di Laura Ferrero, Paola Sacchi
Questo scritto prende forma in relazione al contesto attuale di guerra di Israele contro Gaza e alla rappresentazione dominante sui media, in Italia e non solo, di Hamas. Com’è noto, il movimento di resistenza islamica in Palestina è responsabile delle violenze perpetrate ai danni di soldati, civili e altri soggetti che si trovavano in territorio israeliano il 7 ottobre 2023, alla base della ritorsione israeliana che molti non faticano a definire genocidio. Le nostre intenzioni in questa nota non sono di fornire interpretazioni di questi fatti, ma di allargare il campo della discussione, proponendo alcune considerazioni intorno a momenti e situazioni nella storia di Hamas e ad aspetti importanti e probabilmente meno noti di questo movimento.
Lo facciamo a partire dalla lettura di due testi di recente pubblicazione da parte di due specialisti dell’area, scienziati politici di formazione. Il primo è il volume di Paola Caridi, Hamas. Dalla resistenza al regime (su questo si veda anche l’articolo di Franca Bellucci su Dialoghi Mediterranei n.65), un lavoro di impostazione storica comparso per la prima volta nel 2009 e ripubblicato a fine 2023 in una edizione ampliata; il secondo è il libro di Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, traduzione di un testo pubblicato in inglese nel 2020 che si presenta come un’analisi e un’interpretazione della natura stessa di Hamas. Incrociare le informazioni contenute in questi volumi e le tesi di questi autori consente non solo di parlare di Hamas, ma anche di avvicinare e commentare terminologie e prospettive di studio diverse e le loro implicazioni, in direzione di un quadro più sfaccettato e meno riduttivo di questo movimento politico.
In prima battuta ci sembra tuttavia importante sottolineare quel che accomuna il lavoro di Caridi e Sen, cioè la loro presenza sul terreno a Gaza in periodi diversi di un passato recente, un’esperienza diretta che ha implicato l’esercizio di uno sguardo allargato al contesto sociale più ampio, alle dinamiche della vita quotidiana, e che ha arricchito la ricerca su fonti secondarie con interviste e conversazioni con figure di primo piano di Hamas e con cittadini di Gaza. La quasi ermetica chiusura di Gaza a partire dal 2007 rende questa presenza sul campo qualcosa di particolarmente significativo, tant’è che entrambi gli autori narrano del loro ingresso nella Striscia: «Il 16 maggio 2013, dopo un viaggio di sei ore dal Cairo, arrivai al valico di Rafah…» (Sen:13); «I larghi brandelli di plastica schioccano al vento […] Welcome to Gaza» (Caridi: 49-51). Un espediente narrativo utile a sottolineare l’eccezionalità dell’ingresso a Gaza e che a noi antropologhe ricorda il senso sociale delle soglie e del loro attraversamento.
Questi volumi sono dunque libri su Hamas e sulla questione palestinese, ma sono in larga misura anche libri su Gaza. Anzi, come dichiarato da Sen, uno degli intenti del suo lavoro è contestualizzare lo sviluppo di Hamas a Gaza per spostare Gaza dalla dimensione dell’eccezionalità – cui è normalmente relegata nei discorsi politici – a quella di emblema della condizione palestinese (Sen: 61), convenendo con Edward Said che comprendere Gaza significa comprendere la lotta palestinese (Sen: 50).
La nascita di Hamas, tra resistenza e lotta anticoloniale
La prima dimensione su cui fermare l’attenzione sono le circostanze e ragioni della formazione del movimento nella illustrazione che ne fa Caridi. Hamas, acronimo di Harakat al Muqawwama al Islamiyya (letteralmente: movimento di resistenza islamica), viene fondata a Gaza sul finire del 1987 nel corpo del ramo palestinese dei Fratelli musulmani, l’organizzazione egiziana promotrice di un islam politico e presente in Palestina sin dagli anni Trenta. L’attività dei Fratelli musulmani a Gaza dagli anni Cinquanta si era svolta soprattutto nei campi profughi, rivolta al sostegno sociale, morale e materiale degli esuli della Nakba, le famiglie palestinesi scacciate al momento della costituzione dello Stato di Israele nel 1948, con l’obiettivo di promuovere «in una società slabbrata dalla perdita della terra e dalla dispersione delle comunità locali, una nuova solidità attraverso una fede ritrovata nell’islam» (Caridi: 70). La svolta in direzione di un attivismo politico di maggiore contrasto nei confronti di Israele, che dal 1967 aveva occupato militarmente e con insediamenti coloniali i territori di Gaza e Cisgiordania, avviene in stretta connessione con lo scoppio della Prima Intifada, la rivolta delle pietre, «un movimento profondamente popolare e di massa» (Caridi: 86) nato dalla consapevolezza da parte delle nuove generazioni della necessità di una mobilitazione e di azioni di resistenza all’interno dei Territori occupati, fino a quel momento affidate alle strategie dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, costituita dagli esuli in altri Paesi arabi.
