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I bambini e noi. Conversazione con Margherita Rimi

b09r7vf596-01-_sclzzzzzzz_sx500_di Nicolò Scandaliato

Dell’infanzia la cronaca racconta ogni giorno storie ora drammatiche ora squallide. Sequestri, sevizie, maltrattamenti, violenze, discriminazioni, traumi. Dei bambini e delle loro vicende sovente si scrive in modo improprio o approssimativo. Chi se ne occupa con una sensibilità umana prima ancora che con profonda competenza professionale è l’autrice del volume recentemente edito da Marietti, Il popolo dei bambini. Ripensare la civiltà dell’infanzia, Margherita Rimi, neuropsichiatra infantile che svolge una intensa attività per la cura e la tutela dell’infanzia e dell’adolescenza, impegnata in prima linea contro violenze e abusi sui minori e a favore dei bambini portatori di handicap. Medicina e poesia costituiscono un connubio indissolubile per Margherita Rimi: infanzia e diritti dei minori sono il fondamento del suo vivere e agire. Ha pubblicato numerose raccolte di versi e nel 2017 le è stato conferito il premio Piersanti Mattarella per la poesia, assegnato per la silloge Nomi di cosa-Nomi di persona (Marsilio 2015).

L’attività di medico e quella di saggista e poeta si intrecciano in questo saggio che tratta del tema di elezione di Margherita Rimi. L’autrice indaga e riflette sui bambini e sull’adolescenza e ne individua tratti comuni e segni distintivi che si erigono ad unicum di assoluta originalità. Un popolo, un mondo a parte, una civiltà “altra” di cui la studiosa individua la lingua, universale, unica, spontanea, che rifugge ogni regola che non sia la condivisione dell’esperienza: il gioco e i giocattoli costituiscono l’occasione unica, non banale ma vera, per esplorare la cultura del bambino che, spesso, approfittando della connaturata fragilità, può diventare oggetto di abuso.

La scrittura sfiora, con competenza e rigore, il dominio delle scienze umane, della antropologia, della sociologia, del diritto, della letteratura, del cinema. L’autrice cita Winnicot, Freud, Piaget, Frobel, Montessori, Manzoni, Collodi, Pitrè, Tolstoj, Rodari, Comencini, De Sica, e tanti altri ospiti e compagni di viaggio. Mirabili le incursioni letterarie: la giovane futura monaca di Monza, indimenticabile figura de I Promessi Sposi, diventa occasione di riflessione sulla manipolazione che dei minori fanno gli adulti, mentre il Pinocchio di Collodi e l’opera di Pitrè rincorrono il gioco e il giocattolo come strumenti di conoscenza atavica dell’essere e vivere bambino.

Margherita Rimi

Margherita Rimi

Abbiamo incontrato Margherita Rimi per conoscere più da vicino le motivazioni da cui muove l’ispirazione del libro e per approfondirne i contenuti.

Le parole di “popolo” e “civiltà”, sui quali si incentra questa tua fatica, hanno una accezione semantica non riferibile immediatamente ai domini della medicina e della letteratura eppure, su questi termini, molto ti sei spesa. Tutto il primo capitolo è dedicato a questo argomento. Il senso dei termini usati va al di là dell’uso gergale e, nelle argomentazioni che si dipanano dalle pagine del libro, si avverte l’intenzione – ma anche la tensione affettiva e intellettuale – di delineare uno statuto di legittimazione dell’entità Popolo riferito ai bambini e all’infanzia, con plurimi rimandi a lemmi dalla semantica antica e radicata nella nostra cultura ma anche con riferimento a studiosi e operatori del calibro di Winnicot, Freud, Frobel, Montessori, ecc…. Potresti spiegare quale significato hai inteso attribuire ai termini “popolo” e “civiltà” riferito a “bambini” e “infanzia”?    

