di Andrea Bagalà
Negli ultimi anni l’Italia ha visto crescere un fenomeno che, molto lentamente, sta diventando un fattore culturale importante all’interno della storia contemporanea italiana: il neo-borbonismo. L’esaltazione del sistema economico del Regno delle Due Sicilie, la narrazione di primati tecnologici, sociologici e scientifici dello Stato borbonico, l’idolatria dei monarchi di casa Borbone, la commemorazione di eventi storici quali l’eccidio di Bronte, i fatti di Pontelandolfo e Casalduni, l’assedio di Gaeta e, inoltre, le petizioni per espungere dall’odonomastica italiana i nomi della famiglia Savoia sono solo alcune delle tipicità di questo caso che parrebbe un anacronismo della storia.
Ma come è nato questo fenomeno? Come sta cambiando, se lo sta facendo, il concetto di meridionalismo? Per di più, i neoborbonici hanno pretese politiche? Ripercorrere la nascita e gli sviluppi del mito borbonico servirà qui ad abbozzare possibili risposte a tali quesiti, sia sul piano storico che su quello antropologico.
La nascita del mito borbonico
Quando si parla di Mezzogiorno e dei Borbone è inevitabile citare quella che, da più di un secolo e mezzo, viene definita la “questione meridionale”, ovvero la disparità socioeconomica tra i territori del Nord e Sud Italia. Furono molti, infatti, i policy maker, i cronisti e gli intellettuali italiani che un decennio dopo l’unificazione della Penisola cominciarono a domandarsi quale dovesse essere il progetto politico per risollevare economicamente le regioni del Mezzogiorno (data l’improvvisa alterazione dell’economia a seguito dell’annessione al Regno dei Savoia).
C’è un elemento, però, che diventa rilevante per la storia del perduto Regno borbonico, e cioè che già prima che l’Italia divenisse un unico Regno nel 1861, molti si interrogarono su cosa ne sarebbe stato del vasto Regno delle Due Sicilie se questi fosse collassato; una domanda legittima se si considera che i Borbone furono politicamente braccati dai loro sudditi giù dagli anni che seguirono la Rivoluzione Francese [1]. Infatti, repubblicani, socialisti, anticlericali e monarchici filo-Savoia, fin dalla prima metà dell’Ottocento cominciarono a covare un progetto nazionalista unitarista che coinvolgesse il Regno di Savoia a discapito della monarchia Borbone che, come si è anticipato, progressivamente aveva perso il prestigio europeo e internazionale. Come mai?
Perché il modo in cui le truppe del re di Spagna Carlo IV caddero sotto i colpi dei soldati napoleonici tra il 5 novembre 1808 e il 17 gennaio 1809, la graduale perdita dei territori coloniali in Sudamerica, la decisione di Ferdinando VII di designare la figlia erede al trono che scontentò i nobili della corte borbonica (la futura Isabella II) e, infine, i tumulti popolari costituzionalisti della prima metà del XIX secolo, determinarono l’indebolimento delle monarchie borboniche o, come fu definito dal giornalista e storico Indro Montanelli, «il crepuscolo dei Borbone»[2].
A ogni modo, quello che successe a partire dal 1860 è noto a tutti gli italiani e agli appassionati di storia risorgimentale. Il generale genovese Giuseppe Garibaldi assoldò un gruppo di uomini, i celebri “Mille”, e con questi partì alla volta della Sicilia per poi risalire la penisola combattendo e sconfiggendo le truppe borboniche di Francesco II delle Due Sicilie, amabilmente noto come “Franceschiello”. Insomma, in pochi mesi tra il 1860 e l’anno successivo, il plurisecolare Regno borbonico – prima del Congresso di Vienna e del trattato di Casalanza diviso in Regno di Napoli e Regno di Sicilia) – venne abbattuto da un migliaio di soldati irregolari e dalle più nutrite truppe del re Vittorio Emanuele II, monarca del Regno di Savoia e protagonista del periodo risorgimentale assieme al fautore del sogno dell’unificazione italiana: il primo ministro savoiardo Camillo Benso conte di Cavour. Casa Savoia, però, non ebbe vita facile.