Sfruttando questo nuovo clima di ribellione, gli esponenti dei Fratelli provenienti dai campi di Gaza, una generazione di professionisti laureati, spingono per la costituzione di un braccio operativo, Hamas appunto, in grado di mettere in campo una resistenza più sostanziale anche attraverso un’organizzazione militare, ma soprattutto ponendo al centro del confronto con Israele la condizione dei rifugiati e la questione del ritorno nei luoghi di origine. Con questa scelta politica Hamas diventa uno dei protagonisti della rivolta delle pietre, interprete e guida delle sue rivendicazioni.
Dalla carta costitutiva del movimento emergono con chiarezza i diversi piani su cui Hamas intende articolare la sua politica di resistenza: da un lato la collaborazione con le associazioni di beneficenza le cui risorse garantiscono una serie di servizi sociali e sanitari, a Gaza in modo particolare, e consentono quindi di tradurre in atto un intento importante della carta, e cioè «realizzare i bisogni della gente e proteggere il popolo» (Caridi: 95). D’altro canto da subito, nella carta stessa, Hamas chiarisce la sua posizione rispetto alla soluzione dei due Stati: «le iniziative per risolvere il problema palestinese, quelle denominate soluzione pacifica o conferenze internazionali, sono contrarie all’ideologia del Movimento di resistenza islamica perché rinunciare a qualsiasi parte della Palestina è come rinunciare a una parte della religione. Il nazionalismo del Movimento è parte della nostra religione» (Caridi: 114), una dichiarazione quest’ultima rivelatrice di un approccio che incorpora il nazionalismo nella religione secondo una propria concezione di modernità.
Le attività civili, di welfare e di supporto alla popolazione condotte da Hamas a partire da quel momento – forme di sostegno sociale che mettono in connessione Hamas con una storia della fratellanza che è regionale e legata all’emersione in quegli anni di varie forme di islam politico – sono ricordate anche da Sen come uno degli aspetti cruciali della diffusione della popolarità del movimento e come uno degli elementi che ha dato forma a un impianto di resistenza civile, volta in primo luogo ad alleviare le sofferenze dei palestinesi.
Se il concetto di resistenza è chiamato in causa sia dai rappresentanti di Hamas, sia da studiosi e studiose (tra cui la stessa Caridi), l’analisi di Sen guarda però ad Hamas soprattutto nel suo essere un movimento anticoloniale. Le implicazioni di questa scelta terminologica sono di vasta portata. Non si tratta, infatti, di scegliere tra sinonimi, bensì di inquadrare in modo concettualmente diverso l’intera questione israelo-palestinese. Questa riflessione ci porta a fare un passo indietro e a guardare in che modo l’autore definisce l’azione dello Stato di Israele nei confronti della Palestina: non “solo” un’occupazione militare, bensì un’impresa di colonialismo e, per essere precisi, di colonialismo di insediamento. È nel secondo capitolo che l’autore ripercorre le linee di continuità che dal 1948 ad oggi permettono di definire Israele come uno Stato coloniale. Al cuore del processo coloniale vi è l’eliminazione fisica e la cancellazione metaforica degli indigeni (Sen: 43).
L’eliminazione fisica è avvenuta, storicamente, sia inducendo lo spostamento di migliaia di persone sia riducendo la popolazione – in particolare quella di Gaza – a una condizione di sopravvivenza. E avviene oggi, ogni giorno dal 7 ottobre, attraverso l’uccisione di civili, che si aggiungono agli omicidi mirati. La cancellazione metaforica della Palestina inizia invece con i primi movimenti di coloni che la immaginano come “una terra senza popolo”, e continua tanto nella narrazione storica ufficiale e museale israeliana, quanto nell’appropriazione del cibo locale, nella “giudaizzazione” della città di Gerusalemme e nello “spazio-cidio” volto a rimuovere e a sostituire fisicamente i palestinesi (Sen: 52). Se, in definitiva, il «colonialismo implica la creazione dello status (inferiore) dei colonizzati nei discorsi dei colonizzatori [...] e, nel tentativo di concretizzare l’inesistenza indigena, si sforza di eliminare l’impronta della presenza palestinese» (Sen: 22), il «desiderio di eliminazione [diventa] la norma che contestualizza e modella il carattere della soggettività e della politica anticoloniale di un’organizzazione come Hamas» (Sen: 43).