«Popolo dei bambini è un concetto che ho maturato nel tempo, grazie alla pratica del mio lavoro di neuropsichiatra infantile e agli studi scientifici e letterari. Io considero i bambini un popolo perché rappresentano una comunità universale esistita in ogni tempo e in ogni luogo, che, per le caratteristiche peculiari dei bambini stessi, supera le barriere del concetto di razza, terra, religione, lingua, limiti geografici, così come concepito dagli adulti e giustamente dal Diritto, e lo rappresentano in una visione nuova. Il popolo dei bambini è dunque un popolo sui generis per aspetti fisici e mentali, di crescita e di sviluppo, per quello che producono nel gioco, nel linguaggio, nel pensiero, nel disegno: caratteristiche che li accomunano tutti in ogni parte del mondo. Il popolo dei bambini ci rappresenta una nuova umanità. È “legittimato” da questa nuova umanità. Dobbiamo essere riconoscenti per questa loro natura e comprenderli più profondamente. Ho fatto riferimento a tanti autori che hanno studiato i piccoli da diversi punti di vista: dalla medicina alla pediatria, dalla psicoanalisi alla pedagogia e psicologia, dalla letteratura alla storia. Necessaria è stata l’esplorazione delle basi antiche del concetto di popolo e ci sono state delle belle sorprese: dal greco óchlos, “folla, schiera chiassosa”, oppure dal latino populus, “generazione, continuità della stirpe, successione, fioritura, ramo” (secondo i dizionari di Giovanni Semerano).
Io penso che bambine e bambini siano portatori di una civiltà, quella che io chiamo civiltà dei bambini, costituita dal loro patrimonio linguistico, di impulsi e sentimenti, di fantasia, di gioco e innocenza, di pensiero e cognizioni. Una civiltà costituita dalla loro storia, fatta anche dal loro corpo, di malattie da curare, e violenze da combattere. Una civiltà costituita da tutto quello che un bambino è. Il popolo dei bambini è dunque portatore di una civiltà che noi dobbiamo comprendere e apprendere meglio con il cuore e la mente e insieme a loro, e non interpretare secondo i nostri schemi, con i nostri modelli di adulti. È da questa civiltà che bisogna partire e agire nel creare condizioni che sempre più si confacciano ai bisogni dei bambini, alla loro tutela, al loro stesso essere al mondo. Dobbiamo pensare, immaginare e costruire non solo per loro, ma soprattutto con loro».        

I bambini sono un gruppo umano che costituisce un popolo a tutti gli effetti. Perché? 

«Sono un popolo per le peculiarità di cui ho detto sopra e per queste peculiarità sono portatori di una civiltà che io ho chiamato civiltà dei bambini dalla quale abbiamo bisogno di attingere per un futuro migliore».

Secondo natura e secondo diritto, un popolo, si identifica per la stanzialità in uno spazio determinato, per essere depositario di cultura e tradizioni comuni perpetuati attraverso la lingua. Considerando che non ti riferisci ai bambini di un luogo ben determinato ma ai bambini in generale, di ogni cultura e nazione, quale lingua parlerebbe il popolo dei bambini?

«La lingua del gioco è la lingua universale dei bambini. Se si incontrano quattro, cinque bambini di nazionalità diversa, di lingua e religione diverse, sapranno trovare il modo di giocare tra di loro. Perché il gioco può fare a meno del linguaggio verbale ma, paradossalmente, è una potente lingua della comunicazione tra bambini, che comprende divertimento, curiosità e creatività, movimento e invenzione. Potremmo definirlo un metalinguaggio».

Nel libro scrivi di “bambini come popolo fragile, oppresso e sofferente, che ha attraversato i secoli bui della storia”. A cosa ti riferisci?

«La storia dell’infanzia è costellata da violenze di ogni genere. Il popolo dei bambini è stato il popolo più oppresso e perseguitato, quello più maltrattato e torturato nella storia dell’umanità. E, ancora oggi, subisce violenze e crimini di ogni genere: pensiamo ai bambini kamikaze utilizzati in azioni terroristiche come bombe umane, ai bambini soldato addestrati alla violenza e alla crudeltà; e ancora alla prostituzione minorile, alle “spose” bambine; pensiamo ai bambini che, in alcuni Paesi, vengono venduti dai genitori per lavorare nelle miniere o nelle fabbriche. In molti Paesi mancano le più elementari leggi a tutela dei minori. E poi si pensi ai regimi del passato e del presente sotto i quali tanti bambini vengono addestrati ed esposti, sin da piccoli, alla violenza e all’odio, “educati” esclusivamente con le armi. Si pensi all’Olocausto che ha coinvolto anche i bambini, sottoposti ad ogni sorta di esperimenti da parte dei medici nazisti. Tutto ciò ha rappresentato e rappresenta tutt’oggi la distruzione e la disumanizzazione dei piccoli da parte degli adulti, un violento sradicamento di tutte le peculiarità dell’infanzia. Una profanazione. Bambini e bambine: un popolo emblema e monito di tutta la sofferenza dell’umanità, della spietata crudeltà dell’essere umano. Del male».

i_diritti_del_fanciullo_0_0Rispondendo alla domanda, ci hai portato indietro nella storia per rivivere fatti e avvenimenti poco edificanti che hanno riguardato il “popolo dei bambini”. Ma, nei tempi più recenti e nel secolo appena passato, le Nazioni e le organizzazioni sovranazionali hanno legiferato a tutela i minori. Nella tua visione, ritieni sufficiente l’intervento del Legislatore?

