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“I care” ancora. Don Lorenzo Milani: l’esilio del profeta

i-care-jpgkdi Leo Di Simone 

«Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande: “I care”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”.

Così si legge nella Lettera ai giudici del 1965 che don Lorenzo Milani, impossibilitato per la grave malattia a presentarsi in tribunale, scrisse per difendersi dall’accusa di vilipendio e apologia di reato, per aver preso posizione pubblica in favore dell’obiezione di coscienza. Assolto con formula piena restò imputato per il ricorso del pubblico ministero. Non arrivò a ricevere la condanna in appello che fu emessa dopo la sua morte avvenuta il 26 giugno 1967 a Firenze, in casa della madre. Due mesi prima aveva scritto a Francuccio Gesualdi, uno dei suoi “figlioli”:

«Stasera ho provato a mettere un disco di Beethoven per vedere se posso ritornare al mio mondo e alla mia razza e sabato far dire a Rino: “Il priore non riceve perché sta ascoltando un disco”. […] Volevo anche scrivere sulla porta “I don’t care più”, ma invece me ne care ancora molto» [1].

E gli importò sino alla fine, non tanto il suo impegno, il suo lavoro, la sua passione per gli ultimi che incontrò nei montanari del Mugello, ma il fatto di averlo fatto nella Chiesa, in ubbidienza al Vangelo e non secondo il suo estro personale. Aveva in tal senso scritto al suo arcivescovo, il cardinale Ermenegildo Florit, autore del suo esilio a Barbiana:

«Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato, qualcosa di simile all’opera di un pastore protestante. Ma io non lo sono stato e lei lo sa. Ho servito per diciassette anni la Chiesa Cattolica nei suoi poveri […] ecco perché le porgo oggi una mano. Vuole ereditare la mia umile opera? Vuole mietere dove io ho seminato? Vuol partecipare all’abbraccio affettuoso dei poveri che mi vogliono bene, che ho tentato di avvicinare al Signore, che sono talmente buoni (vorrei quasi dire “stupidamente buoni”) da esser capaci di perdonarle tutto dall’oggi al domani e accoglierla come uno di loro così come hanno accolto me? Vuole con un tratto di penna cancellare i diciassette anni di scandali che la Curia fiorentina ha dato ai due popoli che mi aveva affidato?» [2].

La richiesta non ottenne risposta. Non ci fu nessun atto d’onore. Quando don Lorenzo morì e il suo corpo fu riportato a Barbiana, come lui aveva disposto, il cardinale non salì per il funerale, com’era consuetudine per la morte di un prete. Il funerale si tenne quasi in solitudine, partecipato dai pochi familiari, e dai suoi ragazzi di Barbiana e di San Donato e celebrato da don Cesare Mazzoni, il prete montanaro suo ex compagno di seminario considerato dalla Curia fiorentina un “plagiato” da don Milani [3]. Così, si pensava negli ambienti clericali di Firenze, era calato finalmente il sipario sul “caso Milani” e Barbiana sarebbe scomparsa dalla carta geografica del Mugello e dalla storia della Chiesa fiorentina. E invece continuarono a circolare, ad opera dei ragazzi emancipati dall’ignoranza, gli scritti del Priore, le sue lettere di fuoco, e anche, sottobanco, il libro del contendere, Esperienze pastorali che la censura vaticana non aveva condannato per motivi dottrinali, ma lo aveva semplicemente giudicato “inopportuno” e ne aveva preteso il ritiro dall’editore, la Libreria Editrice Fiorentina, vietandone la lettura ai cattolici.

Personalmente ne possiedo una copia ingiallita datata 1958, regalatami già usata dal mio parroco, e a leggerlo adesso non desta nessuno scandalo e semmai meraviglia solo il fatto che in quegli anni del dopoguerra il giovane don Milani viceparroco a san Donato a Calenzano, tra Firenze e Pistoia, abbia saputo con intelligente lucidità e metodo sociologico produrre uno spaccato della vita religiosa dei cattolici fiorentini che non era poi tanto dissimile da quella del resto degli italiani. Amara ed inopportuna, certamente, era la conclusione che «la cultura religiosa degli adulti del nostro popolo è praticamente nulla» [4], come con dovizia di particolari mostra questo documento tra i più originali e per certi versi unico della storia socio-religiosa della Chiesa italiana. Don Lorenzo vi registra sensazioni ed intuizioni, dubbi e timori davanti ad un mondo a lui sconosciuto, quello delle devozioni popolari intrecciate a superstizione e paganesimo, ignoranza e bigottismo, lui che da convertito aveva una cognizione alta, studiata del cristianesimo, aliena da contraddizioni e incoerenze interne al popolo cristiano e dunque alla stessa Chiesa. «Un mondo in cui doveva inventarsi come fare il proprio mestiere di prete, scelto contro le attese e la storia della famiglia. Un mestiere che i quattro anni di seminario non gli avevano insegnato» [5].

E il suo mestiere di prete è consistito non più nella cura del culto esteriore, delle devozioni popolari, dei molti riti senz’anima, nel paternalismo moralistico, così com’era nell’uso del tempo, ma nel modo “scandaloso” del «ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia». «Questo insegna don Milani», ha affermato papa Francesco recandosi a Barbiana il 21 giugno 2017 per celebrare il cinquantesimo anniversario della morte di don Lorenzo e per sdoganarne la memoria davanti a tutta la Chiesa cattolica. Questo è stato il suo mestiere di prete, perché «è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole. Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso, e di dare espressione alle istanze profonde del proprio cuore, come pure alle attese di giustizia di tanti fratelli e sorelle che aspettano giustizia».

Don Milani e la scuola di Barbiana

Don Milani e la scuola di Barbiana

Ed è il processo lento e difficile di restituzione della parola ad un popolo tenuto e mantenuto in una condizione di inferiorità che viene narrato in Esperienze pastorali, quando il giovane prete giunse nel mondo provinciale di San Donato a Calenzano, in mezzo ad operai e montanari che non lo capivano perché privi di lessico, grammatica e sintassi. Si trovò immerso in una condizione di inferiorità culturale considerata da tutti «cosa di ordinaria amministrazione: il popolo è inferiore, per parlargli bisogna abbassarsi a lui, scaldargli la pappina perché non ha denti per il Pane». Don Lorenzo era però di diverso avviso, e si disse che «chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà coi pedoni, deve piuttosto insegnare a tutti il volo» [6]. E questo la Chiesa gerarchica lo considerò “inopportuno”, troppo simile a ciò che i comunisti chiamavano “lotta di classe”.