Il processo di pace, l’anticolonialismo e la lotta armata
Le analisi che Caridi propone nella sua ricostruzione storica pongono in risalto l’eterogeneità delle posizioni all’interno di Hamas, non solo in termini di una componente politica e una militare, ma anche in termini di storia del movimento in relazione alla collocazione territoriale e al passato politico in Cisgiordania, a Gaza o nel contesto della diaspora, e ancora in termini di ali moderate, pragmatiche o dure, compresenti nel movimento. Con tutte queste sfumature, Hamas, coerentemente con le posizioni assunte alla sua costituzione, si è opposta in modo netto al “processo di pace”, agli Accordi di Oslo e al piano di costruzione dello Stato palestinese che ne è scaturito, ritenendolo un vero e proprio tradimento delle aspirazioni palestinesi, a partire dal silenzio e dall’accantonamento della questione del ritorno degli esuli e di Gerusalemme capitale.
Anche secondo Sen, gli Accordi di Oslo sono oggi riconosciuti dalla stragrande maggioranza dei palestinesi come fallimentari ed è anzi nell’evidente fallimento degli accordi e nella conseguente impossibilità di garantire l’esistenza di uno Stato palestinese che risiede la permanenza della condizione di colonizzati. Detto in altri termini, la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese avrebbe potuto essere il momento che segnava uno spiraglio di indipendenza e il conseguente venir meno della necessità di una lotta anticoloniale, ma oggi sappiamo che non è andata così. Il dopo Oslo è stato infatti segnato da una serie di svantaggi economici e anzi in quel periodo «i territori palestinesi assistettero al declino economico più vertiginoso dal 1967 [...] portando alla contrazione della già fragile economia palestinese» (Sen: 78). Israele mantenne il controllo su tutti gli aspetti della vita economica e della mobilità dei palestinesi e si assistette a una riduzione del reddito pro-capite e a un aumento del lavoro minorile. A ciò si aggiunge il fatto che «il modo di operare dell’Autorità palestinese, in assenza di un contrappeso legale e istituzionale al proprio potere, si contraddistinse per patronato politico e corruzione» (Sen: 78). La perdita di potere socio-politico generò un «essere sociale [palestinese] frantumato» (Sen: 78).
Di fronte all’impossibilità di gestione della “cosa pubblica” palestinese da parte dell’ANP, entrambe le anime di Hamas ne uscirono rafforzate: da un lato il braccio sociale dell’organizzazione – che forniva istruzione, strutture mediche, attività ludiche e assistenziali – divenne ancora più importante e necessario a colmare i vulnus istituzionali; dall’altro il braccio armato ne è uscito legittimato. Non è forse un caso che il primo attentato suicida rivendicato da Hamas sia del 1994, poche settimane dopo l’aggressione armata del colono Baruch Goldstein ai fedeli in preghiera nella moschea di Hebron, e forse può essere fonte di stupore per alcuni apprendere che Hamas compare come soggetto che compie azioni armate e azioni di cosiddetto terrorismo decisamente dopo gruppi di palestinesi (soprattutto della diaspora) di matrice laica e di sinistra.
Gli Accordi di Oslo chiedevano all’ANP tanto il riconoscimento dello Stato di Israele, quanto la fine della lotta armata, ma Hamas non sottoscrisse né allora né mai queste condizioni. Anzi, rafforzando proprio in quegli anni la sua immagine come soggetto protagonista di una lotta armata – in particolare attraverso il braccio armato che va sotto il nome di Brigate Ezzedin al-Qassam, fondato per l’appunto nel 1992 per contrastare i negoziati di Oslo – Hamas intraprende un percorso che secondo Sen la porta a diventare la personificazione della lotta nazionale palestinese (Sen: 76). Secondo l’autore «gli accordi di Oslo forniscono un’ulteriore giustificazione alla persistenza di tale lotta [anticoloniale], così come alla necessità di coltivare la soggettività anticoloniale palestinese, che sia attraverso la violenza [o le] forme di attivismo socio-civile» (Sen: 79). Al centro della lotta anticoloniale c’è ovviamente l’obiettivo di «evidenziare l’esistenza della Palestina e dei palestinesi» (Sen: 96) a dispetto di quel progetto coloniale che prende la forma dell’eliminazione dell’altro.