«La Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, è il più importante strumento mondiale di tutela dei diritti dei bambini, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989. Ma la sua è una lunga storia, che ha origine agli inizi del Novecento nel 1923, con la prima Carta scritta da Eglantyne Jebb, fondatrice anche di Save the Children, ratificata nel 1924, a Ginevra dalla Società delle Nazioni. E poi, nel 1959, una nuova dichiarazione venne approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Con la Convenzione del 1989 bambini e bambine diventano soggetti di diritto pari all’adulto, e soggetti giuridici nuovi, portatori di diritti particolari proprio per le loro peculiarità e condizioni. Nella Convenzione sono contemplati il diritto elementare alla vita, alla salute fisica, psichica, morale e spirituale, all’educazione e alla cittadinanza, il diritto di espressione e di opinione. E anche i diritti dei piccoli con handicap. Vengo­no stabilite protezioni contro la violenza, l’abuso sessuale e lo sfruttamento dei minori, e definite le responsabilità genitoriali e degli adulti. Si dichiara anche che, a loro volta, i fanciulli vadano educati alla responsabilità e al rispetto verso gli adulti e l’ambiente. È una Carta di grande valore morale, etico e civile, oltre che giuridico. In Italia, nell’ultimo ventennio, diverse sono state le leggi emanate a tutela dei piccoli: contro l’abuso sessuale e il maltrattamento; contro lo sfruttamento sessuale, la pedopornografia, il turismo sessuale; contro il lavoro minorile. E leggi a tutela dei diritti di bambini e bambini portatori di handicap. È stato inoltre introdotto il concetto di pedofilia e pedopornografia culturale. Penso che la cultura giuridica stia facendo dei notevoli passi avanti, così come la scienza medico-pediatrica, psichiatrica e psicologica e pedagogica. Ma è necessario sostenere in altri ambiti questi sforzi. È necessario che la politica e le amministrazioni mettano in atto interventi strutturali e sociali più incisivi a favore dei piccoli e delle famiglie. Anche gli intellettuali, la letteratura e l’arte è necessario che svolgano la loro parte».

Apri il secondo capitolo con l’incipit: “Esiste una civiltà che non consideriamo tale: la civiltà dei bambini”. Potresti spiegare quali atteggiamenti e/o quali ostacoli impediscono la generale e consapevole presa d’atto dell’esistenza di una civiltà dei bambini?    
           
«L’ostacolo principale per l’adulto è di assumere lo sguardo dell’altro, in questo caso particolare quello dei piccoli, la loro alterità. Questa posizione diviene essenziale per poter comprendere la civiltà di cui sono portatori bambine e bambini. E cioè di tutte le loro caratteristiche psico-fisiche, intellettive, di creatività, curiosità e fantasia, sentimento, tutto quello che producono: linguaggio, gioco, disegno, pensiero, opinioni, scritti, movimento corporeo. La ricerca a cui bambini e bambine si dedicano negli anni della loro crescita, in ogni parte del mondo. Gli adulti, nella loro presunta superiorità di conoscenza e supremazia fisica, non si accostano ai piccoli per ascoltarli come meritano, per assumere la loro prospettiva, la loro visione, per interloquire con loro adeguatamente, per ascoltare le loro specificità, il loro sapere. I piccoli hanno una loro sapienza. Un’umanità diversa. Se la posizione dell’adulto, in tutti i settori del sapere umano, diviene più sensibile, più responsabile verso la civiltà dei bambini, di cui io teorizzo l’esistenza, il mondo potrebbe essere migliorato grazie e con i bambini stessi.  Tramite il loro apporto. Non a caso Maria Montessori asserisce che il bambino è maestro nel senso latino di guida. Credo fermamente che una possibile evoluzione del mondo possa essere compiuta dalla civiltà dei bambini».

Leggendo il libro mi sono imbattuto nell’espressione “Civiltà dell’infanzia”. Si tratta di una espressione che, nonostante le assonanze linguistiche con la “civiltà dei bambini”, hai ritenuto necessario dover chiarire e precisare nel suo significato storico, medico, pedagogico e letterario.  La civiltà dell’infanzia è un riflesso di quella che noi chiamiamo la civiltà dei bambini? Puoi aiutarci a comprendere le differenze? 