Com’è noto, infatti, l’esercito borbonico tentò di resistere militarmente all’avanzata nemica del 1861. Il tradimento e la connivenza di cui alcuni nobili e di una buona parte della popolazione meridionale con le truppe del generale Garibaldi, però, condussero alla sconfitta militare l’esercito di Francesco II, sancita con l’assedio della cittadella di Gaeta, terminato il 13 febbraio 1861 con la fuga dei monarchi Borbone a bordo di una nave francese, la “Mouette”. È da qui che inizia la seconda fase della resistenza, che sancisce la nascita del “borbonismo” o “legittimismo borbonico” o, come lo definì Benedetto Croce nel suo Uomini e cose della vecchia Italia (Laterza, 1927), «romanticismo legittimistico».
Difatti, Francesco II, nel frattempo rifugiatosi a Palazzo Farnese nel territorio dello Stato Pontificio a Roma, percorse due diverse strade per tentare di riconquistare il Regno perduto. La prima fu quella diplomatica, allorquando tentò di creare una rete tra le ambasciate di Francia e Spagna per coordinare un’insurrezione popolare sfruttando il fenomeno del brigantaggio nel Mezzogiorno. Questa iniziativa, però, ebbe poco successo data la truculenta repressione del fenomeno del brigantaggio attuata dal neonato Regno d’Italia attraverso l’applicazione della cosiddetta “Legge Pica”. La seconda strada per Francesco II, dunque, fu quella di fomentare il popolo delle Due Sicilie attraverso una massiva propaganda filoborbonica che, sorprendentemente, potrebbe essere quella arrivata alle nuove generazioni degli anni Duemila.
Tra il 1861 e il 1870, infatti, numerose furono le pubblicazioni di ufficiali dell’esercito borbonico che si spesero propagandisticamente a favore della causa borbonica. L’iniziativa fu coordinata da una speciale commissione editoriale e presieduta dal generale ed ex primo ministro del Regno delle Due Sicilie, Pietro Calà Ulloa, anch’egli rifugiatosi nel territorio pontificio assieme ai reali di casa Borbone.
Il legittimismo storiografico borbonico
I protagonisti di questo che si potrebbe definire “legittimismo storiografico”, furono soprattutto gli ufficiali e i militari dell’esercito borbonico che combatterono le ultime battaglie prima dell’Unità d’Italia. Tra essi ricordiamo il capitano Tommaso Cava, l’ufficiale di artiglieria Carlo Corsi, il generale Giosuè Ritucci, il colonnello dello stato maggiore Giovanni Delli Franci, il capitano Sinibaldo Orlando, l’ufficiale di stato maggiore Luigi Gaeta, il capitano del genio borbonico Giuseppe Quandel e i suoi fratelli Pietro e Ludovico Quandel, il generale Francesco Pinto, il colonnello Giuseppe Ruiz de Ballesteros, il capitano Giovanni de Torrenteros, i generali Pasquale e Bartolo Marra e il cappellano militare dell’esercito borbonico Giuseppe Buttà.
In che modo, però, i fedelissimi di “Franceschiello” hanno contribuito alla nascita del mito borbonico? Attraverso le pubblicazioni di resoconti di guerra e la stesura di memorie con toni trionfalistici nei confronti dei Borbone e del Regno delle Due Sicilie. Gli espedienti ricorrenti delle memorie, infatti, erano la celebrazione della patria e della “nazione” napoletana, della difesa esasperata delle ultime roccaforti borboniche (quali le cittadelle militari di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto) e dello straniero invasore. Il discorso dei veterani borbonici, infatti,
«sviluppava una definizione di libertà basata fondamentalmente sul tema dell’indipendenza dallo straniero: la questione cruciale era il problema dell’autodeterminazione. La celebrazione di un nazionalismo napoletano che aveva difeso l’indipendenza delle Due Sicilie diventò il momento costitutivo della rinnovata identità borbonica, incarnata innanzitutto dall’esercito»[3].
Anche l’atteggiamento di devozione e lealtà alla famiglia Borbone veniva spesso evidenziato. Questo concetto cavalleresco di fedeltà alla corona, di fatto, veniva espresso nelle memorie con l’utilizzo di espedienti retorici quali “onore”, ”gloria” e “giuramento”: «intendiamo restare fedeli al nostro giuramento […] gelosi custodi di quell’onor militare»[4], «questa medaglia adornando i vostri petti ricorderà a tutti la vostra fedeltà, ed il vostro valore, che saranno sempre un soggetto di gloria per coloro che erediteranno il vostro nome»[5], «[…] quando i miei più cari soldati rientreranno nelle loro famiglie, tutti gli uomini di onore chineranno il capo al loro passaggio»[6], «un giorno ciascuno di voi potrà dire con orgoglio: io nel 1860 feci parte dei difensori della cittadella di Messina»[7]. Insomma, si comprende perché si stia asserendo che la propaganda legittimista voluta da Francesco II abbia trovato dei validi sostenitori nel corpo dei veterani dell’Esercito delle Due Sicilie.
