Prologo: Verso l’elegia del dettaglio
La fascinazione, che prevedibilmente ci appare tutta compresa in quel sinusoidale mondo analogico luminosamente sorretto dalla struttura di continuità, da sempre alimenta in Wim Wenders il letto della memoria, la scoperta necessaria dei luoghi, i quali hanno poi il potere di rimandare e riannodare ogni cosa al suo contrastato bagaglio intimo. Non è certo secondaria l’evidente straziata visibilità che agita, in una fluviale corsa d’immagini e pensieri, quella condizione personale di disagio dalla quale il regista di Düsseldorf ci consegna mostrandola tenacemente insita nella dimensione del quotidiano. Allo stesso modo anche quel suo scorrimento reso incandescente e al contempo quieto a cui Wenders si affida in ogni dove del suo registro filmografico per poi abbandonarsi, godendo nella sommersione tesa alla conquista d’una sorta di riappacificazione con il suo mondo interiore e con la società introiettata e vissuta sin dai lontani decenni della propria formazione.
Già conoscevamo il Wenders confezionatore del partecipe tributo famigliare abilmente e modernamente percorso nei frame pellicolari d’una 18 millimetri, proprio in quella ricostruzione di una vera e propria archeologica anastilosi di esistenze. Sono i tumultuosi giovanili anni trascorsi e maturati nei decenni del Sessanta, sospinti con scientifica gradualità verso il movimento del Junger Deutscher Film e che gli fanno abitare l’alcova sempre più esigente per una consolidazione della sua poetica, la quale sembra subito animata da un ‘torpore’ che potremmo definire ‘attivo’, in cui la mente raggruma esperienze rapidamente filtrate attraverso i pori di una ossessività lenta, erodente del superfluo, e depositate in quel vermicolare spazio del subconscio.
Tutto ciò esita in quella capace attività distillatrice di Wim Wenders al fine di elargire immagini rivolte ad una creatività del reale che naviga e si rafforza nella inusitata spinta visionaria (c’è una visionarietà che sfugge alla realtà ed una che sta ad essa ancorata). Ciò che colpisce è, senza dubbio, il modo in cui tale visionarietà possa autogenerarsi dalla totalizzante immersione del regista e sceneggiatore sin nelle più minute pieghe del contesto reale; visionarietà che a poco a poco si rende sempre più agitata avvertendo l’esito consapevole di uno scompaginamento del suo organismo destinato a frammentarsi nel molecolare paesaggio del mondo reale in cui egli appare circonfuso dalla mediazione del sogno.
Comunque, immutata, allo stesso tempo, rimane la proprietà di detenere, punto per punto, legame per legame, il tutto di un universo di sensazioni, di ricordi efficacemente tesi alla disponibilità della rammemorazione; essi costituiscono, infatti, imprescindibili legami tra il passato e un presente riletto quale pedana di lancio verso il futuro con le sue accattivanti accelerazioni, con le sue ambiguità, e, forse proprio per questo, giunge ad una ‘felice’ condizione nella quale s’indugia nel tempo presente. Tale scenario si traduce in una estensione metafisica, ancor più avvalorata da una pratica metalinguistica del suo progredire filmico. Partendo da anelli in apparenza semplici si va dilatando fino a rendere percepibile quella realtà sociale, assieme a quella architettonica, fortemente amplificate nelle palpabili atmosfere delle periferie, luoghi in cui viene decantata la cultura o si definisce la poetica e, con essa, quell’incommensurabile idea del viaggio e dei fondamentali collegamenti tra culture e umanità. Architetture percorse come città umane: da Parigi a Berlino, da Lisbona a Palermo, da Marsiglia a Tokyo, mantenendo vive in ciascuna di esse quelle che son state le città formative: dal paesaggio industriale di Sterkrade-Oberhausen (nel distretto di Düsseldorf in Renania con le sue ferriere e miniere di carbone) a Friburgo, a Monaco.
Perfect Days: lenta sommersione nell’intimità minimalista
In Perfect Days confluisce una catenaria di short documentaries immersi con abile maestria e acutamente modellati ad uso dei diciassette bagni pubblici disegnati da celebri architetti giapponesi (tra cui Ban Shigeru) aderenti al “Tokyo Toilet Project” promosso dalla Fondazione Nippon in cui il valore estetico, in parallelo alla modernità funzionale, sia assolutamente pregnante. Si contrappongono, per alcuni peculiari aspetti estetico-narratologici all’idea dei ‘nonluoghi’ di Marc Augé, cioè luoghi di passaggio, precari, nei quali non sia possibile alcuna relazione in quanto nessuno li abita e scevri da ogni idea di estetica.
Harayama (protagonista del film) è un uomo solitario; egli ha fatto del silenzio il suo connotato identitario, intimo, assoluto. Addetto alle pulizie dei servizi igienici, è scrupoloso, assolve il suo compito con un assoluto senso del dovere. Legge poeti e scrittori, si prende amorevole cura di bonsai e dei suoi libri che crescono orizzontalmente lanciandosi ogni tanto in aguzze punte verticali ed elaborando minuscole muraglie lungo le pareti della sua stanza dai divisori scorrevoli. Raccoglie piantine dai polloni degli alberi, ascolta in auto le usurate musicassette degli anni Settanta e fotografa, nei momenti di pausa, lo stesso albero mentre registra i movimenti dei passanti, i loro gesti, le espressioni.