Esperienze pastorali narra della crisi di una pastorale abitudinaria e stanca, mettendo in questione anche le scelte di fondo della Chiesa italiana del suo tempo che stava intrecciando rapporti con il potere politico attraverso il partito “cristiano”, mentre stava perdendo «il mondo dei poveri, dei giovani operai, di coloro che subiscono ingiustizia» [7]. La scuola popolare impiantata a San Donato e perfezionata poi a Barbiana sarà la nuova formula pastorale di don Lorenzo Milani, per corrispondere alla radicale povertà culturale della sua gente per cui il messaggio cristiano era incomprensibile come il culto liturgico, percepito in maniera superstiziosa. Racconta come a San Donato a contadini ed operai insegnasse quasi esclusivamente la lingua e le lingue: «Mi richiamavo dieci, venti volte per sera alle etimologie. Mi fermavo sulle parole, gliele sezionavo, gliele facevo vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi» [8]. Come opera di promozione umana la sua scuola doveva colmare l’abisso di ignoranza per colmare l’abisso classista di differenza. In questo senso, diceva, il classismo non è una novità per la Chiesa: «Si accettano forse i ricchi alle nostre distribuzioni gratuite di minestra?» [9].

Papa Francesco a Barbiana

Papa Francesco a Barbiana

«La scuola, per don Lorenzo, non era una cosa diversa rispetto alla sua missione di prete, ma il modo concreto con cui svolgere quella missione, dandole un fondamento solido e capace di innalzare fino al cielo. E quando la decisione del Vescovo lo condusse da Calenzano a qui, tra i ragazzi di Barbiana, capì subito che se il Signore aveva permesso quel distacco era per dargli dei nuovi figli da far crescere e da amare» continua papa Francesco nel ridisegnare a tutto tondo la figura emblematica di Lorenzo Milani; e si potrebbe aggiungere che quello che immediatamente apparve un esilio, frutto di grettezza ecclesiastica e di miopia pastorale si rivelò, nei piani di Dio, azione provvidenziale di profezia di cui la Chiesa e il mondo, a scadenza regolare, hanno bisogno. Profezia per un nuovo modello di Chiesa, per un nuovo modello di prete e di ministero, per modalità più evangeliche di presenza cristiana nel mondo. Profezia di tutto ciò che catturò il giovane in ricerca Lorenzo Milani che «partì subito per l’assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire», come raccontò don Bensi, il prete che lo accompagnò verso la conversione e gli fu vicino per tutta la sua breve vita [10].

Basta, adesso, che don Milani sia stato celebrato solennemente per il centenario della sua nascita dalle più alte cariche dello Stato e della Chiesa? Le presenze del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del presidente della CEI cardinale Matteo Zuppi e della presidente del Comitato nazionale Rosy Bindi a Barbiana, il 27 maggio u. s., a seguito della menzionata visita di papa Francesco testimoniano senz’altro la volontà di restituire alla figura di questo prete «trasparente e duro come un diamante» il merito di aver incarnato il carisma profetico che, come la storia insegna, non è mai di immediata comprensione, anche nella Chiesa. La Chiesa cammina sempre lentamente, ha i suoi tempi e… prima o poi arriva; ma non dissimilmente dalle altre istituzioni laiche che non sono più veloci nel metabolizzare il bene, il vero e la giustizia. E mi piace pensare don Milani che durante le solenni celebrazioni in suo onore rimugina dall’alto il rimprovero che Gesù fece ai Farisei: «Voi innalzate monumenti a quei profeti che i vostri padri hanno ucciso» (Lc 11. 47). Saremo adesso capaci di mettere insieme i temi della sua poliedrica lezione? la Chiesa, la scuola, la dignità del lavoro, la Costituzione, i diritti umani, il pacifismo, la non violenza, l’intercultura? Temi che trovarono un primo sbocco già negli anni immediatamente successivi alla sua morte, ed anche un riscontro tra le istanze di innovazione di quei cattolici che cominciarono a pensare autonomamente in quegli stessi anni di immediato postconcilio, trovando in don Milani un precursore della stessa profezia conciliare e una icona di istanza dialogica nella Chiesa.

Si impone a questo punto una testimonianza. Mi sono imbattuto in Lorenzo Milani negli anni turbolenti del dopo Sessantotto. Il Sessantotto è stato un fenomeno culturale di sovvertimento di valori, di ricerca, di “rivoluzione culturale”, così come la si chiamava allora, ma che si protrasse per parecchi anni. Negli anni in cui frequentai l’università statale – si era a metà degli anni Settanta – i libri di e su don Milani cominciavano già a circolare e quindi mi avvicinai a questa singolare figura di prete attraverso le sue lettere che mi fecero una grandissima impressione, in un periodo in cui l’università si limitava semplicemente a fornire informazioni nozionistiche, non un metodo, non strumenti ermeneutici per la comprensione del reale; ma questa è una cosa che ho capito dopo. Per cui, quello che mi sorprese fu il metodo di ricerca che don Lorenzo esigeva dai suoi studenti, l’impegno assoluto, ferreo, per la scuola totale, senza vacanze; ma anche la franchezza, la sincerità che con san Paolo potremmo dire parresia, la “faccia tosta” con cui esternava semplicemente il suo vissuto, la sua fede, la sua cultura, la sua esperienza umana e cristiana, oltre i limiti imposti dalla cultura del tempo, la cultura laica ma anche ecclesiale, ambedue ingessate in dogmi preconcetti e immutabili. Allora sapevo poco di profetismo biblico, e solo col tempo compresi che la profezia non è un fenomeno limitato ad un periodo della storia biblica, ma è azione perenne dello Spirito nel mondo che si incarna in uomini “fuori dal comune”.

Il Santo Scolaro, mosaico realizzato dagli allievi e da Don Milani nella chiesa di Barbiana

Il Santo Scolaro, mosaico realizzato dagli allievi e da Don Milani nella chiesa di Barbiana

Il profeta, come figura storico-culturale, emerge sempre nei momenti di profonda crisi. Crisi vuol dire che la cultura ha perso cognizione dei suoi temi e dei suoi modelli, cioè ha perso la dimensione reale dei valori che l’hanno fondata. Allora ho pensato alla figura del profeta come costante storico-culturale, perché quello in cui visse don Milani fu il periodo in cui la cultura, non solo italiana, ma europea e mondiale, cercava inconsapevolmente l’intervento di queste figure che nell’agire sono suscitate dallo Spirito e manifestano segni di assoluta asimmetricità. Se leggiamo i libri profetici della Sacra Scrittura, ci accorgiamo che i profeti non hanno mai consapevolezza di essere tali, e quando si sente affermare da qualcuno che è profeta vuol dire che proprio non lo è. Il profeta non ha consapevolezza del suo ruolo, della sua missione; piuttosto ha timore, si sente inadeguato rispetto al compito che lo aspetta. Per cui i profeti biblici dicono: «ma io sono impacciato, non so parlare, sono troppo giovane, sono un povero agricoltore», schernendosi a causa dell’intuizione che la profezia è un rischio, un dover uscire da sé, un andare allo sbaraglio, fuori dagli ovattati gusci culturali e istituzionali. Lorenzo Milani fa parte di questa categoria profetica, un epigono del profetismo nel XX secolo.