A ogni modo, però, la lunga corsa del neonato Regno d’Italia verso l’orizzonte unitarista non venne minimamente rallentata dai Borbone. Sebbene gli scritti dello storico filo-borbonico Giacinto de Sivo siano circolati in Europa ottenendo un discreto successo editoriale, nonostante l’impegno di Francesco II e la volontà di alcuni sovrani d’Europa di ristabilire lo status quo nelle corti del primo Ottocento, la Legge Pica e l’affievolimento delle voci legittimiste più importanti attorno agli anni ’70 determinarono la fine del primo borbonismo, quello della
«difesa del regno e i martiri, i briganti-guerriglieri, le presunte stragi come Pontelandolfo, la distruzione di una comunità nazionale con i suoi primati, l’aggressione alla chiesa, l’accusa agli unitari meridionali di aver provocato la guerra civile».[8]
attorno a cui ruotano le convinzioni e le fondamenta ideologiche del neo-borbonismo e del meridionalismo contemporaneo. La difesa politica dei Borbone, infatti, continuò solo per poco tempo. A partire dagli anni ’70 dell’Ottocento, infatti, il legittimismo borbonico si strinse attorno al cardinale napoletano Sisto Riario Sforza (1810-1877), che riuscì a coinvolgere un nutrito schieramento politico nella città di Napoli facendo sì che i cattolici filo-borbonici, in barba al Non Expedit pontificio, ottenessero diversi successi nelle tornate elettorali della seconda metà dell’Ottocento nella città partenopea. La morte di Francesco II delle Due Sicilie (1894), però, e di molti dei protagonisti dell’assedio di Gaeta e del decennio 1861-1870, determinarono la fine delle pretese politiche da parte dei borbonici e dei legittimisti. Alle elezioni comunali di Napoli del 1911, infatti, nessun cattolico filo-Borbone ottenne un seggio comunale. Come ricorda Carmine Pinto, infine, il conflitto mondiale del 1914 «completò la nazionalizzazione degli italiani e dei meridionali, archiviando la causa perduta borbonica»[9].
La nascita del neoborbonismo
«Questo “neo-borbonismo” ha qualcosa di rozzo, incolto, e alligna in mezzo a gente che non sa nulla del passato, ignora persino la successione del re di Napoli, e che solo “per sentito dire” e per esercitazione fantastica, favoleggia la superiorità del regime borbonico su quello unitario: e del “mito” dell’ex capitale che, prima del nefasto ’60, sarebbe stata “un paradiso”, perduto per colpa dei piemontesi».[10]
Chi conosce i movimenti neomeridionalisti potrebbe pensare che queste parole siano piuttosto recenti. E si sbaglierebbe. Infatti, sono state scritte il 7 aprile del 1960 dal giornalista calabrese Alfredo Todisco (1920-2010), in riferimento alla calorosa accoglienza che i napoletani riservarono al principe Ranieri Maria Gaetano di Borbone durante una visita nella città partenopea. Se si considera, tra l’altro, che tra il 1914 e il secondo dopoguerra il borbonismo non fu oggetto di un dibattito nazionale (cosa che invece successe con la questione meridionale), si potrebbe supporre che il termine “neo-borbonismo” sia stato coniato, appunto, dal giornalista Todisco. Nel resto dell’articolo, comunque, venne descritto il fenomeno neoborbonico: «un movimento che abbia un minimo, di forza politica, di rigore storico e ideologico» ma una «ennesima manifestazione di quel malumore, un po’ anarcoide, di quella vaga protesta, di quel fluttuante malcontento meridionale». Todisco scrisse anche che «ora che i vecchi miti della protesta meridionale – protesta contro l’idea del Nord profittatore dell’unità – sono in declino, ecco il bisogno di “sfogo” dirigersi verso il passato, che la immaginazione degli ignoranti circonda di un favoloso alone di felicità prosperità e benessere»[11].