Leggere Hamas come movimento anticoloniale e non “solo” come forma di resistenza è il passaggio concettuale che permette a Sen di legare Hamas ad altre forme di lotta anticoloniale (in altri spazi e in altri momenti storici) e di utilizzare lo sguardo di Frantz Fanon per commentare la storia dell’organizzazione. Fanon, psichiatra antillano che visse su di sé la dimensione di colonizzato, mentre era responsabile di una divisione dell’Ospedale psichiatrico di Blida, in Algeria, finì con l’unirsi al Fronte Nazionale di Liberazione Algerino, diventandone il portavoce, e utilizzò quell’esperienza anche come spunto per creare una teoria della lotta anticoloniale in cui si sofferma sulla relazione tra colonizzatori e colonizzati, sulla sofferenza e sull’angoscia che pervade il mondo dei colonizzati e sulla dimensione della violenza. Per Fanon, infatti, «la violenza era centrale per la (re)invenzione del soggetto decolonizzato lungo il percorso verso la liberazione» (Sen: 105) e per «porre fine alla storia della colonizzazione» (Sen: 108). Ciò nonostante, riconosce lo stesso Fanon, «la violenza dei colonizzati è spesso stigmatizzata nonostante la sofferenza che la precede» (Sen: 108).
Come è successo nel caso della violenza degli attentati suicidi che ha contraddistinto la stagione della Seconda Intifada (2000-2005), scoppiata in seguito alla “passeggiata” provocatoria di Ariel Sharon sulla Spianata delle moschee a Gerusalemme, una scelta di lotta armata condivisa dalle formazioni militari di Hamas e di Fatah (Tanzim e Brigate dei martiri di Al-Aqsa), del Jihad islamico e del Fronte popolare, e che ha coinvolto una generazione di militanti giovanissimi. A questo proposito Caridi, nel tentativo di restituire la complessità della situazione, si impegna a ricostruire i molteplici sentieri della politica anche in questa fase storica: i suoi interlocutori raccontano l’elaborazione di una strategia alternativa alla violenza, la discussione interna su una possibile tregua/armistizio con Israele e anche su una possibile partecipazione all’ANP.
La dichiarazione di un esponente importante di Hamas alla fine della Seconda Intifada illumina la posizione che almeno una parte del movimento stava cercando di definire senza contestare direttamente le affermazioni della Carta costitutiva: «la Carta non è il Corano […] dal punto di vista storico noi crediamo che tutta la Palestina appartenga ai palestinesi, ma ora stiamo parlando di realtà, di soluzioni politiche, e le realtà sono differenti» (Caridi: 119), e Caridi aggiunge «tutti i leader politici del movimento […] hanno accettato i confini del 1967, pur senza sciogliere l’ambiguità non solo sul riconoscimento de facto di Israele, ma anche sulla differenza tra una soluzione temporanea e una definitiva, tra una hudna e una pace» (Caridi: 157).
Sono infatti numerosi i tentativi che in questi anni forze di intermediazione esterne ed interne mettono in campo per raggiungere un’intesa con i leader di Hamas sulla sospensione degli attacchi e il raggiungimento di una tregua. I negoziati spesso saltano a un passo dalla ratifica oppure le tregue stabilite durano un tempo molto breve, non solo per iniziativa di qualche attentatore isolato, ma spesso anche in conseguenza delle uccisioni mirate compiute da Israele. Come ricorda Alistair Crooke, consulente dell’UE per la mediazione in quel periodo, «in tre diverse occasioni Hamas propose di rimuovere i civili dal conflitto. Tutte le proposte vennero rigettate da Israele» (Caridi: 161).