Adesso, al di là delle celebrazioni encomiastiche, dobbiamo provarci a ricontestualizzare la figura di Lorenzo Milani, andando anche oltre le letture che hanno privilegiato solo l’aspetto socio-politico-culturale della sua azione pastorale e della sua vita di prete e coglierne una valenza teologica. Ciò vale anzitutto per la Chiesa, in questo periodo della storia dove la crisi non è ancora stata risolta, essendo epocale; credo che dobbiamo riferirci a queste grandi figure che hanno incarnato la profezia, compresa quella particolare e non secondaria componente della profezia che è la sofferenza e la morte del profeta, sia essa morte fisica che spirituale. Lorenzo Milani si colloca in questa scia che si profilò, almeno nella Chiesa italiana, ma con sintomi chiari anche nel resto d’Europa, già dagli inizi del Novecento, al tempo della grande crisi attorno al fenomeno del cosiddetto “modernismo”, quando la Chiesa istituzionale guardò con sospetto alle prospettive scientifiche dello studio e dell’approfondimento della fede, al dialogo con la cultura laica, alle mutate condizioni di vita della società industriale segnata dal secolarismo e illusa dall’abbaglio del liberalismo.

Una cosa da tenere in considerazione è che il profeta non è mai uomo delle istituzioni perché il profeta ha come missione di far capire all’istituzione che la sua cristallizzazione o sclerotizzazione ha bisogno di diluirsi e ricomporsi nei temi che fondano quella cultura. Per quanto riguarda il cristianesimo, i temi della cultura cristiana sono in maniera incontrovertibile dettati dal Vangelo, dalla Parola. Vorrei che pensassimo a questa eticità della parola e della scrittura nella pedagogia milaniana come riflesso dell’etica della Scrittura che è l’ethos della Parola di Dio, l’ethos della rivelazione. Nella frase che ho sopra citato nella quale Milani dice che il popolo «non ha denti per il Pane» [11], lo scrivere Pane in maiuscolo non è un errore di ortografia; per il cristiano il Pane è il corpo di Cristo che si dona in cibo per la crescita globale dell’essere umano e non per saziare soltanto la fame dello stomaco, poiché «non di solo pane vivrà l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4, 4).

Don Milani e la scuola di Barbiana

Don Milani e la scuola di Barbiana

Don Milani ci ricorda anche che il profeta è lo specchio – biblicamente tutti i profeti sono questo piccolo specchio – in cui Dio riflette completamente tutto il suo essere, tutta la sua volontà, tutto ciò che lui è, l’ethos di Dio. Soltanto da qui l’uomo può attingere l’etica. Lorenzo Milani vive proprio con la forza, il convincimento interiore del convertito. Come san Paolo, che non si limita ad apportare qualche aggiustamento alla sua vita, perché quando Dio entra nella vita dell’uomo, e quindi nella vita del profeta, gliela sconvolge, ne sconvolge tutti i parametri. Se Milani ha detto: «io ho inquietato il mio popolo», è perché l’inquietudine di Dio, il Dio cristiano che non si da pace per l’uomo, lui la viveva personalmente. Vedendo il cadavere del prete Dario Rossi, quando nel 1943 accompagnò don Bensi, il suo mentore spirituale, a celebrarne il funerale, disse: «io prenderò il suo posto», in maniera così impensabile, estemporanea, impulsivamente generosa. Sì, perché il profeta non ha il tempo di riflettere, perché Dio lo fulmina: è la folgorazione della fede. Se seguiamo l’immagine di Paolo sulla via di Damasco, ci accorgiamo che anche lì non c’è una ragione plausibile e Paolo stesso non dà spiegazione di quello strano fenomeno che fu la folgorazione della fede. Una fede che acceca in un primo momento, ma che poi fa vedere meglio. Tale fu l’esperienza di Paolo. Il profeta vede sempre al di là della contingenza storica, del momento di crisi, perché essendo abbagliato e quindi cieco, vede sempre la fine della storia che è il fine della storia. C’è un rapporto osmotico tra l’ascolto della Parola e la veggenza: più si ascolta più si vede, così è la dialettica della fede. E l’obbedienza si realizza solo nei confronti della parola, perché è ob-audire. Per don Milani l’obbedienza che non si riferisca alla parola «non è più una virtù».

Qui possiamo indicare solo i punti nodali dell’esperienza del profeta Lorenzo Milani. Profeta che riceve l’eredità culturale, per esempio, di un Ernesto Buonaiuti, figura che dobbiamo contestualizzare in un momento di forte crisi della Chiesa e del mondo civile, dopo la tragedia della Prima guerra mondiale, dopo lo scossone della rivoluzione bolscevica che ha messo in discussione tutta una cultura. Don Ernesto Buonaiuti, prete anche lui messo al bando, ostracizzato, messo a tacere, è stato un uomo che all’inizio del Novecento ha pensato, per esempio, all’esegesi scientifica della Scrittura, una cosa che per la teologia contemporanea, a partire dagli anni Cinquanta, viene data per acquisita, almeno da quando a Roma è stato aperto il Pontificio Istituto Biblico per volontà di Pio XII, guidato da un’altra grande figura di prete, gesuita e poi cardinale, che fu padre Agostino Bea. Adesso è scontato che gli studi biblici abbiano un supporto scientifico nella conoscenza diretta delle lingue bibliche, dell’archeologia, della storia culturale; non ci appaghiamo più della traduzione della Vulgata di Girolamo né della lettura fondamentalista della Scrittura. Questa prospettiva l’aveva già messa in pratica quella grande mente enciclopedica di Ernesto Buonaiuti, che per aver intuito l’importanza del metodo storico critico morì scomunicato, bandito cioè dal consorzio ecclesiale e calunniato, sorretto fino alla fine solo dalla fede che non abiurò mai; né ancora, in tempi non sospetti, è stato riabilitato. Anche per lui sarebbe opportuna una piena riabilitazione, ma il riconoscimento dei profeti come tali esige tempi biblici!