«Fino ad oggi si è affermata «la civiltà dell’infanzia»: questa è un’acquisizione della nostra cultura, e rappresentata da tutto quello che l’adulto ha costruito per i piccoli, dall’istruzione alla medicina pediatrica, dalla psicologia dell’infanzia ai Tribunali per i Minorenni, alla letteratura, alle biblioteche, alle leggi per la tutela dei minori. Include tutte le iniziative promosse nel contesto familiare e sociale, sanitario, e anche nel campo politico e legislativo, culturale ed educativo, e che pongono una speciale attenzione al bambino e ne favoriscono al meglio la tutela, il rispetto, lo sviluppo della personalità.  Non sempre, però, quello che è stato creato e pensato dagli adulti per bambini e bambine è stato utile a loro: pensiamo ad alcuni modelli educativi e alla storia dell’educazione, e anche oggi ad alcuni giocattoli non proprio adeguati, o ad alcuni modi di abbigliarli, alcuni modi di arredare le stanze, alcuni modi di parlare con cui gli adulti si rivolgono ai piccoli, cose che non fanno il bene dei bambini, anzi hanno causato e causano danni. Perciò noi abbiamo introdotto il concetto di civiltà dei bambini: tutte quelle caratteristiche psico-fisiche, intellettive, di creatività, di gioco, linguaggio che i bambini portano dal loro mondo. Su questo è necessario riflettere: cambiare ottica e prospettiva, a partire da modelli di pensiero dell’adulto applicati ai piccoli. Come ho scritto prima, partire dai bambini stessi, dal loro punto di vista, da quello che ci portano: dalla loro civiltà».

9788810567340Nel terzo capitolo affronti il tema del Gioco e spieghi che il gioco è la lingua del popolo dei bambini e che tutti, da bambini, non abbiamo potuto fare a meno di parlare. Al gioco hai dedicato un interessante excursus storico e scientifico, trattato in modo semplice e colloquiale, seppure rigoroso là dove necessario e, comunque, con tono e modo intrigante così da stimolare il lettore all’approfondimento.  A questo punto ti chiedo: sulla premessa che, almeno nelle prime fasi della vita tutti abbiamo giocato, al “gioco” come strumento e mezzo di comunicazione, gli adulti, i letterati, gli studiosi (cioè gli ex bambini), che valore riconoscono?

«Emblematiche sono espressioni come “vai a giocare ma non sporcarti”, e ancora “smettila di perdere tempo a giocare e vai a fare i compiti”: frasi che spesso ci siamo sentiti dire nella nostra infanzia. Queste contengono la costruzione di un pensiero squalificante del gioco. Nel primo caso è anche una contraddizione: come fa un bambino a giocare senza “sporcarsi”? Una forma di limitazione in cui i piccoli vengono ingabbiati; e meno male che disubbidiscono. Meno male che si “sporcano”, meno male che si divertono, che vanno con i piedi nelle pozzanghere. E meno male che Collodi con il suo straordinario Pinocchio ci riporta a questa immagine del bambino-burattino che vive la sua avventura del gioco e della vita, che fugge, si brucia i piedi, ha paura, gioisce, rischia perfino la morte. Pinocchio demistifica i luoghi comuni della borghesia come ci ricorda Daniela Marcheschi nel suo saggio Il naso corto (Bologna, EDB, 2016) e, con il suo stesso essere bambino-burattino, rende più forte e riafferma l’identità dell’infanzia.

La seconda espressione, che ho usato all’inizio, sottintende l’idea, oltre di squalifica del gioco, anche di una netta separazione tra l’impegno scolastico e il gioco. Tra le cose serie e le cose non serie. Ma spesso per i bambini non c’è una scissione così netta e i piccoli imparano meglio giocando anche a fare i compiti, o per esempio ad espletare lavori domestici: le recenti ricerche delle neuroscienze lo confermano. Per i piccoli vita e gioco si embricano fino ad una certa età. Noi adulti dovremmo ricordarci di essere stati bambini e di avere provato quell’irresistibile attrazione verso il gioco e la vita. Il gioco è una delle massime espressioni della civiltà di bambini. Un emblema. A tal proposito cito alcuni libri interessanti: Il gioco dei bambini (Roma, Carocci, 2002) di Emma Baumgartner; Gioco e infanzia, a cura di Andrea Bobbio e Anna Bondioli (Roma, Carocci, 2019)». 

9788843054367-2Ora una domanda che rientra nel tuo campo professionale. Guardando al tema del gioco con la prospettiva del neuropsichiatra infantile, possiamo dire che il gioco, quale lingua universale che caratterizza il “popolo dei bambini”, è esclusivo solo dei bambini c.d. normodotati?

