Ne Las meninas (1656) Velàzquez dipinse se stesso che dipinge. Ma non ci troviamo di fronte ad un autoritratto nel senso più ovvio. L’autoritratto presuppone la totale specularità fra chi è rappresentato e chi dipinge. La tela su cui gli artisti dipingono se stessi è una sorta di specchio cieco in cui cercano di far affiorare quanto un vero specchio rimandi. In una sorta di solidarietà fra tela e specchio per la cattura dell’immagine, la lucida pellicola di vernice che rifinisce la pittura fissa la figura per sempre, il che non può fare lo specchio (benché esistano credenze che anche questo possa talora mantenere a lungo quanto vi si sia riflesso).
A proposito di Las meninas – dato che contiene un autoritratto – la domanda preliminare da porsi potrebbe essere: quanto noi vediamo dipinto sulla tela rappresenta quel che il pittore guardava riflesso in uno specchio? In altri termini: questo quadro, con tutti quei personaggi curiosi che dominano la scena, ricca e complessa come in una piccola rappresentazione teatrale, è la fissazione di un’immagine che il pittore osservava riflessa in un grande specchio a parete? No, non è questa la giusta lettura del dipinto. Il dipinto lascia comprendere senza difficoltà come e perché non si tratti di una rappresentazione vista allo specchio. Quel grande maestro del barocco ha inserito l’autoritratto in una rappresentazione composita, riprendendo se stesso a fianco delle figlie del re, dei buffoni di corte e perfino del grande cane, regalandoci il privilegio di cogliere una dimensione antropologica della “famiglia” e della corte in cui l’artista operava: il pittore viene raffigurato in un interno una cum i bambini, i nani buffoni, i domestici, il cane… Ma oltre questi aspetti di straordinario interesse, diciamo così, per la storia della cultura, la vera importanza di questo quadro sta in una sorta di rivoluzione copernicana che il suo progetto architettonico e rappresentativo ha segnato nella storia dell’arte – starei per dire – non solo figurativa.
In Las meninas il pittore non conquista più una posizione centrale di fronte e al centro della sua opera, ma è dentro l’opera stessa e vi occupa una posizione decentrata. Egli insomma non è più (come in altre epoche, di maggiore fiducia antropocentrica) al centro del cerchio, ma occupa uno dei due fuochi di un’ellisse. In questa perdita/rinuncia di centralità, non è suo l’occhio che tutto osserva e indaga. Ma esiste invece un occhio esterno, l’occhio di un altro, che sta guardando la scena. Noi che contempliamo Las meninas, vediamo appunto la scena con gli occhi di un qualcun altro che non è il pittore, e che sta occupando – proprio come noi che guardiamo la tela – un punto esterno alla scena stessa.
“Dentro” il quadro di Velàzquez, appeso alla parete di fondo proprio alle spalle del pittore c’è raffigurato uno specchio in cornice (curioso, un autoritratto che ha lo specchio alle spalle!). Qui, fra quanto dalla scena poteva riflettersi, noi riconosciamo rispecchiate le fattezze di qualcuno che non è nel quadro, cioè quelle del re di Spagna e della regina. E così dunque finalmente capiamo: sono dunque loro che dall’esterno stanno guardando la scena, proprio loro il cui ritratto il pittore sta eseguendo sulla grande tela di cui ci appare solo il rovescio. In quel preciso momento di quella precisa giornata immortalato da Las meninas, lo specchio ha rubato loro l’immagine. Come ha scritto Foucault “grazie a un movimento violento, istantaneo e di pura sorpresa, (lo specchio) cerca di qua dal quadro ciò che è guardato ma non visibile, al fine di restituirlo, sul fondo di questo spazio inventato, visibile ma indifferente a tutti gli sguardi”. Nientemeno del re di Spagna, dunque, è lo sguardo col quale il nostro coincide, di quel re che è doppiamente invisibile (perché non possiamo vedere né la sua effigie diretta né il ritratto che ne fa il pittore, ma solo un riflesso sbiadito). Anche noi guardiamo la scena accaduta quel certo giorno di quel certo anno in una sala della reggia di Madrid con lo stesso sguardo degli augusti reali. Una responsabilità e un compito straordinari ci ha affidato (noi ignari) il pittore, conferendo così una inaudita eternità al suo re. Grazie a “noi” e alla biologia sempre rinnovata dei nostri occhi – contemplatori di quel quadro già da secoli e per altri secoli a venire – lo sguardo del Re può sconfiggere il tempo. Ed è in questo complesso gioco splendidamente barocco di rinvii e di riflessi che Velàzquez ha voluto che ci giungesse anche il suo proprio ritratto: ci giunge grazie alla circostanza che il re ha posato su di lui il suo occhio. Non celebra dunque questo quadro il trionfo, la sublimazione, la gloria della tematica dello sguardo?