Credo, allora, che dovremmo affermare che Lorenzo Milani non è stato un corpo estraneo che si è infiltrato surrettiziamente nella Chiesa per sconvolgerne l’assetto dal suo interno, ma che Lorenzo Milani era soltanto un profeta e come tutti i profeti è stato incompreso. Guai se non fosse stato incompreso, perché chi guarda più avanti non può essere compreso da chi vede l’orizzonte a qualche centimetro di distanza dal suo naso. E questa era la situazione in cui si trovava la Chiesa italiana in quel tempo. Almeno dall’enciclica Mediator Dei di Pio XII al Concilio Ecumenico Vaticano II conclusosi appena due anni prima della sua morte. Tale era l’eredità di Pio XII, che era uomo di finissima cultura, uomo estremamente intelligente, ma anche uomo di apparato, di burocrazia, uomo dell’istituzione che aveva una concezione monarchica, autoritaria della Chiesa, e che tuttavia sapeva leggere i segni dei tempi. Si accorgeva della situazione storica, anche grazie alla sua esperienza come Nunzio Apostolico in Germania, testimone di quella tristissima vicenda di un popolo colto dalla follia del nazismo. Fu il papa della Seconda guerra mondiale e ne sofferse tutta la tragicità.

5000089591585_0_0_536_0_75Al termine del suo pontificato scrive l’enciclica Mediator Dei, che i teologi vedono come un punto di collegamento tra una vecchia concezione di Chiesa, monarchica, assolutista, autoritaria, dove nessuna emergenza, nessuna autonomia intellettuale è consentita, e una nuova visione. Pio XII scrive questa enciclica anche in riferimento alla condizione cultuale della Chiesa; comincia a capire che la Chiesa ha una sua evidenza pubblica attraverso la celebrazione liturgica; non solo che la Chiesa si configura come societas, ma anche come comunità cultuale. La concezione sociologica della Mediator Dei è molto importante perché conduce all’idea di una Chiesa come “popolo di Dio”, una Chiesa che prima era concepita solo come rapporto tra autorità e sudditi. Aprì la porta a ciò che accadrà qualche anno dopo, quando si arriverà alle Costituzioni del Concilio Vaticano II dove saranno ribadite le dimensioni della sacerdotalità del popolo di Dio e della sua essenza profetica e regale, e del ruolo non secondario dei laici nella missione della Chiesa. Tutto ciò a partire dall’intuizione, anch’essa profetica di Pio XII; ed oggi, non è detto che tutto questo, a 60 anni dalla conclusione del Concilio, sia stato ancora compreso; è mancato e manca, nella Chiesa, qualche passaggio culturale non accaduto per non aver tenuto in considerazione i profeti. Forse non è accaduto il passaggio culturale di qualche profeta, e se è accaduto non ce ne siamo accorti. Il “caso Milani” lo dimostra.

Siamo debitori allo storico della Chiesa Christopher Dawson che ha diviso in sei grossi blocchi la storia della Chiesa, spiegando come ogni periodo, a partire da quello paleocristiano, comincia con un fermento di idee, da un movimento culturale molto positivo, con un suo apice, seguito inevitabilmente da un declino [12]. Quando i temi della cultura si cristallizzano in temi istituzionali – conosciamo tutti gli effetti paralizzanti della sclerosi sul nostro corpo –, quando i temi del Vangelo vengono polarizzati e paralizzati dall’istituzione, inevitabilmente comincia il declino e quindi la perdita dei valori. E questo, evidentemente, non vale soltanto per la Chiesa. C’è quell’altro bellissimo e complesso libro di Michel Foucault L’archeologia del sapere dove viene mostrato un metodo scientifico per l’analisi dei fatti culturali [13]. Non è semplice discernere i fatti culturali: ci sono interazioni molto complesse nella trama della cultura e delle culture. Noi viviamo in un periodo di intense relazioni culturali in cui il grande rischio che corriamo è quello del livellamento culturale. È la famosa globalizzazione, che da un punto di vista economico sembra una conquista, ma dal punto di vista culturale è invece una grande mortificazione per l’identità delle culture. Un processo che vorrebbe fagocitare anche la cultura cristiana. I profeti sono contro questo livellamento!

L’operato di Lorenzo Milani scaturiva certamente dal suo non appartenere a una cultura ecclesiastica. Proveniva da una famiglia di intellettuali e scienziati per ascendenza paterna, laici con tendenze anticlericali. Intellettuali e scienziati anche per ascendenza materna, i Weiss ebrei boemi trapiantati nella Trieste asburgica. È stato un laico di formazione che aveva una cultura non imbrigliata in schemi precostituiti. Ma per questo aspetto c’è l’esemplare esperienza di Gesù che anche lui era un laico, non un chierico, non faceva parte della casta sacerdotale e non era della tribù di Levi ma della tribù di Giuda. Lorenzo Milani era un laico, per cui ha incarnato il massimo della profezia, perché soltanto un laico può dire all’istituzione ecclesiastica cristallizzata, quali sono i suoi punti dolenti, quali sono le sue pecche, in che cosa e perché non riesce a incidere nell’animo umano. E la critica serrata di Gesù alle istituzioni “ecclesiastiche” del suo tempo è semplicemente la storia del Vangelo. Il Vangelo ci mostra, pagina dopo pagina, quest’opera di critica forte, feroce qualche volta, senza infingimenti, con parole chiare: Gesù che rivela non il Dio della religione ma il Dio della storia, il Padre che ha cura di tutti i suoi figli e ama con amore di predilezione i più piccoli, gli ultimi, quelli che la cultura giudica inferiori e la religione scarta come impuri. Affermazioni scandalose quelle di Gesù, che egli pronunziò con parresia e che gli costarono la vita.

1494428452-lettera-ai-cappellani-militari-copiaDa qui lo scandalo che ha provocato in alcuni, in tanti uomini di Chiesa, l’estrema chiarezza di Lorenzo Milani, che da laico chiamava le cose con il loro nome. È il grande equilibrio dialettico – lui lo dice in maniera molto chiara a mons. Bartoletti [14] – del rapporto tra carità e verità. Lorenzo Milani si era molto risentito con mons. Bartoletti perché si era sentito tradito, non difeso da questo maestro che gli aveva insegnato l’ebraico e a leggere la Bibbia con il metodo storico critico, metodo che lui assorbì, così come sapeva assorbire con grande intelligenza tutti i temi culturali con cui veniva a contatto. Così Lorenzo approfondì la Scrittura dove finalmente trovò la verità. Ecco l’etica della Scrittura. Tra tante parole, tra tante cose che aveva letto, libri che aveva indagato, egli finalmente trovò la verità. Viene in mente quel celebre verso di Clemente Rebora: «la Parola zittì chiacchiere mie» [15]. La Parola di Dio che dà un ethos assoluto. Trovata la verità, Lorenzo Milani la mette al primo posto, anche prima di quella carità finta che è fatta di prudenza, di diplomazia, del dire e non dire, del celare per non rivelare totalmente perché potrebbe a volte comportare scandalo. La cultura clericale ha vissuto a lungo di questo atteggiamento di prudenza, in nome di una presunta carità, e non è che l’abbia dismesso. Lorenzo Milani scrive in proposito una pungentissima lettera a mons. Bartoletti appena ordinato vescovo, un vero capolavoro di insolenza e di affettuosa franchezza se la si legge per intero:

«Son tentato di credere che tutto questo abisso tra di noi abbia avuto solo origine dal contrapposto nostro modo di proporre e posporre fra di loro i due imperativi della Carità e della Verità. Ma ormai queste due nostre contrapposte scelte hanno già raggiunto le rispettive logiche conseguenze: il vertice della loro ascesa (a lei mezzo metro di faldistorio, a me i 470 metri sul mare) ora che non possiamo più mutare il giudizio degli uomini su di noi»; e gli ricordava anche che “i preti misurano le loro parole con 7 altri metri prima di misurarle con la verità (carità, prudenza, edificazione, opportunità, consuetudine, psicologia, diplomazia, galateo)”» [16].

La diversa considerazione di questo rapporto carità-verità ha portato, dunque, l’uno a diventare uomo dell’istituzione, vescovo, l’altro profeta in esilio a 470 metri sul livello del mare, sentinella sul mondo. Nel 1958 con l’elezione di papa Giovanni XXIII appare un altro grande profeta. Un uomo che viene dopo l’ultimo periodo dichiaratamente monarchico nella storia della Chiesa, quale è stato il pontificato di Pio XII; un uomo quindi di rottura, anche se interno all’istituzione, e che subito pensa al Concilio come necessità di «aggiornamento» della Chiesa. Ma gli Atti preparatori del Concilio ci dicono che il papa non aveva pensato il Concilio così come poi si è svolto. Il Vaticano II si è sviluppato nel segno dello Spirito, che ha scardinato tutti gli schemi che erano stati preparati dalla Curia romana e che non erano per nulla innovativi. Leggendo gli Atti preparatori del Concilio Vaticano II ci rendiamo conto che, giorno dopo giorno, ci sono delle sorprese che spuntano in mezzo alle congregazioni conciliari dei vescovi, dei padri della Chiesa. Il cardinale canadese Suenens, per esempio, non volle fare come tanti vescovi troppo prudenti suggerivano. Al Concilio, infatti, ci furono vescovi pastori e altri pescatori. Per i pastori, si doveva chiudere presto l’assise del Concilio per non lasciare da sole le pecore del gregge (“non possiamo starne a lungo lontani”). Altri furono più audaci, gettarono le reti, e seguirono la scia dello Spirito. Prevalse questa seconda posizione e il Concilio durò oltre Giovanni XXIII: un altro segno dello Spirito. Paolo VI prese in mano il Concilio, lui pure dopo aver seguito i processi culturali di un mondo in fermento.

Ricordiamo che nel 1958 nacque a Firenze la rivista «Testimonianze», che ebbe come primo abbonato proprio Giovan Battista Montini, allora Arcivescovo di Milano. Il primo numero di questa rivista accusa il Santo Uffizio di collusione con i reazionari che con la legge truffa progettavano di creare un regime. La legge truffa intendeva, come già nel 1925 un tal Cavaliere aveva fatto, che chi otteneva il 50% dei voti aveva i tre quarti dei seggi in parlamento, la maggioranza assoluta che portò al regime dittatoriale fascista. Intorno a questo punto i cattolici erano divisi. Furono anche gli anni che videro protagonisti della guerra fredda Chruščëv e Kennedy e in cui si avviava la costruzione del muro di Berlino. Intanto veniva pubblicata la lettera enciclica Mater et magistra di Giovanni XXIII che, dopo la Rerum novarum di Leone XIII, tornava ad insistere sulla questione sociale alla luce della dottrina cristiana. Il papa riconosceva che erano ben distinguibili le classi privilegiate e quelle meno abbienti, la cultura dei ricchi e quella dei poveri, verità dei ricchi e dei poveri; cose di cui Lorenzo Milani aveva abbondantemente parlato nelle sue lettere e in Esperienze pastorali, per cui si sentì «sorpassato dal papa a sinistra».

il-vaticano-rivaluta-esperienze-pastorali_articleimageI poveri si dovevano accontentare dell’alfabetizzazione, delle briciole della cultura, loro che non conoscono le parole, non comprendono il linguaggio dei ricchi e dei potenti, sono ai margini della comprensione, esclusi da ogni possibilità di dialogo alla pari. Torna ancora il tema dell’etica della scrittura: se il cristiano non conosce la Parola, il Verbo, non può essere cristiano. Lorenzo Milani era perfettamente consapevole del principio dell’inculturazione cristiana: il Verbo si è fatto carne, non ha accarezzato la carne dall’esterno, non l’ha soltanto guardata da lontano. È entrato nella condizione umana per parlarne il linguaggio, condividerne le attese, le speranze; come può la Scrittura entrare nella cultura, se questa cultura non è pronta perché le mancano gli strumenti fondamentali per l’accoglienza? Ecco il tema della scuola, che sarà un tema pastorale in Italia, nel postconcilio, un tema che poi abbiamo messo nel cassetto. Anche Evangelizzazione e promozione umana, fu un tema postconciliare, coerente conseguenza di Lumen gentium e Gaudium et spes, due grandi costituzioni conciliari sulla Chiesa e sulla Chiesa in rapporto alla contemporaneità. Documenti che chiamano in causa anche l’esatta visione di chi è l’uomo contemporaneo, che è anche l’uomo del terzo mondo, oppresso dall’ingiustizia e che certa cultura tende a ignorare. Un tema attualissimo davanti al quale non ci possiamo nascondere, ancora oggi! Il Concilio fornì una larga esplicitazione delle tematiche più importanti e scottanti che don Lorenzo Milani aveva già scorte dai 470 metri d’altezza del monte Giovi.