Insomma, il giornalista calabrese ha immaginato il neo-borbonismo quale pulsione nostalgica scaturita dalla rabbia dei meridionali per le condizioni reali economiche, un appiglio storico a cui aggrapparsi in momenti di difficoltà. Il dato saliente, comunque, è che le credenze dell’ideologia borbonista sottaciute durante il Ventennio siano riemerse dopo molti decenni dalla tradizione popolare napoletana. Di fatti, nello stesso articolo, Todisco racconta di come un pubblicista accusò di «vilipendio alla monarchia napoletana» e sfidò a duello il regista del film Francesco I° re di Napoli (il protagonista era interpretato da Eduardo de Filippo) in cui una popolana schiaffeggiava il sovrano Borbone di Napoli. Un’interpretazione macchiettistica dei neoborbonici, insomma.
A riprova del fatto che esista un continuum tra il legittimismo borbonico e il neo-borbonismo degli anni Duemila, però, potrebbe essere sufficiente ricordare che i neoborbonici del 1960 incontrati dal giornalista calabrese durante la visita del principe Ranieri vantavano «i primati del reame: la ferrovia Napoli-Portici, il varo della prima nave a vapore, lo sviluppo delle strade attorno alla città, il saldissimo regime finanziario (le Due Sicilie erano lo stato più ricco d’Italia), il mite peso del fisco». Parole familiari, no?
Proprio la corrispondenza tra i temi trattati farebbe desumere, dunque, che la narrazione neoborbonica abbia avuto origine nella propaganda voluta da Francesco II subito dopo l’Unità d’Italia. Ma come arrivò alla fine del millennio il neo-borbonismo?
La golden generation
A detta dei neoborbonici, furono lo scrittore Carlo Alianello e i giornalisti Angelo Manna e Aldo de Jaco che ravvivarono lo spirito borbonista di una parte della popolazione meridionale e che ispirarono i neoborbonici della seguente generazione. Negli anni ’90 del Novecento, appunto, su iniziativa del paroliere Riccardo Pazzaglia e del giornalista Gennaro De Crescenzo nacque l’associazione “Neoborbonici”, che è stata fucina di quella che potrebbe essere definita la golden generation del neo-borbonismo.
Le ragioni della crescita esponenziale di questo fenomeno pseudo-nazionalista potrebbero essere molte: le capacità comunicative e propagandistiche di neo-borbonici, la rapidità di diffusione di informazioni negli ultimi due decenni grazie ai social network, il successo letterario del libro Terroni di Pino Aprile o, se si volesse esagerare l’analisi, l’imbarbarimento populista del lettore e la scarsa metodologia storiografica dei neoborbonici. Negli ultimi decenni, inoltre, le diverse attività sia dei simpatizzanti che dei soci dell’associazione di De Crescenzo hanno, verosimilmente, avvicinato gli italiani alle loro tematiche.
Di fatti, oltre alle ordinarie conferenze, convegni e presentazioni di volumi, vi sono state alcune iniziative che hanno avuto rilievo nazionale, specie per il loro carattere provocatorio. Alcune di queste sono state la donazione di una bandiera del Regno delle Due Sicilie all’ex presidente degli USA Bill Clinton, la creazione del “Parlamento delle Due Sicilie”, le contro-celebrazioni delle feste nazionali italiane o le commemorazioni di protagonisti del mondo borbonico come Jose Borges, Francesco II e la regina Maria Sofia. A proposito del “Parlamento delle Due Sicilie”, ad esempio, si tratta di un organo costituito nel 2009 dagli attivisti del “Movimento Neo-borbonico”, fondato nel 1993 dal giornalista Gennaro De Crescenzo e dal paroliere Riccardo Pazzaglia, in cui vi sono dichiarati ministeri e incarichi interni e dove operano attivisti del mondo neo-borbonicocon una rete diplomatica in contatto con i “potenziali” eredi della famiglia Borbone, che spesso patrocinano i loro eventi con il logo della Real Casa di Borbone.