«Sanno giocare tutti i bambini del mondo e lo hanno fatto in tutte le epoche perché fa parte della loro natura. I bambini sono gli inventori del gioco e inventori di gioco. Giocano anche i piccoli affetti da patologie, giocano anche quelli con disturbi neuropsichici, anche se in un modo che io definirei più singolare: è più frammentario, più irregolare e meno organizzato, ma non per questo meno interessante. A me appare anzi più suggestivo, per certi aspetti: è come scoprire una rappresentazione del mondo differente. Solo alcuni bambini che presentano un Disturbo dello Spettro dell’Autismo grave non sanno giocare: essendo l’autismo un disturbo socio-comunicativo, in un quadro clinico grave, la capacità ludica viene gravemente compromessa. A dimostrazione che il gioco ha anche una funzione comunicativa. L’esame delle capacità e delle qualità di gioco di un bambino rappresenta per il clinico un importante aspetto della valutazione psichica; anche in alcuni casi di abuso sessuale e maltrattamento ci accorgiamo delle violenze nella rappresentazione del gioco. Il gioco accade prima delle parole nei bambini. Il gioco, inoltre, può rientrare nell’ambito del sostegno psicoeducativo per migliorare lo sviluppo dei bambini normodotati e anche di quelli con disabilità psicofisica e intellettiva. Infatti le attività ludiche vengono anche utilizzate nelle terapie riabilitative e psico-riabilitative: Winnicott, pediatra e psicoanalista, scrisse che dobbiamo tanto al gioco dei bambini (Gioco e realtà, Roma, Armando, 2006). Il gioco, dunque, è tante cose assieme e molto importanti, un’attività indispensabile per lo sviluppo globale dei bambini, fisico e psichico: incorpora curiosità, creatività e fantasia, socialità, affettività e sentimenti, e ancora intelletto e apprendimenti e corpo, sensorialità e movimento. È una attività indispensabile per sperimentare sé stessi e la realtà. La libertà di creare. Negli ultimi decenni si sono incrementati gli studi in diversi ambiti di ricerca, ma ancora oggi il gioco appare, per molti aspetti, un fenomeno di straordinario fascino, forza, e mistero».

9788883588020_0_536_0_75Il lavoro dei bambini è il gioco; gli strumenti di lavoro i giocattoli. Quando affronti il tema del giocattolo, affermi: “il giocattolo è un ponte, uno scambio continuo tra l’operare della fantasia dei piccoli e il mondo dell’adulto. un vero e proprio miracolo della relazione umana …” ed ancora “il gioco e il giocattolo sono il grande romanzo della vita dell’infanzia …”. Il giocattolo, quindi, uno strumento di lavoro e, come tale, necessario allo svolgimento di una attività. A pagina 59, la tua argomentazione si arricchisce, sottilmente, con il richiamo all’opera summa di Alessandro Manzoni: nel romanzo dei Promessi Sposi, un personaggio, in particolare, offre lo spunto per arricchire la riflessione sul rapporto bambino e adulto, giocattolo e manipolazione. potresti aiutare a capire le dinamiche che coinvolgono – anche nell’uso dei giocattoli – la relazione tra i bambini e quello degli adulti?          

«Come ho già detto il gioco è una grande invenzione dei piccoli e nonostante i numerosi tentativi del mondo degli adulti di estrometterlo, di squalificarlo, impedirlo – poiché esso si fonda su altri principi – ha resistito nel tempo, perché connaturato a bambini e bambine. La lingua del gioco è per noi in parte come una lingua straniera, misteriosa. Nel bambino molto piccolo, per esempio, la madre si inventa una lingua particolare, chiamata motherese, per rispondere alle sue vocalizzazioni. Una lingua primaria di intesa tra madre e bambino che è impregnata di gioco attraverso la reciprocità fisica e affettiva. È a iniziare da lì che nel gioco converge il miracolo della relazione umana tra adulto e bambino. Ma i giocattoli e il gioco possono essere manipolati per diversi scopi: Manzoni, nei Promessi Sposi, ci dà un esempio di grande letteratura con la storia della piccola Gertrude divenuta poi la monaca di Monza. Gertrude, il cui destino in monastero era già stato deciso dai genitori prima della sua nascita. La relazione tra il padre e la bambina, tra la famiglia e la piccola Gertrude è connotata da continue sopraffazioni, ora con le parole, ora con i comportamenti e soprattutto con i giocattoli che le erano regalati: bambole abbigliate da monaca. Così scrive il Manzoni «Bambole vestite di monaca furono i primi balocchi che le diedero in mano; poi santini che rappresentavano monache; e que’ regali erano sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto. […] Nessuno, però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentalmente, in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri». In questo caso il giocattolo finalizzato al gioco, allo sviluppo, e affidato alla fantasia del bambino, diviene uno strumento per violare e condizionare, piegare la bambina al volere degli adulti. Sappiamo poi la fine che ha fatto la piccola Gertrude la cui infanzia è stata conculcata. Questo a dimostrazione che la letteratura, con i grandi scrittori, a volte anticipa i tempi, e cioè quello che la psicologia e la psicopatologia dello sviluppo hanno dimostrato successivamente con studi e ricerche scientifiche».    