Le elezioni del 2006, il postcolonialismo e la violenza interna
Nell’analisi offerta in Decolonizzare la Palestina, la ratifica degli Accordi di Oslo assume un’importanza centrale. Se da un lato, come esposto nel paragrafo precedente, il fallimento del progetto che possiamo riassumere con l’espressione “due Stati per due popoli” dà continuità alle condizioni che hanno portato a descrivere Hamas come un movimento anticoloniale, dall’altro la costituzione di uno Stato (o, come lo chiama Sen, un quasi-Stato) palestinese può essere intesa come un momento generativo che ha avuto l’effetto di «coltivare una nuova soggettività politica palestinese che virasse dall’identità anticoloniale verso una modalità di condotta politica più postcoloniale» (Sen: 67). Nello sguardo di Sen, quindi, Oslo aveva dato vita a una «condizione politica ambivalente» (Sen: 67) segnata dalla coesistenza tra la dimensione anticoloniale – dovuta al perdurare del progetto coloniale israeliano – e quella postcoloniale, innescata dalla creazione di un’autorità statale palestinese. Questa ambivalenza è destinata a diventare ulteriormente visibile quando proprio quel movimento che incarnava la resistenza armata in contrapposizione a Fatah vince le elezioni e si prepara ad amministrare Gaza.
Su questa inattesa vittoria di Hamas alle elezioni legislative del 2006, che in qualche misura sorprende i leader stessi del movimento, si sofferma la riflessione di Caridi, a partire dal dibattito interno al movimento sulla partecipazione all’ANP, dalla constatazione della frammentazione della società palestinese generata dalla resistenza, della necessità di un piano di riforme che garantisse stabilità e sicurezza alla popolazione. Il successo elettorale è il riconoscimento, oltre che dell’opera di assistenza sociale agli strati più deboli, dell’efficacia della resistenza armata attuata da Hamas, che ha portato Israele, nella lettura dei palestinesi, all’abbandono nel 2005 della sua impresa coloniale a Gaza.
Nell’analisi del voto che ci propone Caridi, ha allo stesso modo e tempo contato la scelta da parte di Hamas di chiudere con la strategia degli attacchi suicidi, lo stop di fatto alla Seconda Intifada e la decisione di partecipare alle elezioni. Questi elementi «vengono interpretati dalla popolazione palestinese come una precisa proposta politica: un’alternativa a chi aveva governato, controllato, egemonizzato fino a quel momento» (Caridi: 198-99), un’alternativa a Fatah, nei cui confronti da tempo si rinnovavano le accuse di corruzione, clientelismo e inefficienza. E forse è poco noto qui da noi che il voto delle donne è stato determinante per la vittoria di Hamas.
Il piano di un governo di unità nazionale con Fatah viene boicottato in primo luogo da Israele e dalla comunità internazionale, che non vogliono Hamas al governo dei Territori, poi anche da Fatah che resiste alla condivisione del potere, e il conflitto armato tra i due si chiude con la presa di potere di Hamas a Gaza nel 2007. Caridi dedica diversi capitoli del suo libro alla storia di Hamas al governo di Gaza, in una ricostruzione minuziosa e ricca di dettagli degli eventi e delle relazioni tra i diversi attori politici: un quadro della condizione persistente di chiusura dei confini, in un continuo alternarsi di negoziazioni, quasi-accordi, pluralità di posizioni interne al movimento, lancio di missili Qassam e operazioni di guerra israeliane, quattro tra il 2008 e il 2021.
Ci sembra importante segnalare in questo contesto l’attenzione di Caridi per il processo di ripensamento che Hamas fa di sè e dei propri obiettivi e che porta alla stesura e presentazione ufficiale nel 2017 di una nuova Carta, «un documento fondamentale per il movimento islamista palestinese», in primo luogo perché vuole rappresentarne l’unità, il consenso oltre le differenze nella leadership. Il testo presenta un cambiamento netto di linguaggio e di prospettive rispetto alla Carta del 1988, e costituisce secondo alcuni politologi «un trionfo della politica sulla resistenza» (Caridi: 340-43): Hamas ribadisce il diritto inalienabile alla terra di Palestina, dal Giordano al Mediterraneo, ma si dichiara disposta a un compromesso su un futuro Stato palestinese lungo i confini della Linea Verde. Se Caridi pone l’accento sullo sforzo di Hamas di ripensarsi “politicamente” la prospettiva di Sen vuole piuttosto mettere in risalto come in un certo senso entrambe le eredità del processo di Oslo (la continuità della lotta coloniale da un lato e l’incentivo alla postcolonialità) si siano trovate a coesistere nel perimetro del movimento di Hamas.