Queste iniziative, probabilmente, hanno permesso ai neoborbonici di raggiungere risultati che travalicano la dimensione divulgativa. Per ragioni di incidenza della quotidianità amministrativa, indubbiamente, il traguardo più evidente è stato raggiunto nel campo dell’odonomastica urbana. Negli ultimi anni, infatti, sono stati molti i casi in cui le vie dei centri comunali sono state rinominate per iniziativa dei sindaci a discapito degli eroi risorgimentali. Il bersaglio preferito dai neoborbonici, in questo senso, è il generale Cialdini, considerato responsabile di alcuni massacri durante la spedizione dei Mille e dopo l’Unificazione. Nell’aprile del 2017, ad esempio, la giunta del sindaco di Napoli Luigi de Magistris gli ha revocato la cittadinanza onoraria, mentre un suo busto di marmo è stato rimosso dalla sede della Camera di commercio di Napoli per via delle proteste di alcuni attivisti neoborbonici. Il comune sardo di Galtellì, invece, recentemente ha deciso di rinominare tutte le strade e le piazze dedicate alla famiglia Savoia; questa iniziativa è stata emulata da molti altri comuni della Sardegna, tra cui Nuoro. Nel comune di San Giorgio a Cremano, inoltre, la piazza Vittorio Emanuele II ha cambiato nome in piazza Carlo di Borbone, mentre nel paese del territorio cosentino Montalto Uffugo, nel 2015, è stata dedicata una via a Ferdinando II di Borbone. Iniziative del genere sono state prese anche dai comuni di Sant’Arpino e di Calvizzano, entrambi hanno intitolato una via “Re Carlo di Borbone”. Dal sito di un istituto scolastico di Scafati, infine si nota che, lo stesso, dall’anno scolastico 2019/2020 è stato denominato Istituto Ferdinando II di Borbone. Insomma, sebbene, per il momento, questi casi siano sporadici, l’odonomastica in Italia sta cambiando e lo sta facendo perché i neoborbonici si stanno preoccupando di memoria storica collaborando con le amministrazioni locali.
A proposito di memoria e amministrazioni politiche, un’altra iniziativa che ha avuto un clamore nazionale è stata la proposta di istituire un “Giorno della memoria per le vittime del Risorgimento”. Dapprima, questa mozione è stata presentata ai consigli regionali di Campania, Puglia, Abruzzo e Molise da alcuni consiglieri membri del Movimento 5 Stelle; in un momento poco successivo, invece, la proposta è arrivata anche nell’aula del Palazzo Madama. Il 28 febbraio del 2017, infatti, il parlamentare pentastellato Sergio Puglia è intervenuto, rivolgendosi al presidente del Senato Pietro Grasso, con un discorso oramai celebre negli ambienti neo-borbonici[12]. Per il contesto in cui sono state pronunciate, questo potrebbe essere considerato tra i più grandi risultati conseguiti dalla comunità neo-borbonica. Il senatore Puglia, infatti, non si è limitato a riportare il pensiero meridionalista di protagonisti della storia recente italiana quali Garibaldi, Gramsci, Montanelli e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ma ha citato integralmente le parole della prima pagina del libro Terroni di Pino Aprile in cui si parla di «annessioni», violenza «nazista», «operazioni antiterrorismo, come in marines in Iraq», «libertà di stupro» e di «conquistadores» in merito all’unificazione italiana. Insomma, un risultato importante perché, per la prima volta, i neoborbonici hanno avuto una risonanza nel contesto nazionale.
Per quanto concerne la sfera politica, ancora, i neoborbonici sono riusciti a coinvolgere il Movimento 5 Stelle in una proposta di legge che si sarebbe dovuta denominare Agenda Sud 34% nel periodo preelettorale del marzo 2018. In pratica, il neo-borbonico Domenico Iannantuoni (che è anche il fondatore del comitato contro il Museo Lombroso di Torino chiamato “No Lombroso”) ha indetto una petizione sul sito web www.change.org per chiedere al Governo italiano di vincolare il 34 per cento delle risorse ordinarie per lo sviluppo dei territori del Mezzogiorno. Tra i primi 32 firmatari della petizione risultavano nomi celebri del neo-borbonismo tra i quali lo stesso Iannantuoni, Pino Aprile, Gennaro De Crescenzo e personalità legate alla cultura meridionale come il cantante pugliese Albano Carrisi, lo scrittore Mimmo Gangemi e l’imprenditore calabrese Pippo Callipo.