9788843095230La prossima domanda è attualizzata da tristi avvenimenti dei nostri giorni ovvero della discussa deportazione dei bimbi ucraini dai territori occupati dai Russi. Ti chiedo: quali rapporti si instaurano tra regimi dittatoriali e di terrore e i bambini? Ed ancora, perché i bambini, così fragili e innocenti, fanno tanta paura al potere repressivo e al terrore?

«Alle dittature fanno tanta paura bambine e bambini per il potenziale che possiedono di divenire donne e uomini liberi. Infatti i regimi di ogni tipo e di ogni epoca hanno preso in molta considerazione i piccoli e la loro educazione, non per un vero e proprio interesse verso l’infanzia, ma verso l’obiettivo futuro: plasmare uomini e donne più manipolabili, più facili da subordinare. I regimi hanno visto i piccoli come individui “pericolosi” perché, per loro indole, poco controllabili. Perciò sono una vera e propria minaccia. Se i bambini, dunque, sfuggissero al controllo potrebbero divenire donne e uomini liberi: liberi di essere, di pensare, di agire, e di opporsi ai condizionamenti. Ecco perché i sistemi autoritari sia politici che politico-religiosi si sono occupati ossessivamente e integralmente della vita dei piccoli: della loro educazione, del tempo libero, dei giochi e dei giocattoli, delle relazioni e persino del loro corpo, direttamente e tramite gli adulti. Quello che è accaduto nella storia e sta accadendo in alcune parti del mondo: è un modo per disumanizzare i bambini, renderli succubi. Educarli e rieducarli ad un regime senza libertà di vivere l’infanzia. Negare così l’infanzia. Sradicare quell’umanità specifica di cui sono portatori, per renderli adulti sottomessi. Ma attenzione, perché ci possono essere forme di costrizione e controllo anche nei Paesi cosiddetti democratici; forme più subdole e diffuse di addestramento a un pensiero rigido uniformato, propinato come pensiero emancipato, mistificato come pensiero libero e “democratico”. Limitare la capacità di pensare ai piccoli immergendoli in un mare di contrasti di una società confusa e “adultocentrica” e in parte narcisista, mettere i bambini e bambine in una condizione sociale e scolastica che non faciliti lo sviluppo della propria indole, di un proprio pensiero – sì, di un proprio pensiero, perché i bambini pensano – e di un proprio sogno, equivalgono a forme più infide di costrizione e condizionamento. Significa strutturare una forma di dipendenza dall’altro che si perpetuerà nell’adulto. Un vero e proprio regime senza volto. E, per gli adulti, adeguarsi a idee e comportamenti dominanti senza vagliarli con la propria capacita critica, non esercitata sin dall’infanzia, significa soffocare quello spirito di conoscenza e creatività, di esplorazione del mondo, tipico dei bambini. È anche questa una forma di offesa all’infanzia e un impedimento allo sviluppo di una società migliore». 

9788809206489_0_0_536_0_75“Facciamo finta di …”, “facciamo finta che…”, “facciamo finta che io sia… e che tu sei…”: parole che tutti, come bambini prima e come adulti poi, abbiamo pronunciato e ascoltato.  Espressioni comuni e, spesso, date per scontate: eppure, per usare le tue parole, aprono “la porta allo spazio dell’avventura, della esplorazione, della vita”. Quale significato dobbiamo dare a queste parole e come la scienza può avvalersi di questo straordinario strumento linguistico usato spontaneamente dai bambini?

«Il «facciamo finta» è una straordinaria capacità di bambini e bambine di creare situazioni e relazioni di gioco sia con oggetti e giocattoli sia anche senza oggetto, e di inventare ruoli e identità diverse come in una rappresentazione teatrale, senza seguire un vero e proprio copione, ma inventando momento per momento. Questo tipo di gioco non è finzione nel senso di falsificazione del reale, ma una ricreazione, una invenzione di sé stessi, della realtà e del mondo. Nel gioco simbolico si trasformano gli oggetti di gioco: si può giocare con un bastone che diventa un cavallo, con un pezzo di carta che si trasforma in aereo, con un pezzo di legno che diviene un bambino: questo ce lo dimostra il grande scrittore Collodi che, con Pinocchio, ha attinto molto dai piccoli reinventando la loro storia. Nel gioco simbolico i bambini ci dimostrano che si può giocare anche senza oggetti o senza i giocattoli stessi, immaginando che essi esistano; si può cambiare identità: per esempio un bambino può essere un re, un povero o un animale, e così una bambina può essere un’astronauta, una maestra e così via. I bambini prendono dalla realtà elementi diversi: li rimescolano e li trasformano con grande fantasia e creatività, divertimento, offrendoci una loro storia del mondo. È veramente qualcosa di straordinario. Questa facoltà è in possesso di ogni uomo e di ogni donna, perché tutti siamo stati bambini. Da grandi dobbiamo ricordarci del gioco simbolico e trasporlo nella costruzione-invenzione della nostra vita per renderla più creativa e più vitale. Uomini e donne creativi come i poeti, gli scrittori e gli inventori, gli scienziati, imprenditori ce ne danno una emblematica dimostrazione».

