generatori di pratiche intese come schemi di percezione, pensiero e azione. Quindi, si potrebbe sintetizzare, utilizzando ancora la terminologia di Bourdieu, che l’habitus è il prodotto della “storia incorporata” e, in quanto tale, attribuisce oggettività (e regolarità) alle pratiche, le quali vengono sottratte alla contingenza del presente e acquistano coerenza nel senso comune. L’habitus trascende l’individuo. Esso produce azioni e rappresentazioni a prescindere dall’intenzionalità, dalla coscienza, dalla progettualità. L’autonomia delle pratiche, viene spiegata come segue:
«L’habitus è una capacità infinita di generare in tutta libertà (controllata) dei prodotti – pensieri, percezioni, espressioni, azioni – che hanno sempre per limite le condizioni storicamente e socialmente situate della sua produzione, la libertà condizionata e condizionale che esso assicura è lontana da una creazione di imprevedibile novità tanto quanto da una semplice riproduzione meccanica dei condizionamenti iniziali» (Bourdieu, 2005: 88).
L’individuo biologico agisce all’interno di disposizioni di esistenza, regolate da schemi e rappresentazioni strutturanti che, a diversi livelli di organizzazione sociale, assumono, anche, una dimensione collettiva nei concetti di classe, famiglia, istituzioni, ecc. Le azioni, individuali e collettive, acquistano validità sociale solo se intelligibili secondo un sistema di condivisione e riconoscimento. Gli habitus, sia individuali che collettivi, assumono una validità sociale percepita come naturale in virtù del processo di incorporazione che avviene nel tempo della storia. Allora, in questo tipo di analisi dei sistemi sociali, è insito il rischio estremo di considerare gli individui biologici come “entità interscambiabili” a prescindere dalle strutture sociali. E di questo Bourdieu è consapevole e affronta la questione introducendo i concetti di «variante strutturale» e di « traiettorie sociali». Le esperienze individuali sono traiettorie sociali, hic et nunc, inquadrate in un sistema di omologia nel quale la differenza rafforza la coerenza oggettivata e unificante delle rappresentazioni e degli schemi dell’habitus di classe. Nelle sue ricerche Bourdieu spiega che
«L’evoluzione delle società tende a far emergere degli universi (che io chiamo campi) autonomi e dotati di leggi proprie. […]. Ogni campo, producendosi, produce una forma di interesse che, dal punto di vista di un altro campo, può sembrare disinteresse» (Bourdieu, 2009: 142).
Detto questo, approfondisco il mio ragionamento seguendo, per il momento, un cambiamento di prospettiva. Le tematiche qui trattate sono particolarmente centrali anche nel pensiero filosofico di Foucault, il quale costruisce la sua analisi dei cosiddetti “dispositivi” delineando con questo termine:
«[…] un insieme decisamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, sistemazioni architettoniche, decisioni regolamentari, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, insomma un detto ma anche un non-detto, son questi gli elementi del dispositivo. Il dispositivo è quindi la rete che si può stabilire fra questi elementi» (Foucault, 2005: 25).
Il riscontro con Bourdieu mi sembra evidente. Tale rete è «[…] una sorta di formazione la cui principale funzione, a un dato momento storico, è stata quella di rispondere a un’urgenza. Il dispositivo ha dunque una predominante funzione strategica» (Foucault, 2005: 26). Sottolineando questo aspetto strategico, Agamben nel suo lavoro di ripresa dei dispositivi foucaltiani ne amplia utilmente la portata della definizione:
«non soltanto, quindi, le prigioni, i manicomi, il Panopticon, le scuole, la confessione, le fabbriche, le discipline, le misure giuridiche, ecc., la cui connessione col potere è in un certo senso evidente, ma anche la penna, la scrittura, la letteratura, la filosofia, l’agricoltura, la sigaretta, la navigazione, i computers, i telefoni cellulari e – perché no – il linguaggio stesso, che è forse il più antico dei dispositivi» (Agamben, 2006: 22).