A ogni modo, attraverso l’economista calabrese Pasquale Tridico, che prima delle elezioni era stato designato dal Movimento 5 Stelle come ministro del lavoro in pectore, la proposta è stata inserita nel programma elettorale dei pentastellati, anche se dopo le elezioni del 4 marzo l’interesse politico per la proposta dei neoborbonici è scemato e si è concretizzata solo quella dell’istituzione del Ministero del Sud. Comunque, sebbene i movimenti sudisti abbiano avuto sempre dei corrispettivi partititici quali Mo! – Unione Mediterranea, Movimento di Insorgenza Civile, Partito Separatista delle Due Sicilie, L’altro Sud e molti altri[13], Pino Aprile e altri esponenti del sudismo hanno fatto un appello ai propri follower sui social network a votare il M5S prima delle elezioni del 4 marzo[14], e la vicenda di Pasquale Tridico con la proposta de l’Agenda Sud 34 % nonché l’intervento del parlamentare Sergio Puglia in Senato dimostrano, oltre che una relativa vicinanza ideologica, una compatibilità elettorale. È stato lo stesso Pino Aprile, infatti, che il giorno dopo le votazioni ha dichiarato che «il confine geografico del successo Cinque Stelle è esattamente lo stesso dell’ex Regno delle due Sicilie»[15].
Notoriamente, inoltre, tra i bersagli politici preferiti da Pino Aprile vi è il partito Lega, originariamente Lega Nord. Recentemente, come dimostrano le attività su Facebook e nei talk show televisivi, il mondo neo-borbonico si sta opponendo vigorosamente all’iniziativa dell’autonomia differenziata delle regioni, richiesta da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e che lo stesso Aprile ha definito «la nuova strategia delle regioni secessioniste». Questo dimostrerebbe che nel variegato mondo neo-borbonico esiste anche una componente politica attenta ed esigente, che coopera con quella associazionistica-culturale ma che non è detto che non possa sostituirsi completamente a questa. Il primo passo verso il completamento di questo processo politico è avvenuto il 24 agosto del 2019 all’interno del Parco storico della Grancia, nel Potentino. Difatti, è qui che Pino Aprile e numerosi altri meridionalisti protagonisti del neo-borbonismo dell’ultimo ventennio hanno costituito il “Movimento 24 agosto per l’Equità Territoriale” che si propone, forse sul modello del Movimento 5 Stelle, come forza politica meridionalista. Bisognerà aspettare un paio di anni prima di storicizzare il neonato movimento “nazionalista”.
Nazionalismo meridionale? L’Italia dovrebbe preoccuparsi?
Senza incomodare i massimi teorici del concetto di popolo, nazione e nazionalismo (da Erodoto a Weber), e prendendo in considerazione parametri elementari quali lingua, storia comune e cultura, si potrebbe legittimamente affermare che esiste una vera e propria identità meridionale e un concomitante nazionalismo. È un dato, infatti, che le regioni del meridione abbiano una strutturale unitarietà linguistica, che abbiano avuto in comune dominazioni, reggenze, vassallaggi e che abbiano cultura alimentare, modus vivendi, culti, devozioni e diversi altri fattori storico-antropologici comuni. È comprensibile, quindi, che i neoborbonici abbiano pretese simili a quelle tipiche di altri nazionalismi.
Ma il fatto che all’interno di una nazione come quella italiana esistano dei patriottismi come quello meridionale, come quello dell’indipendentismo siciliano e sardo o come quello separatista della Lega Nord [16] e del Südtirol, rappresenta un’eccezione? No. Infatti, è un dato quello della non-proporzionalità tra il numero di popoli e paesi. In breve: esistono migliaia di popoli che vivono all’interno di (solo) circa 200 nazioni riconosciute dalla comunità internazionale. Dunque, che ci siano delle pulsioni nazionaliste all’interno di un Paese è, oltre che naturale, istoriologicamente comprensibile. Basti pensare ai nazionalismi del continente europeo: della Spagna (Catalani e Baschi), della Francia (Corsi, Bretoni e Normanni), del Regno Unito (Gallesi, Scozzesi, Irlandesi del nord e abitanti delle isole Fær Øer e isole Shetland), del Belgio (Fiandresi e Valloni), della Germania (con i territori della Slesia), o a quelli degli anni ’80 e ’90 dello scorso secolo nei territori della Iugoslavia e dell’Unione Sovietica.