Lo specchio – ha già notato Foucault a proposito di Velàzquez – ci dà il rovescio e la verità. Se l’artista non è che un fingitore e un mentitore, che fa sempre i conti con la limitatezza e la non plausibilità dei suoi mezzi, lo specchio ce lo ricorda con beffarda precisione quando, mostrando il rovescio della rappresentazione, ci informa di quanto rimane fuori dalla nostra portata. Così s’innesca una sorta di gioco del rovescio: si aprono altre dimensioni che nella consueta convenzione rappresentativa ci sarebbero precluse.
Il gioco del rovescio (1978) è un racconto di Antonio Tabucchi. Le opere d’arte, si sa, sono a volte fra loro connesse da fili così tenaci da attraversare anche i secoli. Ma nel caso del racconto di Tabucchi abbiamo qualcosa di più: l’autore ha voluto partire esplicitamente da Las meninas di Velàzquez per segnare un punto fermo nella sua opera. Ricordo bene la mia sorpresa quando lo lessi, e la sensazione di novità, di svolta e perfino di azzardo, che il nuovo libro mi procurò rispetto alle opere d’esordio.
Nel racconto Tabucchi immagina di trovarsi al museo del Prado a Madrid, davanti alla tela di Velàzquez, proprio nell’esatto momento in cui a Lisbona stava morendo una sua amica, Maria do Carmo. Proprio lei gli aveva rivelato come il segreto di quel quadro stesse tutto nella figura di fondo: da una porta aperta e piena di luce si intravede un uomo con un enigmatico sorriso. Era questa la chiave del quadro per Maria do Carmo: questa figura – che non è propriamente dentro la rappresentazione, ma sta allontanandosi ed anzi è già fuori – vede quel che nessun altro può vedere, vale a dire vede i Reali, vede il gruppo di persone e anche ciò che il pittore sta dipingendo su quella tela di cui si può intravedere solo il rovescio. Forse per questo sorride in quel modo ironico e distaccato. Il suo sguardo giunge dove nemmeno quello del re di Spagna può giungere…
Può un piccolo racconto rappresentare una geniale (e pertinente, perfino utile) interpretazione di un’opera così complessa come Las meninas di Velàzquez? Tabucchi sembra dimostrare di sì quando, per quel quadro, adotta la definizione di gioco del rovescio. E non si tratta solo dell’intuizione di un artista, destinata ad esaurirsi come un lampo di genio istantaneo. Perché a partire dalla figura di Maria do Carmo egli, nella sua ricerca di scrittore, farà del gioco del rovescio nientemeno che uno schema metafisico di lettura del mondo. In molte opere proprio questa sarà una delle forze della sua affabulazione. Il fascino di Maria do Carmo – scrive l’autore (una sorta di autoritratto?) – era che sapeva vedere il mondo da un punto di osservazione straniato e inaudito, capace di cogliere sensi e non-sensi unici e personali, e di vedere quello che nessun altro potrebbe vedere. Al giovane amico italiano il personaggio di Maria diceva: “Forse sei troppo giovane per capire, alla tua età io non avrei capito, non avrei immaginato che la vita fosse come un gioco che giocavo nella mia infanzia a Buenos Aires”. Era un gioco del rovescio, appunto, un gioco che capovolgendo (proprio come fanno gli specchi) l’immediata esperienza del reale, apre all’immaginazione nuove prospettive. Ed è proprio a questo proposito che nel gioco di specchi del racconto di Tabucchi compare il nome di Pessoa (il “più sublime poeta del rovescio”). Compare catturato dalle volute della narrazione, rivelando di quel testo il senso più autentico e ineludibile: così come nel quadro di Velàzquez il volto del re e della regina di Spagna si riconoscono incorniciati nel piccolo specchio sul fondo della parete e per quella loro epifania ci fanno comprendere il gioco di capovolgimento in cui siamo coinvolti. “Pessoa – diceva Maria do Carmo – è un genio perché ha capito il risvolto delle cose. Del reale e dell’immaginario, la sua poesia è un juego del revés”.
Probabilmente, dunque, quel che Tabucchi scrive sul quadro di Velàzquez non è che un altro piccolo specchio perché vi si rifletta il nome di Pessoa. In Velàzquez lo specchio sullo sfondo è un “segno”, che rispecchia quel che non si può vedere e permette di immaginare la quarta dimensione mancante, quella della linea dell’osservatore. E rimanda a quel qualcuno (“il re del gioco” di cui dice Tabucchi) che dà il massimo senso alla rappresentazione in atto, pur in assenza. Così centrale è il ruolo che già in quest’opera di Tabucchi ha Fernando Pessoa.
molto interessante!