Ecco perché c’è sempre bisogno di profezia. Attualmente di profeti se ne vedono pochi, ma Lorenzo Milani fu uno che denunziò questi fatti con parresia. Il suo discorso era, secondo l’etica della Scrittura, «sì sì, no no», era il discorso evangelico senza mezze misure: non possiamo annunziare il Vangelo se prima non focalizziamo il tema della giustizia; non la carità come elemosina, elargizione del superfluo, ma promozione di tutto l’uomo che a qualsiasi cultura appartenga è immagine di Dio. Lorenzo Milani non ha dato il superfluo di sé, ha dato quella verità che lui aveva acquistato a caro prezzo, il prezzo dell’ostracismo e dell’esilio; l’ha data completamente a quei poveri perché fossero preparati ad affrontare la vita, perché non fossero più impreparati davanti ai discorsi difficili della cultura borghese che tentava di confonderli con le parole altisonanti. Chi conosceva il latino, chi conosceva le lingue, poteva girare il mondo senza essere preso in giro, questa fu la lezione di Milani; perché è nell’ethos della parola che l’uomo trova la sua abitazione, nel linguaggio la sua vera casa. Si concretizza intorno a queste categorie la dimensione profetica di un prete che ha saputo dire tutto ciò come verità da predicare sui tetti, in anni in cui tali questioni erano del tutto teoriche o affrontate in modo retorico nella Chiesa come nel mondo politico. Con le dovute rare eccezioni: lo stesso Giovanni XXIII, da giovane prete, aveva assistito e partecipato ai moti degli operai delle filande bergamasche che si ribellavano alle angherie dei padroni. Lui e il suo vescovo erano stati accusati di essere filocomunisti; si erano schierati con i poveri. La stessa lettera enciclica Mater et magistra nasce sulla scorta della sua esperienza pastorale e di figlio di povera gente.

schermata-2022-01-07-alle-18-20-12Un altro grande protagonista del fermento culturale fiorentino, che fu Ernesto Balducci, figura non meno profetica, prese posizione nel 1963 sull’obiezione di coscienza. E disse che il cristianesimo ha sempre rifiutato il concetto enfatico di patria introdotto nella comune mentalità dal paganesimo moderno. Un’altra cosa che mi sembra di un’estrema attualità in questo attuale periodo storico della vita della cultura politica italiana. Anche Lorenzo Milani prese una posizione netta in proposito, ricordando che il primo papa aveva detto che è più opportuno obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (At 5, 29). Credeva che questo fosse veramente fondante da un punto di vista etico: l’urgenza del recupero dell’identità culturale per una Chiesa che si era cristallizzata nell’istituzione e che credeva non tanto all’azione dello Spirito ma alle azioni diplomatiche delle mediazioni umane, seguendo le derive di un patriottismo demagogico che si era rivelato disastroso nelle due guerre mondiali.

La questione per lui, come tutte le questioni importanti, si giocava tutta sulla coerenza evangelica che la Chiesa era tenuta a mostrare, così come lui si era impegnato a mostrarla in tutta la sua vita, pena l’incredibilità. La sua difesa dell’obiezione di coscienza non fu ideologica, come molti in mala fede o non conoscendolo tentarono di far credere; difese e sostenne l’obiettore cattolico Giuseppe Gozzini non solo perché obiettore di coscienza, ma perché manifestava la non violenza nel silenzio di una Chiesa indifferente alla sua azione. Con la sua solidarietà don Lorenzo gli vuole manifestare il sostegno di un prete e l’appoggio della comunità ecclesiale che non deve dimostrare come la non violenza sia insita nel Vangelo. Lo scrive anche nella lettera agli ex cappellani militari che lo avevano accusato di disfattismo e antipatriottismo: «Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa» [17].

Ribadire continuamente il principio fondamentale di coerenza evangelica ha costituito il leitmotiv del magistero milaniano: il primato della legge di Dio e della coscienza che sostanziano l’azione profetica. «E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso» [18]. Sembra il richiamo a quell’epoca profetizzata da Bonhoeffer nella quale avendo la Chiesa perduto ogni credibilità a causa dell’amore per se stessa, tutte le parole sarebbero diventate vecchie e al loro posto sarebbero subentrate, nel totale silenzio, la preghiera e le opere di giustizia. Per il Lorenzo Milani che proveniva da un mondo non sacralizzato per nascita e cultura, molte parole che per noi sono ovvie non avevano alcun significato. Da lui promanava, come testimoniò lo stesso padre Ernesto Balducci, che fu uno dei suoi pochi amici dialoganti pur nella differenza delle loro personalità, «la forza sconvolgente della sua spesso irragionevole severità esistenziale» [19].

Gli ultimi anni della sua breve vita, mentre la leucemia ne consumava lentamente le forze, trascorsero nella bufera mediatica, causata dalle sue prese di posizione per l’obiezione di coscienza con le lettere agli ex cappellani militari e ai giudici, e con la Lettera ad una professoressa, scritta sotto la sua regia dai suoi “figlioli”, che denunciava il classismo della scuola italiana e induceva a riflettere sulla necessità di riformare il sistema educativo. Chi legge le sue lettere di questi ultimi anni si accorge che tutto il fragore che i suoi scritti avevano provocato non lo turbò più di tanto; non si lasciò lusingare dalle lodi né abbattere dalle critiche, anche le più offensive. La sua solidarietà con le cause dei poveri e dei deboli era totale e senza riserve ma era sempre esplicitamente finalizzata verso obiettivi che non coincidevano con quelli della lotta politica; e da qui la sua incomprensione e la sua critica delle prospettive politiche e umanistiche del marxismo che gli valsero il giudizio ambivalente di Pier Paolo Pasolini che pur avvertendo, a naso, «il lezzo del prete» lo considera «malgrado tutto un uomo adorabile». Pasolini fu sedotto «dal suo spirito critico implacabile ed esemplare […] con una sostanziale purezza ascetica che dà al suo passaggio su questa terra un valore probabilmente più grande di quello dello stesso papa Giovanni, il quale, pur scherzandoci sopra, era un uomo di potere» [20].

Il Priore di Barbiana non fu assolutamente un uomo di potere. Era stato messo ai margini della Chiesa fiorentina, con un ruolo inessenziale per la vita di quella Chiesa, in una parrocchia cui era stato detto non avrebbe più avuto un parroco. E si concretizzò proprio lì, in quella piccola pieve sperduta tra i boschi il capovolgimento dei valori che il Vangelo promuove facendo degli ultimi i primi; senza che gli ultimi si accorgano di essere primi, perché non corrano il rischio di inorgoglirsi per essere diventati primi. Lorenzo Milani sapeva di stare all’ultimo posto e non tentò scalate per riguadagnare posizioni. Ciò gli avrebbe provocato enormi problemi di coscienza e avrebbe contraddetto quella «irragionevole severità esistenziale» che lo contraddistinse. La sua missione di cristiano e di prete la visse senza parametri universalistici, senza creare circoli attorno a sé, e consapevole che non si possono amare se non idealmente tutti i poveri del mondo si dedicò totalmente a quelli che la Chiesa gli aveva affidato e ai quali dirà, nel suo testamento:

«Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto» [21].