Il concetto di rete ricopre fondamentale importanza per spiegare le dinamiche di indentizzazione del Sé che avvengono nel passaggio dall’istanza-soggetto alle indivi- dualità plurime. L’aspetto della questione che ho intenzione di mettere, qui, maggiormente in evidenza è la “natura strategica” dei dispositivi analizzati da Foucault:
«[…] questo presuppone che si tratti di una certa manipolazione di rapporti di forza, di un intervento razionale e ben concertato in questi rapporti di forza, sia per svilupparli in una certa direzione, sia per bloccarli o stabilizzarli, utilizzarli, e via dicendo. Quindi il dispositivo è sempre inscritto in un giuoco di potere, ma sempre legato anche a una o più pietre miliari del sapere, che da esso nascono pur condizionandolo» (Foucault, 2005: 27).
Nell’intervista pubblicata in Le jeu, Foucault afferma proprio che per costruire una teoria del potere sia indispensabile definire dei concetti utili a spiegare i rapporti performativi e reciproci fra le “grandi strategie di potere” e le “condizioni di microrelazioni di potere” e, quindi, come dicevo prima, a studiare i rapporti di imposizione e assoggettamento e le molteplici configurazioni di innovazione e cambiamento fra macrosistemi e microsistemi sociali. Rispetto a quanto detto finora, credo che l’affermazione di Agamben, a proposito della relazione “corpo a corpo” fra dispositivi e “viventi”, potrebbe, erroneamente, scaturire nella descrizione analitica di un percorso di soggettivazione unilineare fra soggetto e dispositivo:
«Uno stesso individuo, una stessa sostanza, può essere il luogo di molteplici processi di soggettivazione: l’utilizzo di telefoni cellulari, il navigatore in internet, lo scrittore di racconti, l’appassionato di tango, il no-global, ecc. Alla crescita sterminata dei dispositivi nel nostro tempo, fa così riscontro una altrettanto sterminata proliferazione di processi di soggettivazione» (Agamben, 2006: 23).
Invece, le mie riflessioni non si muovono nella direzione di un rinnovato ed esasperato soggettivismo, piuttosto pongono l’accento sulle dinamiche dialogiche strettamente connesse. A mio avviso, nell’era contemporanea, l’istanza individuale si configura nel dialogo sistemico-relazionale fra i molteplici dispositivi nei quali si inscrive l’agire del soggetto. In tal senso si rafforza l’idea di rete di dispositivi e delle sue potenzialità di creatività. Il processo di soggettivazione sottende la molteplicità di atti creativi. Questo processo poietico assume la direzione di ritorno performativo sul sistema di dispositivi interagenti. Le linee di forza, quindi, sono manifestazione delle inevitabili tensioni fra un sapere, sociale e collettivo, e le individualità plurime e complesse. Come, del resto, sottolinea Deleuze:
«Sciogliere la matassa delle linee di un dispositivo significa ogni volta tracciare una carta, cartografare, misurare terre sconosciute; e questo è ciò che Foucault chiama la “ricerca sul campo”. Bisogna disporsi su quelle linee che non soltanto formano un dispositivo, ma l’attraversano e lo spostano da nord a sud, da est a ovest o in diagonale» (Deleuze, 2010: 12).
Da queste riflessioni a confronto emerge, dunque, che, in un percorso-modello permesso da un’idea di dispositivo acefalo (come intuita da Redaelli, 2011) che funge da incipit e, allo stesso tempo, da scenario e condicio sine qua non della traiettoria assoggettamento/emancipazione del soggetto/riassoggettamento, i processi di soggettivazione costituiscono linee di fuga e di “frattura” costruttive di configurazioni di senso che rispondono ai bisogni sociali inerenti sia la dimensione individuale che collettiva. Di conseguenza, la “gestione” dei processi ritorna centrato nelle “mani” dell’istanza-soggetto ma è doveroso chiedersi in qual misura ed entità esso, in quanto individuo storicamente e geograficamente situato, ne sia consapevole.
