di Cristina Siddiolo
Il mio interesse per i Mapuche, il popolo amerindo originario del Cile centrale e meridionale che costituisce la più importante minoranza etnica attualmente presente sul territorio, nasce nel corso di un interessante soggiorno in Cile, avvenuto in concomitanza dell’esplosione della grande contestazione in tutto il Paese contro il carovita. L’occasione di conoscere i Mapuche più da vicino arriva proprio dalla possibilità di vivere il “campo della protesta”. Esso è in primo luogo interessante poiché si presenta come un gioco delle parti: da una parte i dissidenti e dall’altra i contestati. Cos’è infatti una protesta se non un modo di rimarcare la propria identità in relazione a delle altre? Cos’è una protesta se non l’effetto di un mancato dialogo fra egemonici e subalterni?
La protesta, in quanto fenomeno che emerge da un attrito e da una frizione, mette in primo piano la questione dell’identità e della cultura, costrutti problematici su cui si è articolato gran parte del dibattito antropologico, rimandando inevitabilmente a storie di soprusi e violenze che andando a ritroso, ancor prima della dittatura di Pinochet e dell’esperimento neoliberista dei Chicago boys [1], riportano alla colonizzazione spagnola.
Il costrutto di cultura, nella sua dimensione dialogica, plurale e poliprospettica, è centrale nelle riflessioni imposte dalla protesta. Chi sono i cileni? E chi sono i Mapuche? È veramente possibile tracciare un confine netto fra queste categorie? Quali sono i parametri, socialmente e culturalmente condivisi in una determinata epoca storica, che si utilizzano per tracciare queste linee divisorie? Non sarebbe più utile affrontare la questione sul piano dell’autorappresentazione?
Secondo i dati del censimento del 2017, l’89% della popolazione cilena (più di 17 milioni di persone) è costituita principalmente da emigranti europei che arrivarono dalla Spagna durante la colonizzazione spagnola del Paese – attualmente il gruppo etnico è composto da italiani, croati, francesi, tedeschi, inglesi e polacchi – e dai meticci, o mestizi, parola spagnola che era usata per indicare una persona di discendenza europea e amerindia; l’11% della restante parte è costituita, invece, da un’incredibile varietà di gruppi etnici [2] fra cui il più ampio è costituito dai Mapuche.
Queste poche informazioni sono sufficienti per decostruire un concetto di cultura al singolare, essenzializzante e onnicomprensivo. Sebbene il principio omologante della narrazione dominante dello Stato-nazione, in Cile come in Europa, ha storicamente prodotto una forma di riconoscimento comune, soffocando e depotenziando le molteplici narrazioni pre-esistenti, di fatto essa non ha tuttavia prodotto la formazione di un’unica identità culturale. L’idea stessa di una identità culturale è destinata a condurre ad un vicolo cieco poiché, a qualunque livello la si consideri, la specificità della dimensione culturale è quella di essere costitutivamente plurale e allo stesso tempo singolare, nonché cangiante e in costante trasformazione (Jullien, 2016). Con questa difficoltà, oggi come ieri, ci si misura. Anzi, in qualche modo è spesso l’eccezione, l’evento straordinario, l’incidente, a rappresentare l’elemento più interessante da indagare, poiché rivelatore di narrazioni culturalmente connotate, che pur essendo presenti e conviventi non sempre sono facilmente e in prima approsimazione visibili. Sono soprattutto le narrazioni delle minoranze che le proteste cilene hanno fatto emergere con nuova forza, e in particolare quella dei Mapuche [3].