Non si può etichettare don Lorenzo Milani, non si può inserirlo in categorie sociologiche o politiche o religiose. Ricorda Andrea Riccardi che il camaldolese padre Benedetto Calati, che visse in quegli anni in prossimità all’ambiente toscano, lo considerava un prete unico nella storia del cattolicesimo italiano del dopoguerra. «Milani sembra che faccia scuola a sé!». Esce fuori dal cliché olografico del prete devoto di cui Pasolini avvertiva il “lezzo” e il ricorso alle parolacce del gergo toscano che ricorre a volte nelle sue lettere avrebbe sicuramente scandalizzato le anime pie, i benpensanti e i puritani: «Star sui coglioni a tutti così come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo». E si rifaceva a Geremia che nell’esilio e nella distruzione del Tempio aveva visto «il principio d’una religione nuova e più vera perché più interiore, quella che pochi secoli dopo fu matura e degna di ricevere il Cristo e di portarlo a tutto il mondo» [22]. Il suo è stato un parlare non clericale, libero, concreto, anticonformista, senza ammiccamenti né a destra né a sinistra, che puntava solo in alto, capace di sfottere anche crudelmente non chi stava in basso ma chi puntava in basso. Scrivendo ad un prete di La Spezia che aveva apprezzato Esperienze pastorali gli dice:

«Mi fa piacere che il mio libro ti abbia insegnato qualcosa. L’ho proprio scritto per questo scopo, per turbare le anime e specialmente quelle dei giovani preti e dei seminaristi. Devo dire che questo scopo l’ho raggiunto anche troppo. Ma ne avevo anche un altro ed era quello di comunicare loro quell’equilibrio che (modestia a parte) comincio ormai ad avere raggiunto interiormente. Questo mi pare una cosa molto difficile quando siamo in seminario o quando se ne è usciti da poco. C’è chi trova l’equilibrio conformandosi all’ambiente, e allora è facile ma vile e non lo invidiamo» [23].

L’anticonformismo di Lorenzo Milani secondo me scaturisce dal detto paolino: «non conformatevi alla mentalità di questo secolo» (Rm 12,2). L’anticonformismo fa parte della vita cristiana, non è un fatto di esuberanza individuale, è la contestazione evangelica ai valori ormai appiattiti nella cultura del tempo. «Sulla via maestra del conformismo non si casca mai, mentre sul filo teso dello sporgersi verso i lontani l’equilibrio è un’arte che tutta la vita non ci basterà per apprendere bene». E per concludere aggiunge: «Gli uomini che sbagliano invecchiano e muoiono: quelli che hanno ragione non invecchiano. Tutto sta dunque nel riuscire ad avere ragione davvero, nel trovare il vero davvero» [24]. E siccome Lorenzo Milani non è invecchiato, c’è sempre questa sua perenne giovinezza, la giovinezza della profezia della Parola di Dio, nel suo messaggio e nella sua vita. Crediamo di dover ancora approfondire questo discorso per renderlo non sospetto, ma un discorso pienamente ecclesiale che può confortare la nostra Chiesa in crisi, la Chiesa del nostro tempo che papa Francesco vuole «in uscita», capace di un nuovo linguaggio, aliena da forme di clericalismo e solidale con la causa dei poveri cui il Cristo l’ha mandata, per lo «sporgersi verso i lontani».

9788892212343_0_424_0_75Nel prefare il libro di Michele Gesualdi, Don Lorenzo Milani, l’esilio di Barbiana, Andrea Riccardi sottolinea fortemente la non incasellabilità del Priore, l’impossibilità di utilizzarlo, di classificarlo con le categorie con cui sono stati letti i cattolici degli anni Sessanta, e possiamo pensare a La Pira, a Dossetti o al circolo dei preti fiorentini come Barsotti, Turoldo e il già citato Balducci. Milani pur in contatto epistolare con alcuni di essi era fuori circuito, nell’esilio di Barbiana. «Bisognava incontrarlo, leggerlo, confrontarsi. Scandalizzava i conservatori e i tradizionalisti in un mondo in cui erano ancora forti. Scavalcava i progressisti in un tempo in cui avevano un’identità», mentre il libro di Gesualdi «lo restituisce alla sua dimensione fondamentale, da cui scaturiscono non solo l’azione pastorale per i poveri, ma l’impegno educativo e sociale, il messaggio civile e tant’altro» [25].

Concludo dicendo che anche questa mia lettura non può essere in nessun modo esauriente. Scaturisce dalle letture antiche e nuove di lui, dagli anni delle speranze giovanili al presente, con un continuo riscontro della sua attualità nonostante il mutare del mondo e della Chiesa, coi tradimenti delle speranze antiche e il sogno del sorgere delle nuove. Un Lorenzo Milani senza tempo, transculturale perché sostanziato dalla perennità del Vangelo e da questo temprato in diamante lucente e tagliente di personalità profetica. Un nuovo modello di santità nonostante qualche parolaccia?

Dieci anni dopo la sua morte padre David Maria Turoldo intervenne per correggere l’immagine errata che di don Milani i media avevano dato in quei giorni, e lo fece con parole non meno forti di quelle che era uso pronunciare il suo amico. Su «La Domenica del Corriere» del 7 luglio 1977 pubblicò un articolo dal titolo: Il mio amico don Milani non era come dite voi!

«Quando si sentono ritratti edulcorati come quelli che ho sentito in questi giorni a certi telegiornali, non si sa neanche se sia maggiore l’indignazione o l’avvilimento che ti fa reagire fino alla sofferenza. Mi sono detto: va che finirà male anche don Milani; finirà peggio di sant’Antonio! Infatti pochi sanno che sant’Antonio era uno dei santi più scatenati che sia mai esistito; molti lo paragonavano a un san Giovanni Battista con la scure in mano; e predicava in modo tale che fino a ora non sono ancora pubblicati in italiano i suoi “Sermones Domini” che avrebbero potuto scandalizzare la gente. Capite? Le prediche di sant’Antonio che scandalizzano! Infatti è vero che non risparmia nessuno, neppure i vescovi (del suo tempo si capisce); dice che “a volte nelle vesti rosse dei monsignori e dei vescovi cola il sangue dei poveri”; dice che “a volte certi vescovi sono peggio dell’asina di Balaam: almeno questa si era accorta quando passava l’angelo del Signore invece i vescovi…”. Così anche i santi devono essere purgati. E poi sant’Antonio era brutto, finito per idropisia, dopo essere passato sull’Italia per dieci anni come un uragano, come un temporale di Dio. […] Guarda cosa ne hanno fatto di sant’Antonio: un santo per fidanzate, una specie di efebo che se la gioca con quel Gesù bambino sulle mani. Povero sant’Antonio!
Avrà la stessa sorte anche don Milani? Già l’altra sera al telegiornale pareva quasi un santino da prima comunione: naturalmente “prete obbedientissimo”. Così come tutti i famosi proscritti: obbedientissimo Manzoni, obbedientissimo Teilhard, obbedientissimo don Mazzolari; e ora obbedientissimo don Milani […] quando dal cardinale Florit e da molti altri preti tuttora viventi era stato giudicato “un bubbone pestifero” da tagliare subito, e perciò era stato confinato da San Donato di Calenzano vicino a Prato a Barbiana nel Mugello: come dire l’isola di Pianosa per i più pericolosi criminali. L’altra sera mi è toccato di sentire il panegirico di lui come di un esemplare del non-dissenso (a parte che poi non si sa chi più dissenta nella Chiesa; perché ve li raccomando questi lefebvriani!, questi “devoti del papa”, a una condizione, che il papa la pensi come loro; diversamente, per esempio, anche papa Giovanni non va bene). […] Così l’altra sera mi sono sentito un don Milani che non riconoscevo più. Non una parola circa le sue “Esperienze Pastorali” che sono una gettata di lava incandescente; e lui già che si rivela in quel libro come un cratere in eruzione nella chiesa di Firenze, un punto dove la “crosta terrestre” ha ceduto. Niente, non una parola sulla “Lettera ai giudici”, sulla “Risposta ai cappellani militari”, sulla difesa degli obiettori di coscienza, non una parola sul suo confino…».