Fedele alla ritualità spesa nei bar dove si rifocilla, nutre lo spirito nella medesima libreria per leggere, tornando a casa, abbandonandosi sul suo futon (‘materasso arrotolato’ della tradizione giapponese); in tale suo personale paesaggio sonoro, dilatato e adattato per quanto sia possibile al suo sensorio, egli coglie e immagazzina ogni trasformazione di luci e suoni facendoli rientrare nel suo stesso ritmo circadiano: fruscii, improvvise sonorità, canti ornitologici, suoni ripetuti dopo il risveglio in cui il mattino si popola, per chi sa ascoltarle, delle vibranti corde degli alberi in fronde sperdute nel cielo, dallo stesso raschiare degli spazzini con le loro scope, e ancora dai rumori in cucina allo spazzolino per i denti alle abluzioni nei bagni pubblici. La sua realtà è vissuta, dunque, come unico e personale modo della conoscenza, una ermeneutica che gli consente d’immettersi nella griglia di una sentimentalità dipanata in muti dialoghi allacciati alle persone e corredati da una serena partecipazione mimica oppure accompagnata da oftalmici scrutamenti: veri e propri dragaggi rivolti alla comprensione dell’altro.
Harayama frequenta e gusta l’umanità, convinto che proprio il consapevole distacco dalla sua famiglia, dal suo rappresentativo ceto e censo, possa offrirgli, attraverso la routine giornaliera, l’unica giustificazione probante all’esistenza qui interpretata, in Perfect Days (2023, sceneggiatura di Wenders con Takuma Takasaki), da uno straordinario Kōji Yakusho. Harayama riceve il dono delle immagini dai suoi occhi profondi, è questo dono viene percepito e trasmesso nella continua capillare commozione che egli distribuisce agli altri commensali della quotidianità; fotografa con la sua fedele macchina analogica piantine, visi: seduto e immerso nel verde mobile del parco, incrocia lo sguardo con altri viaggiatori temporanei durante le sue pur brevi quanto intense pause.
Harayama vive un giorno dopo l’altro la sommessa liricità dell’umana rappresentazione, della gloria della natura scandita da ombre, suoni, commossi abbagli di luce in cui si riflettono le parole degli scrittori, la loro traboccante poesia sulle minute cose (ricordiamo l’altro film di riti, Paterson, di Jim Jarmusch, legato al luogo nativo del poeta modernista e medico William Carlos Williams), sulla semplicità gestuale, su accadimenti estremi, il tutto bagnato da un minimalismo psicologico e tattile del vissuto che nulla pretende se non ricevere la commossa partecipazione del prossimo, il loro inconfutabile valore esemplato nel film dagli altri personaggi (dalla sorella alla giovane nipote, dal bizzarro collega al presunto rivale aggredito dalla malattia) e del celeste che si coniuga al terrestre tramato e assorto in parole, come quelle di Aya Kōda (Tokio 1904-Ishioka 1990), l’autrice di Morte di mio padre (“Chichi: sono shi”) o Note casuali (“Zakki”) e che riflettono, come in Wenders, esperienze traumatiche e percorsi di formazione adolescenziale, esemplarmente rilevabili da Aya in: Scarti di miso (“Misokkasu”) o in Fiori nell’erba (“Kusa no hana”) o in Alberi.
Solitudine e fragilitas sostentano quindi la cognizione del protagonista delle proprie azioni e pensieri speziati di zen: dicono tanto e resistono, senza scadere in mielose costruzioni, nella misura della contemplazione, nel saper cogliere tra ombre e sospiri leggeri di foglie le tracce di esistenze analogiche come possibile e lenitivo rapporto con la lentezza, contro il caos cementificato degli spazi urbani. Amore per la poesia? per il silenzio? Accusa per quel tempo fuggevole privato della riflessione? Affannosa ricerca della originaria purezza dei sentimenti? Certamente sì, com’è accaduto nei tanti versi pronunciati da Natsume Sōseki, scrittore, pittore e poeta scomparso nel 1916 di Edo (l’antico nome di Tokyo), in cui, nel suo Guanciale d’erba, ricorda di contemplare fiori e rami stesi nel cielo: «un cielo / colmo solo di fiori / di magnolia»: un verso simile al sussurro tra le foglie musicalmente scandito da Wenders: un possibile riparo alle dogliose pagine della vita?
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
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Aldo Gerbino, morfologo, è stato ordinario di Istologia ed Embriologia nella Università di Palermo ed è cultore di Antropologia culturale. Critico d’arte e di letteratura sin dagli anni ’70, esordisce in poesia con Sei poesie d’occasione (Sintesi, 1977); altre pubblicazioni: Le ore delle nubi (Euroeditor, 1989); L’Arciere (Ediprint, 1994); Il coleottero di Jünger (Novecento, 1995; Premio Marsa Siklah); Ingannando l’attesa (ivi, 1997; Premio Latina ‘il Tascabile’); Non farà rumore (Spirali, 1998); Gessi (Sciascia-Scheiwiller, 1999); Sull’asina, non sui cherubini (Spirali, 1999); Il nuotatore incerto (Sciascia, 2002); Attraversare il Gobi (Spirali, 2006); Il collettore di acari (Libro italiano, 2008); Alla lettera erre in: Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011). Di saggistica: La corruzione e l’ombra (Sciascia, 1990); Del sole della luna dello sguardo (Novecento, 1994); Presepi di Sicilia (Scheiwiller, 1998); L’Isola dipinta (Palombi, 1998; Premio Fregene); Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia, 2001); Benvenuto Cellini e Michail K. Anikushin (Spirali, 2006); Quei dolori ideali (Sciascia, 2014); Fiori gettati al fuoco (Plumelia, 2014).
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