Detto in altri termini e semplificando un po’, qual è il “fardello” che ogni individuo porta sulle proprie “spalle” e che riceve nel passaggio di consegna inter- generazionale? I sistemi sociali nelle proprie strutture microsistemiche creano al proprio interno le zone interazionali di sovrapposizione generazionale nelle quali agiscono simultaneamente diverse generazioni di individui, più o meno lontane anagraficamente. Ciò comporta quello che, in una delle numerose accezioni possibili, definiamo “dialogo intergenerazionale” e, dunque, un processo relazionale che si esprime agentivamente sia sull’asse paradigmatico sia sull’asse sintagmatico di ogni ciclo vitale di un sistema politico-sociale. In tal senso, queste zone di sovrapposizione non vanno sicuramente interpretate come istanze di continuità piuttosto proprio come cortocircuiti generazionali. Da un punto di vista specifico antropologico, non bisogna sottovalutare il fatto che nel concetto di dialogo intergenerazionale sono implicite le complesse dinamiche di dialogo interculturale e di investimento semantico e simbolico di valori che vanno ridefiniti e ribaditi, insegnati e spiegati, tramandati e perseguiti. In poche parole, oggi cosa vuol dire educare insegnando e insegnare educando al senso di cittadinanza attiva?
Le figure di riferimento e i ruoli di orientamento, educazione e formazione non sono “evaporate”, destrutturate o, addirittura, “scomparse”; da un punto di vista specificamente antropologico e sociologico, le molteplici configurazioni dei ruoli sono cambiate come, similmente, cambia nel tempo generazionale ogni evento ascrivibile a fenomeno sociale e culturale storicamente e geograficamente inscrivibile. Bisogna saper leggere (e interpretare) il cambiamento. È diffusamente noto che le culture occidentali provengono da un sistema culturale, poco lontano nel tempo, che tramandava o che, comunque, educava tramandando. Il lungo percorso degli studi e delle riflessioni compiuto in campo sociologico e pedagogico ha determinato una progressiva, ma netta, differenziazione fra XX e XXI secolo. Rispetto alla traiettoria insegnamento-apprendimento a senso unico secondo un’enunciazione trasmissiva e “cumulativa” dei saperi, il sistema occidentale odierno segue un percorso di cambiamento in funzione dell’individuazione di modificati bisogni formativi sociali. A tal proposito, riprendo un aspetto molto importante nell’analisi dei dispositivi, ricordando che, secondo Foucault, essi nascono dall’urgenza di un bisogno. Il dispositivo che presuppone un processo di soggettivazione implica l’attivazione di un sistema complesso di compétence.
Nei contesti sociali contemporanei, la performance non esaurisce in sé la competenza e la competenza non esula da un processo di insegnamento-apprendimento coevolutivo ed educante. Oggi il perseguire l’apprendimento di competenze (sociali e culturali) configura un percorso a più direzioni. Insegnare implica l’apprendere il sapere attraverso il sapere. Apprendere è agire facendo riferimento ad un sistema complesso di “enciclopedia” individuale e collettiva e ciò implica “tenere a portata di mano” un sapere enciclopedico non inteso in senso di “summa” di conoscenze e contenuti ma inteso traendo ispirazione dalla feconda accezione teoricamente fondata da Eco nel Trattato di semiotica generale (Eco, 1988: 143 e sgg.). Quindi, presupponiamo un sistema di conoscenze relate afferenti la dimensione ontologica e pragmatica dell’esperienza e delle sue molteplici modalità di rappresentazione simbolica in forma testuale teorica, cognitiva e prassica che è sempre sussistente in forma potenziale sul piano paradigmatico e attualizza, in forma di reazioni e schemi comportamentali, le figurazioni e le configurazioni appropriate in termini di efficacia ed efficienza delle azioni e interazioni. Ecco, tale potrebbe essere l’intendere le competenze da una prospettiva generativa e performante. Incedere nel percorso del vivere è anzitutto generare e incrementare conoscenza, non certo in termini quantitativi bensì qualitativi, nel senso di elaborazione in divenire di costrutti di conoscenza capaci di attivare un apprendimento significativo e generativo di altra conoscenza.
Ma un punto è importante: acquisire conoscenza è un processo di disvelamento che esita in acquisizione di consapevolezza. Le conoscenze generano consapevolezza. L’apprendimento significativo a fonda- mento dell’esistenza interazionale umana si dispiega sotto forma di esperienza epifanica del conoscibile. L’atto del conoscere è un atto di acquisizione di consapevolezza che si dispiega all’animo umano nella forma complessa di reti di connessioni, di punti e direzioni multiple. I linguaggi, a loro volta, come forma di rappresentazione testuale e simbolica della realtà concorrono a questo processo gnoseologico e assiologico. Infatti, il grado di significatività dipende contestualmente in forma relata da un investimento di valore viscerale nello stato dell’essere e del fare. Ciò avviene come esperienza integrata e coinvolge un’istanza multiprospettica ai diversi livelli della dimensione soggettiva, intrasoggettiva e intersoggettiva.