Se quell’anima di Hamas che ha rappresentato le tante forme di resistenza civile – sotto forma di strutture sociali e di forme di welfare volte a offrire servizi alla popolazione palestinese – dopo il 2006 viene assorbita dal governo di Hamas è dunque l’altra anima, ovvero la resistenza armata, a diventare per Sen la principale forma di espressione dell’opposizione allo Stato di Israele e ad acquisire un ruolo simbolico preponderante per mantenere quel ruolo che Hamas si era ritagliata – ovviamente in opposizione a Fatah – di principale attore della resistenza palestinese.
A soli due mesi dalla presa di potere, infatti, Hamas cattura il soldato Gilad Shalit e negozia con Israele il rilascio di un migliaio di prigionieri, dimostrando che «essere al potere e governare Gaza non incide sulle sue capacità di organizzazione della resistenza» (Sen: 118). Evidentemente la sproporzione di forze tra Hamas e Israele è tale da non aver mai permesso ad Hamas di immaginare (realmente) di poter sconfiggere Israele, ma ciò nonostante la costante sfida che Hamas lancia a Israele e il sentimento di paura che alcune sue azioni possono instillare in israeliani che abitano le zone limitrofe al confine costringono lo Stato sionista «a rivalutare i palestinesi» (Sen: 121). In questo senso la violenza sarebbe, quindi, un modo per mandare un messaggio allo Stato e alla popolazione di Israele. Sul fronte interno, quello palestinese, la violenza agita potrebbe essere uno strumento attraverso cui Hamas accresce la sua credibilità mostrando la sua inesauribile volontà di combattere e mostrando la convivenza tra la sua condotta governativa e quella armata. L’impegno istituzionale da parte di un gruppo armato di liberazione fa sì che Hamas introduca «la prospettiva anticoloniale nelle istituzioni e negli apparati burocratici, ritenuti sinora conniventi con le aspirazioni dei colonizzatori» (Sen: 170). È anche per questo, infatti, che la popolarità di Hamas è cresciuta ed è dilagata perfino in settori non islamisti della popolazione palestinese.
Ciò nonostante, entrambi gli autori portano anche lo sguardo sulle varie forme di dissenso ad Hamas, pacifico e non, che hanno preso forma nella società palestinese. In passaggi diversi della sua analisi Caridi analizza le critiche rivolte a Hamas, espressione di una insoddisfazione crescente negli anni tra la popolazione, non solo per le forme di governo clientelare, che la avvicinano a Fatah, ma soprattutto per l’islamizzazione della vita sociale, imposta con la forza della polizia. Questa posizione più conservatrice nei confronti dei costumi sociali viene giustificata da Hamas come un modo per venire a patti con una più specifica posizione di dissenso, comparsa soprattutto tra i giovani che, disillusi dal governo di Gaza, hanno aderito al salafismo, una forma di islamismo radicale. Pur non dimenticando che la protesta giovanile ha percorso nel tempo anche altre vie, come quella della stagione delle ribellioni del 2011 nel mondo arabo, Caridi conclude rilevando «una crescente disaffezione nei confronti del paradigma politico in vigore da quarant’anni» (Caridi: 356) nelle sue diverse versioni, e la comparsa negli ultimi anni di gruppi armati che non si identificano con alcuno dei movimenti esistenti.
Forse non è un caso che proprio trattando questi argomenti, Sen faccia maggiormente uso di materiale raccolto in modo informale: non interviste, ma conversazioni o scambi di email con persone conosciute e frequentate nel periodo di ricerca a Gaza. Da queste “vignette etnografiche” traspaiono vissuti ed esperienze legate alle «tendenze autoritarie» (Sen: 168) e alle forme di violenza e di controllo subite dalla popolazione civile da parte delle forze di polizia di Hamas. L’abuso della violenza nella gestione del potere fa dire ad alcuni degli interlocutori di Sen che «Hamas sa combattere bene, ma a governare sono dei falliti» (Sen: 176) e che «è in corso una battaglia sociale contro Hamas» (Sen:178).
Dal canto suo, Sen pare quasi giustificare le tendenze autoritarie di Hamas come un male necessario nel contesto di una lotta di liberazione, oltre che come una conseguenza del monopolio della violenza attribuita a qualsiasi entità statale e ancora di più come un esito della condizione di confusione postcoloniale generata dagli stessi Accordi di Oslo.