E conclude Turoldo:

«Certo che è un santo! Ma non è che i santi debbano essere delle mezze cartucce? Anzi, io che l’ho conosciuto, col quale ho passato i più infuocati incontri del mio sacerdozio, tenendogli appunto testa per via di quella giustizia al grado di furore di cui è stata divorata la sua vita più che dalla leucemia, dico che solo quando la Chiesa avrà il coraggio di riconoscere la santità di don Milani senza togliere neppure una parola (tanto meno le sue parolacce!) alla sua esperienza – tale e quale egli l’ha vissuta – allora dico che avremo una Chiesa veramente nuova; e una nuova santità muoverà il mondo».
Padre Turoldo

Padre Davide Maria Turoldo

Così padre Turoldo, con l’enfasi profetica del poeta del Verbo; mentre la visita a Barbiana di papa Francesco credo abbia indirizzato alla rilettura di don Milani proprio secondo il suo auspicio. Il papa lo ha fatto citando le parole di Alice Weiss, la mamma di don Lorenzo:

«Mi preme soprattutto che si conosca il prete, che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa e che la Chiesa renda onore a lui… quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta, per me, il mistero più profondo di mio figlio… Se non si comprenderà realmente il sacerdote che don Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche tutto il resto. Per esempio il suo profondo equilibrio fra durezza e carità».

Ernesto Balducci, dal suo canto, ci fornisce una chiave di lettura puntuale e sintetica dell’opera e della santità di don Milani, inquadrandola nell’alveo di una dinamica culturale che la Chiesa di oggi, nel suo cammino sinodale, non può assolutamente trascurare:

«Proprio secondo le esigenze di un’epoca post-religiosa e post-sacrale, egli ha vissuto la fede senza modificarne le articolazioni tradizionali e tuttavia inserendola con forza profetica dentro la stessa dinamica della civiltà secolare. È proprio sotto questo profilo che secondo me dovrà essere studiata in seguito, quando avremo in mano tutti i documenti, la testimonianza di don Milani» [26].

Ed è quello che dopo cinquant’anni stiamo cercando di fare, rivisitando la figura originale e il patrimonio spirituale che quest’uomo ha lasciato nei suoi scritti singolarissimi. Se ne gioveranno la Chiesa e il mondo civile congiuntamente. La Chiesa nel ritrovare un modello di santità postmoderno, il mondo civile per tradurne in chiave sociale gli insegnamenti sulla promozione umana che lui dettò con un magistero esistenziale. Di Lorenzo Milani ci care ancora!

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Note
[1] Le due frasi in esergo in G. Pecorini (a cura di), I care ancora. Inediti, lettere, appunti e carte varie, Editrice Missionaria Italiana, Bologna 2001.
[2] M. Gesualdi (a cura di), Lettere di don Lorenzo Milani Priore di Barbiana, A. Mondadori, Milano 1970: 209. I “due popoli” di cui parla Milani sono quelli di San Donato a Calenzano prima e quello di Barbiana poi.
[3] Notizie fornite da Michele Gesualdi nel suo libro testimonianza, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 2016: 199.
[4] L. Milani, Esperienze pastorali, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1958: 49.
[5] G. Pecorini, cit.: 26.
[6] L. Milani, cit.: 192.
[7] M. Toschi, Don Lorenzo Milani e la sua Chiesa, Ed. Polistampa, Firenze 1994: 15.
[8] M. Pancera, Lorenzo Milani. Quarant’anni di storia scomoda, Edizioni Paoline, Milano 1987: 125.
[9] Ivi: 123.
[10] Nazzareno Fabbretti, Intervista a Mons. Raffaele Bensi, «Domenica del Corriere», 27 giugno 1971.
[11] Cfr. nota 6.
[12] Cfr. C. Dawson, Religione e cristianesimo nella storia della civiltà, Paoline, Roma 1984.
[13] Cfr. M. Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971.
[14] Mons. Enrico Bartoletti (1916-1976) docente di ebraico, greco biblico e Sacra Scrittura al Seminario maggiore di Firenze; segretario della CEI, divenne vescovo di Lucca nel 1958.
[15] C. Rebora, Le poesie, Garzanti, Milano 1988: 299.
[16] Il testo completo della lettera in M. Toschi, cit.: 158-163.
[17] Ivi: 95.
[18] M. Gesualdi (a cura di), Lettere di don Lorenzo Milani Priore di Barbiana, cit.: 250.
[19] E. Balducci, La fede di don Milani, in «Testimonianze» 125, 1970: 467.
[20] P. P. Pasolini, recensione di Lettere alla mamma di Lorenzo Milani, sul settimanale «Tempo» dell’8 luglio 1973, inserita poi negli Scritti corsari, Garzanti 1975.
[21] M. Gesualdi (a cura di), Lettere di don Lorenzo Milani Priore di Barbiana, cit.: 324.
[22] Lettera a Carlo Weiss del 26 dicembre 47, in G. Pecorini, cit.: 36.
[23] M. Gesualdi (a cura di), Lettere di don Lorenzo Milani Priore di Barbiana, cit.: 115.
[24] Ivi: 117.
[25] In M. Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, cit.: 13.
[26] E. Balducci, La fede di don Milani, cit.: 472.

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Leo Di Simone, teologo, scrittore, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo e docente stabile di teologia presso la Scuola Diocesana di Teologia. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per i Migranti. Attualmente è Referente diocesano per il Sinodo dei Vescovi. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018).

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