Come è noto, la parabola evolutiva di un sistema culturale presuppone un processo di tradizione che avviene sovente mediante lo svolgimento ritmico e ripetuto delle pratiche del quotidiano e il loro susseguirsi evolutivo costituisce vere e proprie isotopie dell’agire. Il comportamento umano si articola in unità del fare vicendevolmente correlate e, lungo il loro svolgersi sequenziale, costituiscono sistemi dotati di senso e, in quanto tali, generativi di performatività degli atti. A tal proposito troviamo numerosi spunti di riflessione in Greimas, il quale applica l’epistemologia semiotica anche a contesti e a tematiche di natura sociale disegnando abilmente un ponte di traduzione fra esperienza sensibile e sua testualizzazione, tra codifica e interpretazione, tra produzione e ricezione di oggetti simbolico-culturali. In particolar modo, in Semiotica e scienze sociali Greimas utilizza le isotopie assiologiche per costruire griglie di lettura funzionali ad introdurre nella metodologia sociosemiotica le strutture semantiche specifiche di una sintassi discorsiva. In questa sede, mi sembra molto interessante riportare un passaggio particolarmente significativo tratto dal progetto di modello di una semiotica topologica generale, nel quale Greimas approfondisce, fra i tanti oggetti polisemici, anche il rapporto “società vs individuo” inteso, nel caso specifico, come categoria semantica utilizzabile “in senso epistemologico”:
«D’altro canto, l’individuo, in quanto opposto alla comunità urbana, non va considerato come una grandezza numerica di una somma che costituirebbe la società, e neppure come un’occorrenza “vissuta” e unica, non sostituibile nello spazio e nel tempo […]. Individuo e società, universo individuale e universo culturale, ci sembrano concetti coestensivi, luoghi virtuali enunciati, suscettibili degli stessi investimenti semantici: esattamente come avviene per la definizione dello spazio topico ricavata dall’opposizione qui vs altrove, sarà unicamente il “punto di vista”, e cioè la co-occorrenza del luogo dell’enunciato e del luogo dell’enunciazione a poter decidere del tipo di discorso che sarà tenuto sulla città; potremo così intenderla o nel suo aspetto di “cultura urbana” o nella forma di un particolare “stile di vita” del cittadino, o entrambe le cose assieme» (Greimas, 1991: 134-135).
Assumendo questa prospettiva come esempio, il paradigma concettuale di isotopia assiologica mi permette di focalizzare una rinnovata attenzione ai contesti, coniugare giunzione e disgiunzione fra individuo e sistema, fra agire sociale ed agency diffusa. Così facendo, la nozione di isotopia amplia la sua portata [1]: nell’ambito dell’analisi di un testo l’isotopia funge da linea guida per il lettore ed esplica la sua funzione fondamentalmente nella fase di ricezione interpretativa del testo (Greimas, Courtés, 2007: 171); se ampliamo la sua applicabilità allo studio della dimensione sociale e culturale dell’esistenza umana, il suo campo di azione si estende anche alla fase di produzione degli schemi comportamentali. Un sistema simbolico culturale rappresenta un’articolazione paradigma- tica e semiotica generativa che si pone a fondamento di isotopie dell’agire sociale. Dunque, habitus, schemi comportamentali, credenze e sistemi simbolici costituiscono isotopie fra le quali si instaurano spazi semiotici di continuità e discontinuità. Tali sono, appunto, le linee di forza, le linee di potere, le linee di frattura, e le individualità che si configurano sono mondi possibili interagenti.