L’operatore sanitario può trarre dal “gioco” elementi utili alla diagnosi di disabilità?

«Come ho detto prima, le modalità di gioco del bambino forniscono tante informazioni sullo sviluppo psico-affettivo, intellettivo e relazionale del bambino. È utile integrare anche il disegno e altri risultati ottenuti dalla somministrazione di test adatti ai piccoli, come per esempio lo Sceno Test, la WISC. Attenzione però, perché la formulazione di una diagnosi completa è un processo di pensiero più complesso che tiene conto di tanti elementi: le osservazioni sul comportamento e le modalità di interazione e di gioco del bambino, la visita strettamente neurologica e psichiatrica, i risultati dei Test. E, se sono necessari, anche altri esami strettamente clinico-strumentali specialistici (esami genetici e metabolici, TAC cerebrale etc…)».

Nel caso di violenza sui bambini, con quali modalità la scienza si approccia a conoscere lo stato di maltrattamento ed a scopo terapeutico?

«Non esiste un test specifico con il quale si può fare diagnosi di abuso o di maltrattamenti. La prima cosa da stabilire con il bambino è una relazione valida, di fiducia e di ascolto. I piccoli si devono fidare dell’adulto prima di aprirsi. Rivelazioni di abuso e di maltrattamenti possono emergere, durante le sedute, nel dialogo, nei disegni, nel gioco dove il bambino proietta spontaneamente le proprie esperienze e la rappresentazione del suo mondo, come già ho scritto. Diverse volte mi è capitato, e capita agli operatori del settore, di costatare, per esempio, attraverso il disegno libero, una conoscenza sessuale non appropriata all’età del bambino. Oppure si possono osservare dei comportamenti sessualizzati non consoni all’età».

il-bambino-in-famigliaIn che modo l’ambiente esterno può influire sullo sviluppo complessivo del bambino e, in questo senso, studiosi come la Montessori che contributi hanno dato?

«L’ambiente ha un ruolo molto importante nello sviluppo di bambine e bambini. Per ambiente si intende la famiglia in prima istanza, poi l’ambiente sociale e culturale, la comunità più prossima in cui i piccoli sono immersi: la scuola, gli spazi e strutture urbanistiche a loro dedicati, spazi per i giochi e per le attività sportive e motorie, biblioteche, e altri servizi extrascolastici. L’ambiente sociale e abitativo deve tenere conto anche dei bambini disabili e di tutti quegli interventi sul territorio che ne facilitino lo sviluppo: da centri per la riabilitazione a interventi urbanistici che non sono solo l’abbattimento delle barriere architettoniche. Possiamo immaginare cosa significa per bambine e bambini vivere in ambienti sociali e familiari degradati e poveri, con carenze educative, in quartieri dove domina la criminalità, la violenza e la mafia. È difficile in queste situazioni avere un’infanzia normale, vi sono molti rischi di sviluppare devianze e dissocialità. Sono bambini, non solo defraudati dei loro diritti civili, educativi, affettivi e di crescita, ma anche della loro stessa natura. Il luogo educativo e ludico non può essere rappresentato solo dalla scuola. La scuola può svolge il suo compito, il compito che le compete ma l’intervento deve essere più diffuso nel contesto socio-ambientale e urbano. Sono indispensabili, perciò, azioni e interventi politici e amministrativi più incisivi. Può servire il piccolo parco giochi di dieci metri quadrati, o l’immenso parco giochi dedicato ai piccoli, ma io immagino un contesto in cui i luoghi per i bambini siano più diffusi e integrati nel tessuto urbano. Se vogliamo che le bambine e i bambini crescano più sani, con migliori possibilità di sviluppo fisico e psichico e relazionale, il mondo che sta intorno a loro deve essere riqualificato o riprogettato nella prospettiva di migliorare la loro qualità di vita e, di conseguenza, anche la nostra. Ed è in funzione di ciò che deve evolversi il pensiero degli adulti, la loro sensibilità: verso una civiltà dei bambini. E cominciare a costruirla insieme a loro. Maria Montessori aveva compreso, insieme ad altri pedagogisti, che l’ambiente era inadatto ai piccoli, è per questo che ha realizzato le Case dei bambini, cioè un contesto ben strutturato con materiali specifici: la mobilia a misura, materiale didattico-educativo specifico per promuovere l’esperienza sensoriale, la manipolazione, il movimento e l’apprendimento, con una metodologia didattico-pedagogica nuova. Così scrive: «Non ci fu mai una questione sociale così universale, come quella che sorge dalla oppressione del bambino. Gli oppressi, che cercarono gradualmente il loro riscatto nello svolgersi della vita civile, furono sempre una casta limitata: gli schiavi, i servi, infine gli operai» (Il bambino in famiglia, Milano, Garzanti, 1991)». 