I Mapuche, ad oggi, sono diventati il simbolo della resistenza ad ogni forma di dominio ingiusto e della attuale lotta per i diritti fondamentali. A differenza di altre popolazioni indigene, sono sopravvissuti agli Inca, agli Spagnoli e alla spietata classe dirigente cilena. Per la loro resistenza e per la loro resilienza, in parte dovuti alla loro indole guerriera e al loro peculiare modello di organizzazione sociale definito come “territori senza Stato” – privo di un governo centrale che accentri troppi poteri, caratterizzato da una formidabile reciprocità con la natura, che misconosce la proprietà privata terriera e ha una forte base comunitaria, offrendo fra l’altro un paradigma socioeconomico alternativo a quello neoliberista contestato – i Mapuche sono diventati un punto di riferimento molto importante per i protestanti. Le bandiere mapuche sventolano accanto a quelle cilene e gli stessi mapuche prendono parte in maniera attiva alle proteste divenendo, così, un simbolo di riappropriazione della memoria storica.
Molte furono, infatti, le violazioni, materiali e immateriali, che vennero perpetrate ai danni dei Mapuche e degli altri popoli indigeni. Tanto più che giuridicamente non si riconoscono, ancora oggi, le culture indigene come patrimonio essenziale del Paese e i programmi scolastici ne ignorano storia, lingua e cultura, eccetto nei primissimi anni delle elementari. Da qui la richiesta dei manifestanti di una società più equa a partire da un cambiamento della Costituzione, richiesta che rappresenta il cuore delle rivendicazioni. Il Cile è, infatti, uno dei Paesi più ricchi e più disuguali del Sudamerica. Storicamente l’origine delle grandi disuguaglianze – spiega un Rapporto pubblicato nel 2017 dal PNUD [4], il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo del Cile – fu l’assegnazione delle terre realizzata durante l’epoca coloniale spagnola, che favorì i discendenti degli europei e segnò l’ascesa della classe borghese cilena. L’espropriazione delle terre proseguì anche dopo la cacciata degli spagnoli, soprattutto ai danni dei mapuche.
I Mapuche, letteralmente il “popolo della terra” (essendo il termine composto dalle parole mapudungun mapu “la terra” e che “popolo”) erano caratterizzati da una forte indole guerriera, riconosciutagli anche dagli Inca che, non a caso, gli attribuirono l’appellativo di auca, traducibile come ribelle o feroce. Essi infatti avevano spesso scontri violenti non solo con le popolazioni vicine ma anche fra gruppi interni allo stesso popolo mapuche, dal momento che non esisteva un’organizzazione politico-militare centralizzata, ma una confederazione di tribù tra loro indipendenti la cui organizzazione centrale era costituita dal lof, un complesso ed esteso lignaggio di parentela di origine matrilineare, la cui autorità era rappresentata dal lonko (capo).
Opposero resistenza non solo alla dominazione degli Inca con successo, continuando a mantenere la propria organizzazione politica e sociale, ma anche ai conquistadores il cui conflitto – denominato “la guerra di Arauco” (1541-1883) – è oggi genericamente considerato in ambito storiografico il più lungo della storia con i suoi oltre 300 anni di conflitti.
Il sociologo Eduardo A. Cruz Farias ha scritto un interessante saggio in cui, da una prospettiva comparata, analizza la risposta militare alla conquista spagnola delle popolazioni indigene del Cile (i Mapuche) e del Messico (gli Aztechi). È sorprendente la differenza dei dati storici in nostro possesso: mentre nel 1521 Cortes aveva già conquistato, dopo tre anni di scontri, l’impero atzeco in Messico e tra il 1531 e il 1533 Pizarro aveva portato a termine l’assoggettamento dell’impero inca in Perù, i Mapuche resistettero per più di 300 anni, ribellandosi con forza all’avanzata spagnola. L’unica sconfitta che gli spagnoli subirono in America fu in Cile.
Particolarmente importanti sono le fonti storiche provenienti dai cronisti spagnoli, Alonzo de Ercilla, Gongora Marmolejo e Nuñez de Piñeda, i quali ne parlano in termini di rispetto e ammirazione, nonostante Ercilla e Marmolejo li abbiano combattuti e de Piñeda sia stato loro prigioniero. Inoltre le lettere inviate al re Carlo V da Pedro de Valdivia costituiscono un documento estremamente prezioso per i cileni poiché in esse si riscontrano le impressioni che egli ebbe dei Mapuche, considerati una delle “razze” indiane d’America più notevoli (Farías, 2002). Afferma Farías: «Non solo gli spagnoli non possono vincere, ma non meritano di vincere secondo quanto affermato dal cronista spagnolo Alonzo de Ercilla; l’accusa morale è molto più nera di quella militare»[5].