Di fronte allo scenario contemporaneo
I volumi a partire dai quali abbiamo proposto questo rapido e non esaustivo excursus storico e analitico sono stati scritti prima degli attacchi del 7 ottobre. Inevitabilmente, però, chi li legge oggi lo fa consapevole di quello che in quel giorno è accaduto e della violenza che ha generato. Probabilmente il lettore o la lettrice – come chi scrive – cercherà tra le righe di questi testi spunti disperati per rendere intelligibile un presente che non vorremmo avere davanti ai nostri occhi. Per questa ragione, concludiamo questo percorso condividendo alcune domande che la lettura di questi testi ha fatto sorgere in noi.
Nel caso di Decolonizzare la Palestina, abbiamo visto come lo sguardo dell’autore porti a considerare la violenza di Hamas come strumento (dal suo punto di vista legittimo) all’interno di azioni di resistenza che hanno lo scopo di opporsi al progetto coloniale israeliano. Ma è lo stesso Sen, in tempi ben precedenti al 7 ottobre, a chiedersi: «Di fronte alla distruzione, dov’è la creazione?» (Sen: 124). A rispondere, a questa domanda ha provveduto, almeno in parte, l’analisi di Caridi, impegnata in molte pagine del suo libro a mostrare la pars construens dell’azione politica di Hamas e del suo governo postcoloniale. E anche a ricordarci la pars destruens delle posizioni degli attori internazionali con la scelta del «muro contro muro, l’isolamento, l’embargo, l’emarginazione, la presenza di precondizioni per qualsiasi contatto con la comunità internazionale [...]» (Caridi: 367), considerazioni che la portano a concludere nell’epilogo, alla luce del 7 ottobre, che «la svolta ‘partecipazionista’ di Hamas è finita» (Caridi: 377) e le responsabilità rispetto al suo fallimento sono state molteplici.
Tornando a Sen, la sua domanda «Di fronte alla distruzione, dov’è la creazione?» è legata alla constatazione che ogni azione di Hamas contro Israele può trasformarsi in un caro prezzo da pagare per la popolazione di Gaza. L’autore sembra suggerire che – almeno sino al momento in cui lui ha scritto – l’assenza di alternative abbia reso la violenza che si riversa sui palestinesi in qualche modo accettabile. È ancora vero oggi, dopo che la violenza su Gaza ha raggiunto livelli mai visti prima d’ora?
Se «la credibilità di Hamas, agli occhi della popolazione palestinese, [si basava] principalmente sulla sua capacità di fornire sicurezza e di dimostrare la volontà di combattere contro la superiorità militare di Israele» (Sen:.116), cosa succede oggi che nessuno è più in grado di fornire sicurezza ai palestinesi di Gaza? Ė ancora possibile immaginare un governo postcoloniale in Palestina?
Il merito del testo di Sen è sicuramente quello di mostrare come la dimensione anticoloniale e quella postcoloniale non siano necessariamente due momenti che si succedono, ma possano coesistere per un lungo tempo. In un momento storico in cui la resistenza armata che avrebbe potuto «contribuire alla reificazione della soggettività anticoloniale» (Sen: 122) è stata all’origine di una così spropositata ritorsione, la domanda che Sen si pone – «davanti al progetto dei colonizzatori, che penetra l’io dei colonizzati, la violenza può anche (ri)costruire l’io del soggetto coloniale?» – diventa drammatica.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
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Laura Ferrero, antropologa, ha ottenuto il Dottorato di ricerca e insegna Antropologia del Medio Oriente all’Università di Torino. È attualmente assegnista di ricerca presso l’Università del Piemonte Orientale, dove si occupa di invecchiamento della popolazione straniera. Ha svolto ricerca in Italia, in Egitto e in Palestina e ha pubblicato i risultati dei suoi lavori su interviste nazionali e internazionali. I suoi interessi di ricerca principali sono le migrazioni internazionali, le società multiculturali, il genere e la famiglia nelle società mediorientali. È autrice di Protagoniste in secondo piano. Femminilità egiziane tra mobilità e immobilità (Cisu, 2018) e una delle curatrici del volume Embodying Borders. A Migrant’s Right to Health, Universal Rights and Local Policies (Berghahn, 2021).
Paola Sacchi, Ricercatrice presso l’Università di Torino, dove insegna Antropologia del genere e della parentela e Antropologia del Mediterraneo, ha condotto ricerche sul terreno tra i gruppi beduini del Negev e più recentemente su temi di famiglia e migrazione e di inquinamento ambientale in Italia. Tra i suoi lavori: Nakira. Giovani e donne in un villaggio beduino di Israele (Il Segnalibro 2003).
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