Due mondi diversi, due nature diverse, un bambino che nasce determina uno scompiglio in famiglia perché l’ambiente familiare non è preparato.         

«Maria Montessori, nel libro Il segreto dell’infanzia (Milano, Garzanti, 1992), afferma che il mondo del bambino è assai lontano da quello degli adulti: «due forme di vita assai diverse […] anzi contrastanti». Sostiene ancora che l’ambiente familiare non è adatto all’accoglimento del bambino, perché è strutturato a modello dell’adulto, per cui al bambino si chiede un continuo adattamento. Oggi tante cose sono cambiate, ma il pensiero della scienziata è ancora valido, perché nel nostro tempo è presente ancora un’idea “adultocentrica” che ingabbia il mondo dei piccoli dentro gli schemi dei grandi, non riconoscendo le loro peculiarità. Non riconoscendo la civiltà dei bambini».

md31385870453Hai dedicato un paragrafo del libro allo scrivere sui bambini e per i bambini: tra avventura e avvenimento, tra avveramento e avvertenze avendo cura di precisare che la letteratura per l’infanzia non è affatto un genere minore. Che significa per te scrivere sui bambini e per i bambini e quali sono le avvertenze da tenere in conto?

«Un’idea diffusa è quella che scrivere sui bambini o per i bambini sia una cosa semplice: lo confermano i moltissimi libri che vengono pubblicati per bambini, ma semplice non lo è affatto. Anzi, è una cosa molto difficile. Entrare nel terreno dei piccoli significa entrare dentro una civiltà che va compresa nella sua complessità, e di cui ho già detto prima. Scrivere di bambini e far parlare i bambini tra di loro e con gli adulti, e anche gli adulti con i bambini, non è cosa semplice. Non è semplice rappresentarli nelle varie forme d’arte come la letteratura, nel cinema, nella fotografia. Mi è capitato di leggere romanzi e poesie che poco avevano a che fare con l’arte e con il rispetto della natura dei piccoli. Per esempio, i bambini vengono adultizzati nel loro modo di essere e di pensare o miniaturizzati e ridotti ad esseri balbettanti. Oppure viene attribuita loro una sessualità pari a quella dell’adulto distorcendo l’affettività, l’essenza di quello che è un bambino o una bambina. Non si capisce perché, quando uno scrittore voglia scrivere, per esempio, un romanzo storico, studi a fondo il periodo a cui farà riferimento, in tutti i suoi aspetti: di ambiente sociale e politico, di pensiero e di linguaggio e costumi. Mentre quando si scrive sui bambini o per i bambini spesso non si fa un lavoro serio e di ricerca. Pertanto, non sempre si rispetta il valore del bambino del quale vengono alterate le caratteristiche della lingua, del pensiero, del gioco e dell’affettività. Anche se si tratta di un contesto immaginario, bambini e bambine hanno pure una loro immaginazione e una loro fantasia, che spesso si trasfigura nell’arte seguendo modelli dell’adulto.  Il bambino va studiato e riconosciuto anche per quanto ci dice la scienza, perché una parte della sua specificità, della sua umanità e creatività è restituita anche nella conoscenza scientifica. E la letteratura deve farsi carico di simili conoscenze. È necessario non denominare più letteratura “minore” quella dedicata ai bambini, oltretutto per le cose che ho detto sopra; la letteratura per l’infanzia è una grande letteratura con una lunga tradizione, come afferma il critico Daniela Marcheschi. Purtroppo, però. tante brutte pubblicazioni per bambini sviliscono la letteratura tutta. Ci sono stati dei grandi “interpreti” dell’infanzia nella letteratura, nella fotografia, nel cinema e ne cito qui solo alcuni: Carlo Collodi, Leone Tolstoj, Gianni Rodari, Ágota Kristóf, Josef Koudelka, Robert Doisneau e Letizia Battaglia, Abbas Kiarostami, Luigi Comencini e Vittorio De Sica».

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023

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Nicolò Scandaliato, laureato in giurisprudenza, esercita la professione di avvocato ma anche quella di docente di discipline giuridiche ed economiche, occupandosi di formazione professionale e di insegnamento presso istituti di istruzione superiore. Ha ricoperto la carica di vice presidente del club Unesco di Castelvetrano e ama definirsi “delle lettere amante e cultore dilettante”.

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