Molte sono le ipotesi che potrebbero spiegare la straordinaria lotta, che durò più di trecento anni, fino alla costituzione dello Stato cileno nel 1881, portata avanti dai Mapuche. Secondo molti studiosi fu proprio il mito guerriero, della forza e del potere, che permise ai Mapuche di resistere alla dominazione spagnola. Inoltre, l’assenza del concetto di schiavitù (presente, invece, nei popoli inca e azteco) non rendeva concepibile l’idea di una dominazione straniera, esterna e al di sopra della popolazione stessa. Il “popolo della terra” era un popolo di guerrieri, abituato allo scontro e da sempre indipendente, mai soggetto ad un forte controllo da parte di un potere centralizzato. La difesa delle proprie terre e delle proprie tradizioni culturali era anche dovuta alle credenze religiose, che davano particolare importanza al culto degli antenati, ancorando fortemente i mapuche ai loro luoghi d’origine.
Uno degli elementi più interessanti che emerge dalle fonti storiche è inoltre la straordinaria flessibilità che li caratterizzò nell’arte della guerra. Non tardarono a fare proprie le tecniche di guerra del nemico, mescolando in modo innovativo le strategie e le armi tradizionali (soprattutto lance e bastoni) con l’artiglieria importata dai conquistatori. Nello specifico adottarono due differenti tattiche di guerra: se ritenevano di potere vincere affrontavano il nemico in battaglia, combinando fanteria e cavalleria per potersi muovere meglio e più velocemente anche sui terreni più difficili, mentre in situazioni in cui il rischio della sconfitta era troppo alto usavano sottomettersi agli spagnoli aspettando il momento opportuno per la ribellione, una volta abbassata la guardia dei conquistatori. La strategia di guerra dei Mapuche, nel lungo periodo, si rivelò vincente. Gli aspetti politici, religiosi e militari della società mapuche – nonché l’adozione dell’uso del cavallo, lo spionaggio presso il nemico e il coraggio (e la fierezza) in battaglia – sorpresero gli spagnoli al punto che nel 1612 il governatore Alonso de Ribera decise di riconoscere il fiume Biobìo come confine del territorio mapuche [6].
Il 1600 fu caratterizzato da diversi scontri fra comunità mapuche e conquistadores, causati essenzialmente dalla fondazione del forte di Santa Cruz e dalle continue “spedizioni punitive” degli spagnoli che avevano lo scopo di farli prigionieri (utilizzandoli come forza-lavoro o come soldati in truppe ausiliarie) o di venderli come schiavi. In risposta alle spedizioni di cattura degli spagnoli, i Mapuche risposero con feroci attacchi e fra il 1654 e il 1656 ebbero luogo gli ultimi grandi scontri che indussero gli spagnoli a ritirarsi alla foce del Biobìo a 200 km a nord del fiume Male. Ben presto, tuttavia, venne restaurata la linea di confine naturale costituita dal fiume Biobìo, zona caratterizzata non soltanto da violenti scontri ma anche da importanti scambi commerciali e regolamentata da frequenti accordi di pace, definiti durante degli incontri chiamati parlamentos [7].