Potrebbe essere, dunque, che il neoborbonismo, così come descritto, rappresenti un unicum? No. E che invece, proprio come alcuni meridionali hanno idealizzato l’epoca dei Borbone, altri popoli abbiano ricercato nel proprio passato un tempo attorno a cui stringersi culturalmente per costituire o “ricostruirsi” nazione? Assolutamente sì. «Le potenze riscrivono il passato per compattare il fronte interno in vista della resa dei conti» recita la copertina di una famosa rivista italiana di geopolitica [17]. Infatti, la ricerca nel passato, la riscrittura o la reinterpretazioni di alcuni fatti storici fanno parte antropologicamente della storia dell’uomo.
In Romania, per fare qualche esempio, il popolo si è sempre fregiato della propria (antica) romanità parlando di sé stesso come figlio dell’incontro tra Latini e Daci che diede vita, secoli dopo le invasioni slave, magiare e tatare, all’etnia Valacca. Durante l’epoca del comunismo, invece, il governo di Tito, nel tentativo di creare una coscienza panslava, cominciò a parlare dei rumeni come diretti discendenti dei Daci e quest’ultimi come popolo slavo che nulla aveva a che fare con i Latini. Allo stesso modo che con i rumeni, ma poco tempo prima e con l’obiettivo della costituzione di un’unica nazione, intellettuali e politici croati, serbi e sloveni avevano convinto i loro connazionali dell’esistenza fattuale di una regione, la Slavia, abitata anticamente dai mitici popoli Slavi e antenati di tutti gli abitanti di quella parte di Europa orientale che soffriva la dominazione asburgica. Il tentativo di acculturazione funzionò e proprio in quegli anni nacque il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni che sarebbe divenuto Iugoslavia nel 1929. È un fatto storico che dovrebbe ammonire gli studiosi e politologi contemporanei: “attenzione, la propaganda spariglia i pedoni nello scacchiere della storia dei popoli”.
Un altro esempio potrebbe rappresentarlo l’Iran. Infatti, se per diversi secoli gli storiografi musulmani che abitavano l’altopiano iranico si sono prodigati nella traditio storica esclusivamente musulmana – avendo come modello di riferimento quella sasanide prima e quella safavide dopo –, i primi anni del Novecento hanno dato una nuova consapevolezza agli studi nazionalisti iraniani: “è esistita anche la società greco-romana”. Ed è per darsi delle radici profonde, europeiste e in qualche modo nazio-imperialiste che gli intellettuali, storiografi e il popolo iraniano cominciarono a magnificare e si strinsero attorno a due nuovi eroi preislamici: Dario e Ciro il Grande, che proprio come i Borbone per i neoborbonici, diventano il massimo esempio di “buongoverno”. Il periodo è quello della rivoluzione costituzionale del 1906. Un momento fondativo, perciò decisivo per la sorte nazionale [18].
Si potrebbero fare molti altri esempi ma si faranno solo alcune ultime considerazioni sul revisionismo storiografico contemporaneo: si pensi all’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo negli Stati Uniti da parte delle comunità indios (qualcosa di simile hanno fatto i neoborbonici in Italia), alle rivendicazioni energiche degli amerindi mapuche in Cile, al patriottismo anacronistico filo-russo degli abitanti della Crimea, ai disordini creati a largo di Kastellorizo e del Dodecaneso dalla Turchia di Erdogan, che da anni cerca di acculturare il popolo, nel tentativo di creare una grande patria del mare (“Patria blu”) nel Mediterraneo, glorificando il passato selgiuchide con l’intento di rinsaldare il proprio elettorato e quello dei seguaci di Kemal Ataturk, compianto eroe nazionale mai dimenticato dal popolo turco [19], e ritagliarsi uno spazio importante tra le potenze mondiali Cina, Russia e USA.
In summa: policy maker, intellettuali e storiografi di ogni latitudini attingono alle fonti del passato per raccogliere materiale da plasmare a proprio piacimento. Bisogna fare attenzione, però, perché questa ricerca scriteriata, come si è visto sopra, ha avuto contrappassi violenti. Non si può escludere, perciò, che nel Mezzogiorno non possa avvenire la stessa cosa (anche alle luce delle disparità economiche tra Nord e Sud acuitesi dopo la crisi pandemica degli ultimi tempi). Per un’analisi completa del fenomeno, in conclusione, il neoborbonismo deve essere immerso in questo variopinto panorama di revisionismi storiografici – accelerati negli ultimi tempi dalla propaganda sui social network, dalle fake news e dalla pseudostoria – tenendo però in considerazione il fatto che abbia origini profonde nella spaccatura prodotta dal concitato e violento processo di unificazione italiana. Da un lato, dunque, bisognerà studiarlo con una prospettiva comparativista, correlandolo con i nazionalismi e i revisionismi del passato e della contemporaneità, dall’altro, infine, sarà necessario sciogliere ogni dubbio istoriologico paventato dai neoborbonici, facilitando la comprensione del Risorgimento e delegittimando le fonti nocive della letteratura filoborbonica. Insomma, per scongiurare l’avvento di scenari rivoluzionari nel Meridione sarà necessaria una sola azione: studere, studere, studere.