A conclusione, seppur parziale, di queste mie riflessioni, mi sembra doveroso sottolineare che facendo ricorso ai tre nuclei teorici fondamentali di habitus, isotopia e dispositivo non ho proceduto ad un accostamento di modelli teorici differenti forzandone l’integrazione, ma, al contrario, propongo come prospettiva metodologica l’affermazione di Deleuze che riporto da Conversazioni:
«Questi pensatori hanno pochi rapporti gli uni con gli altri […] e tuttavia ne hanno. Si direbbe che avviene fra loro, con velocità e intensità differenti, qualcosa che non si trova né negli uni né negli altri, ma, per la verità, in uno spazio ideale che non fa più parte della storia e tantomeno è un dialogo fra morti: si tratta piuttosto di una conversazione interstellare, tra stelle molto ineguali i cui diversi tipi di divenire formano un blocco mobile che si tratta di catturare » (Deleuze, 1998: 21).
Assumo tale presupposto perché sono convinta che ad ogni lettura di teorie e testi sottenda un processo complesso di comprensione e di interpretazione utile alla conoscenza. Necessariamente, gli strumenti teorici ogni qual volta vengono recepiti, interpretati e applicati, subiscono una sorta di investimento epistemologico e un conseguente arricchimento e ampliamento degli orizzonti di applicabilità. In tal senso, questo mio contributo potrebbe rivelarsi un personale inizio fra tanti possibili che acquisterà coerenza e conferme nell’applicazione a contesti concreti di vita quotidiana degli strumenti teorici che ho, con molta modestia, messo a confronto. Questi ultimi possono contribuire alla comprensione dei tempi moderni? Dove ci porta l’accelerazione di cambiamento che ha investito l’intera umanità in questi ultimi secoli? Gli habitus, le isotopie (azionali e comportamentali) e i dispositivi (sociali, politici, culturali e tecnologici), oltre a riferirsi a percorsi preordinati, sono forme di partecipazione sociale e, in quanto tali, possono essere considerati strutture enciclopediche che fungono da sistemi variabili di tempi e spazi, punti e linee di orientamento e direzione e, dunque, sono strumenti utili alla spiegazione e alla comprensione delle istanze afferenti l’esistenza umana come, per esempio, l’inserimento sociale, l’integrazione culturale, il dialogo intergenerazionale, l’interazione fra individui e strutture, le relazioni fra prodotti e processi.
Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
Note
[1] Come è noto, Greimas prende in prestito il termine isotopia dalla fisica e dalla chimica e lo risemantizza in numerose accezioni e usi specifici dell’analisi e della descrizione dei sistemi di significazione e comunicazione. Pur tuttavia, in questa sede, non posso non tenere in debita considerazione l’accezione più ampia di termine-ombrello che riporto direttamente da Eco: «Infatti, |isotopia| si riferisce pur sempre alla costanza di un percorso di senso che un testo esibisce quando lo si sottomette a regole di coerenza interpretativa […]» (Eco, 1989: 101).
Riferimenti bibliografici
Agamben G., Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma, 2006
Bourdieu P., Il senso pratico, Armando, Roma, 2005 (1980)
Bourdieu P., Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna, 2009, (1994)
Deleuze G., Conversazioni, Ombre Corte, Verona, 1998 (1977)
Deleuze G., Che cos’è un dispositivo?, Cronotopio, Napoli, 2010 (1989)
Eco U., Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano, 1988 (1975)
Eco U., Lector in fabula, Bompiani, Milano, 1989 (1979)
Foucault M., “Il giuoco” in Eterotopia. Luoghi e non-luoghi metropolitani, Mimesis, Milano, 2005 (1994)
Greimas A. J., Semiotica e scienze sociali, Centro Scientifico Editore, Torino, 1991 (1976)
Greimas A. J., Courtés J., Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Mondadori, Milano, 2007 (1979-2007)
Redaelli E., L’incanto del dispositivo. Foucault dalla microfisica alla semiotica del potere, Edizioni ETS, Pisa, 2011
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Concetta Garofalo, laureata sia in Lettere sia in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università degli Studi di Palermo, studia i molteplici aspetti teorici e pragmatici della agency e i processi, a breve e lungo termine, di interazione fra soggetti, instaurati nel mondo contemporaneo in relazione ai sistemi culturali di appartenenza, in spazi e tempi configurati soprattutto dai contesti urbani e dai contesti di apprendimento. La sua prospettiva di ricerca interdisciplinare attinge agli ambiti di studio più specifici dell’etnopragmatica e della sociosemiotica.
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