Nel corso del 1600 vi furono diversi parlamentos, di cui uno dei più decisivi e importanti ai fini della tregua fu quello del 1683 (anno in cui viene proibita la schiavitù) che sancì un lungo periodo di pace al confine, caratterizzato da notevoli scambi commerciali. Nonostante i mapuche non permettessero il libero transito degli huincas (“bianchi”) nelle zone che consideravano proprie, a partire dal 1780 circa iniziarono ad accettare una limitata presenza spagnola e creola nella loro terra. Col passare del tempo i mapuche iniziarono ad interagire sempre più spesso con la cultura ispanico-creola. Con il Parlamento di Negrete del 1803, l’ultimo del periodo coloniale del Cile, entrambi i contendenti strinsero un’alleanza di pace che diede avvio alla “mestizzazione”, creando una sorta di ponte tra le due culture. Questo status quo fu mantenuto per tutto il secolo successivo. Rivolte e proteste furono meno frequenti, ma tra i mapuche rimase l’opposizione alla completa integrazione.
Quando, infine, nel corso del 1810 ebbero inizio le lotte per la liberazione dal dominio spagnolo, che si conclusero con la costituzione degli Stati indipendenti di Cile e Argentina, l’espropriazione delle terre messa in atto dallo Stato cileno avvenne combinando insieme la forza militare e quella legale (non è la prima volta che la legge viene piegata al servizio del potere egemonico). Il 90% dei territori mapuche vennero venduti e le comunità mapuche rimaste vennero confinate nelle cosiddette reducciones [8], nelle riserve, descritte nei documenti dell’epoca come “Titulos de merced” (lett. “Titoli della misericordia”). L’espropriazione delle terre, l’avanzare dell’esercito, gli spostamenti forzati e la perdita dei luoghi legati alla tradizione, vengono definiti dalla storia ufficiale “pacificazione dell’Araucanía”. L’Araucanía, tuttavia, niente affatto “pacificiata”, rimase una terra insicura nonostante gli sforzi militari. E tuttora alcuni gruppi mapuche continuano a occupare le hacienda situate sulla loro antica terra [9].
Il nuovo Stato, che aspirava ad una veloce integrazione degli indios nella società cilena, impose alle comunità mapuche la scolarizzazione (nelle scuole costruite dallo stesso governo), la presenza dei missionari e il servizio militare obbligatorio. Inoltre, la scarsità di terreno a disposizione (meno di un ettaro a famiglia) provocò la migrazione verso le città dei Mapuche più giovani in cerca di lavoro.
Il governo Allende, consapevole delle loro difficoltà, decise di devolvere numerosi ettari di terreno [10] alle comunità mapuche, ricavati anche dalla ridistribuzione della proprietà fondiaria, e si impegnò nel garantire loro, con l’emanazione della legge 17.729 del 1972, alcuni diritti fondamentali, quali la restituzione delle terre espropriate, l’allargamento dei diritti territoriali, il sostegno sociale e culturale, il miglioramento del sistema sanitario e l’insegnamento della lingua madre, il mapudungun.
Esattamente un anno dopo, nel 1973, con il colpo di stato e la dittatura del generale Pinochet, i progressi fatti in questa direzione vennero quasi del tutto annullati. A differenza del governo Allende, quello di Pinochet decise di incentivare l’esodo dalle campagne. Nel 1979 venne emanato il decreto legge 2.568, che facilitava la spartizione delle reducciones in proprietà private secondo una direzione tutt’altro che equa. Questa strategia politica favorì infatti coloro i quali erano riusciti ad accaparrarsi le terre indigene con metodi illegali e arbitrari, implementando, ancora una volta, l’espropriazione delle terre che erano storicamente appartenute alle comunità mapuche. Il decreto stabiliva che:
- la terra doveva essere suddivisa tra gli ocupantes, cioè coloro che la abitavano e lavoravano da più anni, ma tra essi erano però moltissimi a non essere mapuche.
- la terra non poteva essere venduta, prevedendo esclusivamente la possibilità di cederla in appalto, ma, considerando che erano possibili contratti di appalto di oltre 99 anni, la non vendibilità della terra era facilmente aggirabile.
- la proprietà terriera non poteva essere suddivisa tra gli eredi, provvedimento che intaccava profondamente la struttura familiare mapuche fondata sul reciproco aiuto. In questo modo, dal momento che solo uno dei figli poteva ereditare la terra, spesso gli altri preferivano stabilirsi in città definitivamente, favorendo il disgregamento dei legami familiari.