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] C. Pinto, Sovranità, guerre e nazioni. La crisi del mondo borbonico e la formazione degli Stati moderni (1806-1920), in Aa.Vv, Crolli Borbonici, Viella, Roma 2014: 11.
[2] I. Montanelli, Il crepuscolo dei Borbone, in L’Italia del Risorgimento (1831-1861), Rizzoli, Milano 1972.
[3] C. Pinto, La nazione mancata, in M. P. Casalena, Antirisorgimento, Appropriazioni, critiche, delegittimazioni, Edizioni Pendragon, Bologna 2013: 95.
[4] T. Cava, Difesa nazionale napoletana di Tommaso Cava, Capitano dello Stato Maggiore dell’Esercito delle Due Sicilie, Capo dello Stato Maggiore della piazza di Capua durante l’assedio del 1860, s.n., Napoli, 1863: 52-53
[5] Ordine del re, Gaeta 31 ottobre 1860, firmato Francesco in L. Gaeta, Nove mesi in Messina e la sua cittadella cronaca dei fatti avvenuti dal 24 giugno al 25 marzo 1861 per G.L. ufficiale di stato maggiore del disciolto esercito, Longo, Napoli 1862: 86-87.
[6] Ordine del re alla guarnigione di Gaeta, 13 febbraio 1861 firmato Francesco, in ibidem: 118-119.
[7] Ordine alla guarnigione di Messina, 26 novembre 1860, firmato Fergola, in ibidem:70.
[8] C. Pinto, Gli ultimi borbonici. Narrazioni e miti della nazione perduta duo-siciliana, in Aa.Vv, Cause perdute. Memorie, rappresentazioni e miti dei vinti, Viella, 2017: 63.
[9] Ivi: 80.
[10] A. Todisco, C’è un «pretendente» al trono di Napoli e qualcuno sembra prenderlo sul serio, La Stampa, 7 aprile 1960.
[11] Ibidem.
[12] Legislatura 17ª – Aula – Resoconto stenografico della seduta n. 772 del 28/02/2017, in www.senato.it.
[13] Dal 2019, i più importanti partiti e movimenti sudisti si sono riuniti nella Confederazione dei Movimenti Identitari le cui informazioni si possono trovare in www.meridem.org.
[14] Lo dimostrano i post delle pagine neo-borbonici pochi giorni prima delle votazioni del 4 marzo 2019 e l’intervento di Pino Aprile nel programma televisivo Nemo il 5 marzo 2018.
[15] M. Sarti, Pino Aprile: «Il Sud ha votato in blocco i Cinque Stelle perché si è rotto i coglioni», in www.linkiesta.it, 6 marzo 2018.
[16] Per approfondire si legga F. David, Dalla Padania tribale alla Nazione sovrana: l’identità secondo la Lega, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 34, novembre 2018.
[17] Aa.Vv., È la Storia, Bellezza!, Limes, 8/2020.
[18] Per approfondire si guardi M. Lauri, La costante reinvenzione dell’identità iranica, in Aa.Vv, È la storia bellezza, già cit.: 187-205.
[19] Per approfondimenti si leggano D. Santoro, La corsa turca agli oceani: 45-67, e M. Ansaldo, La Patria blu nel mondo occidentale: 67-77 in Aa.Vv, Il turco alla porta, Limes, 7/2020.
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Andrea Bagalà si è laureato in Scienze Storiche all’Università di Messina dopo aver conseguito, nella stessa università, una laurea triennale in Lettere Moderne. Ha svolto un periodo di mobilità all’Universidad de Sevilla e ha lavorato, grazie a una borsa di studio fornita dalla Conferenza dei Rettori delle Università Italiana e dal Ministero per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale, presso l’Istituto Italiano di Cultura di New York. Attualmente è un docente di Lettere.
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