L’obiettivo del governo era quello di rafforzare sia il latifondismo dei grandi proprietari terrieri (non Mapuche) che l’esodo dalle campagne (dei Mapuche), al fine di assimilare gli indios nella società cilena. La politica assunta da Augusto Pinochet nei confronti delle comunità mapuche è riassumibile nella sua celebre frase: «Non esistono popolazioni indigene, siamo tutti cileni». Era in atto un processo di nazionalizzazione del Paese, nonché di tentata assimilazione delle comunità indigene, che, nell’ottica del potere egemonico, avrebbe dovuto facilitare la dittatura.
La politica di Pinochet nei confronti delle minoranze etniche, e in generale dei dissidenti politici, fu estremamente violenta. Esercito e polizia occupavano e distruggevano intere comunità, molti mapuche vennero assassinati o torturati e tutte le loro organizzazioni politiche interne vennero abolite. In particolare, le leggi sulla proprietà (in primo luogo la legge n. 2.568 del 1979) resero possibile la distruzione della proprietà collettiva ma anche di tutte le strutture e istituzioni politiche, sociali, economiche e culturali dei mapuche, tradizionalmente legati alla gestione collettiva e condivisa del territorio. Alla fine degli anni ‘80, delle 2.060 comunità mapuche esistenti agli inizi degli anni ‘70, ne rimasero solo 665. Ma già nel settembre 1978 i mapuche, non accettando la situazione in modo passivo, cominciarono ad organizzarsi in centros culturales (centri culturali) per difendere i loro diritti fondamentali. Da allora, i mapuche continuano la loro lotta con una determinazione che, certamente, nel lungo periodo ha contribuito alla fioritura di nuove consapevolezze in molti strati della società cilena. A questo riguardo è estremamente interessante il fatto che il censimento nazionale abbia modificato il quesito per stabilire la composizione della popolazione. Prima veniva chiesto «qual è il tuo gruppo etnico?», adesso viene domandato «a quale gruppo senti di appartenere?», il risultato è che la percentuale di chi si sente mapuche (10%) è superiore a chi dichiarava di essere mapuche (6%) e il dato è tendenzialmente in crescita.
Dunque, che cosa significa oggi essere mapuche? Per molto tempo, in ambito accademico, si è adottata una prospettiva che considerava tutti i segmenti delle comunità mapuche come componenti di un medesimo gruppo etnico dalle caratteristiche socio-culturali omogenee. L’antropologo Tom D. Dillehay ci offre una riflessione molto interessante sulla questione dell’etnicità mapuche, analizzata da un punto di vista differente. Quelli che noi infatti chiamiamo indistintamente mapuche, in realtà, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, erano originariamente uno dei più importanti gruppi etnici stanziati lungo l’area centro-meridionale dell’attuale Cile insieme ai picunches, ai huilliches e ai pehuenches (sopravvissero solo i Mapuche e una piccola parte degli huilliches). Queste comunità occupavano territori differenti, avevano uno stile di vita differenziato, e persino la lingua si presentava come tutt’altro che omogenea. Sebbene infatti questi quattro gruppi araucani condividessero una stessa struttura linguistica di base, essa presentava numerose varianti dialettali.
L’analisi di Dillehay porta ad una riflessione sulla costruzione dell’identità mapuche quale prodotto che si forgia non tanto sulle presunte radici comuni, quanto, invece, sulla cooperazione per il raggiungimento di mete comuni. Così, ad esempio, accadde nel corso del XVI secolo, quando i mapuche e i pehuenches si unirono per difendere la loro libertà. La costruzione del “noi” fu il frutto di un’esigenza comune di riconoscere e di valorizzare la loro identità in relazione ad un’altra (quella dei conquistadores) percepita come invasiva e ingiusta. L’autore sottolinea la natura occasionale e frammentaria del sentimento di unità di questi gruppi, probabilmente determinato più dalla necessità di combattere l’occupazione straniera che da una effettiva omogeneità. Probabilmente, anche l’ubicazione degli indios in reducciones, contribuì alla costruzione dell’espressione di una propria “cultura”, percepita incessantemente come minacciata dall’esterno. La dicotomia noi/voi, reiterata nel corso dei secoli attraverso gli scontri, ha certamente prodotto una tendenza alla coesione interna la quale si è rafforzata nel corso del XX secolo, quando il movimento pan-mapuche esplose con l’obiettivo di rivendicare i propri diritti ancestrali e di vivere liberamente sulle proprie terre. Questa volta il “voi” non era costituito dai conquistadores ma dalle istituzioni dello Stato del Cile. Anche questa volta, l’etnicità mapuche non è il frutto naturale di tratti culturali omogenei ma il complesso prodotto di mete sociali, ideologiche ed economiche comuni nate dall’esigenza di differenziarsi dallo Stato nazionale, ma il cui contesto rimane comunque caratterizzato da un pluralismo interno ai diversi gruppi.
Lo studio di Dillehay, che privilegia una prospettiva storica di lunga durata, ha il pregio di mettere in luce aspetti che, in ambito accademico, erano spesso rimasti marginali. L’etnicità mapuche è il frutto di una lunga e complessa evoluzione storica, ma anche il prodotto di un’autorappresentazione che ancora a sé dei soggetti. È dunque molto probabile che il sentimento di unità sia stato condizionato dalle circostanze storiche, dalla necessità di dover difendere la propria vita, le proprie tradizioni e le terre legate agli antenati. Il profondo legame con la terra è centrale per comprendere una visione del mondo lontana da quella che oggi pervade l’intero sistema economico globale, fondato, com’è, sullo sfruttamento delle risorse naturali per fini economici. Afferma Dillehay (2009): «i mapuche vedono la terra come la loro storia». Nei paesaggi è incisa e scolpita la loro memoria; il territorio, come un libro, ne conserva la storia. La terra è vita, idealmente rimossa dalla logica della produzione commerciale e ricollegata, invece, a una trama di esseri viventi. Come la terra rappresenta un tutto differenziato al suo interno senza, tuttavia, smettere di essere un tutto, così i Mapuche (nello scrivere di sé, così come nei resoconti di osservatori esterni) mostrano di considerarsi un popolo unitario (non omogeneo) con differenze regionali importanti, ma comunque un “popolo”, pervaso da un forte senso di unità ed appartenenza che oggi aspira alla sovranità (parallela) e all’autodeterminazione. La Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni del 2007 delle Nazioni Unite, non ratificata da quatto Stati (fra cui emergono gli Stati Uniti e il Canada), è certamente il frutto di una significativa consapevolezza a livello globale, ma la strada per una reale comprensione che tutti i popoli contribuiscono alla diversità e ricchezza delle civiltà e delle culture, che costituiscono parte integrante del comune patrimonio dell’umanità, sembra ancora in salita.
In conclusione, per i Mapuche, la terra è concetto trascendente. Non è semplicemente uno spazio delimitato da un vago insieme di confini (eredità del pensiero illuminista liberale), ma è una cosa viva e inalienabile, che funge da base per l’esistenza di una comunità (Dillehay, 2016). Di questo “sentire”, che è stato collettivamente rimosso e negato, dovremmo oggi tutti riappropriarci. In un periodo storico caratterizzato da crisi ambientali crescenti, dove si fa sempre più chiara la consapevolezza, sia nelle scienze sociali che in quelle fisico-naturalistiche, che il modus vivendi incentrato sulla conquista e sul dominio minaccia l’intera vita sul nostro pianeta, il modello proposto dai mapuche è certamente un richiamo impellente alla responsabilità, dentro e fuori le istituzioni.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
Note
[1] Il Cile è stato un vero e proprio laboratorio sociale, un esperimento del modello di “neoliberismo autoritario” in cui un ruolo molto importante è stato ricoperto dai famigerati Chicago boys della scuola monetarista di Milton Friedman, Nobel per l’economia nel 1977. Cresciuti alla School of Economics di Chicago vennero impiantati all’Università Cattolica del Cile ancor prima dell’elezione di Allende. Dopo il golpe vennero chiamati da Pinochet come consulenti e ottennero incarichi strategici che permisero di plasmare la struttura economica del Paese secondo il modello neoliberista insegnato dal loro sedicente caposcuola.
[2] Aymara, rapa nui, yamana, kawesqar, kolla e quechua.
[3] Non è un caso che il simbolo delle vittime dello Stato sia Camilo Catrillanca, un contadino mapuche ucciso immotivatamente dai carabineros mentre lavorava la terra, esattamente un anno prima della protesta.
[4]https://www.cl.undp.org/content/chile/es/home/library/poverty/desiguales–origenes–cambios-y-desafios-de-la-brecha-social-en-.html
[6] Nel 1598 i Mapuche sconfissero a Curalabà le truppe dell’allora governatore Martìn Garcìa Onez de Loyola, uccidendolo. Questa battaglia divenne il simbolo del loro valore cavalleresco e diede inizio alla costruzione di un’alleanza fra tutte le comunità mapuche disseminate sul territorio al fine di una comune lotta per la libertà.
[7] Cerimonie sontuose in cui i capi mapuche si incontravano con autorità politiche, religiose e militari dei “bianchi”, i quali avevano lo scopo non soltanto di stabilire le modalità di una possibile tregua, ma anche la risoluzione di problemi legati alla vita quotidiana.
[8] Secondo il diritto cileno le reducciones erano proprietà collettive inalienabili, gli abitanti non avevano tasse da pagare e alla morte dei proprietari la terra doveva essere suddivisa tra i figli.
[9] Eloquente a tal proposito è il caso Benetton, ben descritto in un recente articolo da Massimo Venturi Ferriolo.
[10] Circa 700 mila ettari con la riforma agraria del 1972.
Riferimenti bibliografici
Bengoa, J. 2000 Historia del pueblo mapuche, Lom, Santiago (ed. or. 1985).
Jullien, F. 2016, L’identità culturale non esiste, Einaudi, Torino.
Ziley, M. P. 2001 Filosofía mapuche. Palabras arcaicas para despertar el ser, Kushe, Concepción.
Sitografia
Cruz Farías E. A., An overview of the Mapuche and Aztec military response to the Spanish conquest, (2002) disponibile su http://lgpolar.com/page/read/658
Dillehay T., Interview: Dr. Thomas Dillehay on Moon Tears: Mapuche Art and Cosmology (2009), disponibile su: https://www.as-coa.org/articles/interview-dr-thomas-dillehay-moon-tears-mapuche-art-and-cosmology
Dillehay T., Reflections on Araucanian/Mapuche resilience independence and ethnomorphosis in colonial (and present day) Chile, Revista de Antropología Chilena (2016), disponibile su:https://www.researchgate.net/publication/313113522_Reflections_on_AraucanianMapuche_resilience_independence_and_ethnomorphosisin_colonial_and_present-day_Chile
Venturi Ferraiolo M., Un assordante silenzio: la questione Mapuche vs Benetton, disponibile su https://volerelaluna.it/territori/2019/03/22/un-assordante-silenzio-la-questione-mapuche-vs-benetton/ Volumen 48, Nº4, 2016. Páginas 691-702 Chungara, Revista de Antropología Chile
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Cristina Siddiolo, laureata presso l’Università degli Studi di Palermo, è antropologa, formatrice, educatrice e insegnante di yoga. Da dieci anni lavora con minori stranieri non accompagnati presso il gruppo appartamento “La Vela Grande” fondato dall’associazione Apriti Cuore onlus, diretto dal 2018 dall’Istituto Don Calabria.
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