Nel 1897 uscì in Inghilterra un libro che mise in subbuglio il mondo scientifico europeo: The Authoress of the Odyssey (L’Autrice dell’Odissea). Lo aveva scritto Samuel Butler, un letterato che George Bernard Shaw definì «nel suo campo, il più grande scrittore inglese della seconda metà del secolo 19mo». Butler, dopo aver studiato a fondo come pochi altri l’Odissea, pervenne alla convinzione che il maggiore poema omerico fosse stato scritto in realtà da una donna, e da una donna trapanese, intorno all’anno Mille avanti Cristo. A supporto della sua tesi portò tante e tali prove da fare numerosi proseliti, non solo fra gli eruditi trapanesi ma anche nella cultura inglese del suo tempo.
Butler si recò diverse volte a Trapani per trovare i riscontri alle sue ipotesi: il racconto epico – concluse – trovava in Trapani e nelle sue isole uno scenario perfetto e rispondente alla descrizione dei posti ove Odisseo condusse la sua peregrinazione, fino al ritorno ad Itaca individuata in Marettimo/Hiera, l’isola sacra di greci e romani.
I Feaci, popolo di grandi navigatori, per Samuel Butler sarebbero stati i progenitori dei trapanesi, e l’odierna Trapani sarebbe l’antica Scherie, dove «bello ai lati della città s’apre un porto / ma stretta è l’entrata; le navi ben manovrabili lungo la strada / son tratte in secco, per tutte, a una a una, c’è il posto …» (Od., VI, 263-65).
A Trapani/Scherie i carpentieri navali costruivano per i marinai del posto – definiti in più passi “amanti del remo” e “navigatori famosi” – imbarcazioni conosciute per la velocità e la manovrabilità «Perché nulla importa ai Feaci d’arco e faretra, / ma d’alberi e remi di navi e di navi diritte: / con esse superbi traversano il mare schiumoso …» (siamo ancora nel VI, 270-72). E più in là, nell’ottavo, il poeta – o la poetessa – canta ancora le qualità delle navi “nere” costruite nei cantieri del porto: «Perché i Feaci non hanno nocchieri; / non ci sono timoni, come ne han l’altre navi, / ma sanno da sole il pensiero e l’intendimento degli uomini, / e san le città e i pingui campi di tutti, / e l’abisso del mare velocissime passano …» (357-61).
Dopo Butler, altri studiosi si sono cimentati nel tentativo di affermare l’origine trapanese dell’Odissea (ricordo il trapanese Pietro Sugameli e l’inglese Henry Festing Jones che accompagnarono Butler nella ricerca dei luoghi dell’Odissea, l’altro trapanese Vincenzo Barrabini che una quarantina di anni addietro scrisse l’oggi introvabile Origini trapanesi dell’Odissea, gli inglesi Robert Graves e il docente di Canterbury Lewis Greeville Pocock). Dario Sabbatucci, già ordinario alla Sapienza di Roma scrisse che «dopo aver letto questo libro credo che veramente l’Odissea sia stata scritta da una donna di Trapani …».
Non sappiamo se Samuel Butler e i suoi epigoni abbiano ragione, ma a me – trapanese – piace pensare che davvero l’Odissea sia stata immaginata da un poeta seduto sulla riva del mare davanti alle isole Egadi, con il sole che tramonta alle spalle di Marettimo/Itaca. Ma se davvero fosse così, allora la perizia, la bravura dei carpentieri navali trapanesi avrebbe origini antichissime, le cui radici affondano addirittura nel mito, quando la nave da essi costruita «correva sicura, diritta; neppur lo sparviero, / il nibbio, l’avrebbe seguita, tra i volanti il più rapido. / Così, correndo veloce, l’onda del mare solcava …» (Od., XIII, 86-88).
La Madonna di Trapani
Facciamo ora un salto di oltre duemila anni, e arriviamo al XIII secolo. In questo periodo il porto di Trapani è un importantissimo nodo per i collegamenti con la Terrasanta; vascelli di ogni nazionalità si fermano in attesa del tempo propizio, per fare cambusa e acqua, per le riparazioni dopo lunghe navigazioni. Certamente in quegli anni lavoravano a pieno ritmo i cantieri navali ubicati nelle zone più ridossate del bacino portuale, ancora oggi occupate dai cantieri che però non costruiscono quasi più e si dedicano soprattutto al diporto nautico.
Narra la leggenda che nel 1244 la nave del Cavalieri Templarj che trasportava la statua della Madonna che sarebbe divenuta la co-patrona della città, di ritorno dalla Terrasanta, dopo avere urtato contro i bassi fondali si fermò nel porto di Trapani per le necessarie riparazioni, e sbarcò la statua nel cantiere navale «accanto alla torre dei Pali» (oggi distrutta). Poco importa quanto di vero ci sia nella leggenda sulla elezione della Madonna a patrona di Trapani: di certo però già nel XIII secolo nella zona di levante del porto operavano diversi cantieri navali.
Alla fine del 1500 lo storico Giò Francesco Pugnatore nella sua Historia di Trapani ricorda come da secoli i marinai trapanesi «per tutto il mar navigando rendevano il nome di Trapani chiaro in ogni parte, e famoso». Lo stesso autore, riportando voci non verificate, afferma che il trapanese Antonio Ciminiello, inventore del “bulino” (lo strumento per fare dei rami di corallo vere e proprie opere d’arte), fu anche l’inventore «dell’arbor e della vela che le galee ora portano a prua» [1]. Verosimilmente si tratta di un credito troppo grosso per l’enciclopedico inventore trapanese, ma è senz’altro una testimonianza di quanto fosse radicata a Trapani l’arte marinaresca.
Il naufragio di un’arte
Ma cosa rimane oggi di quell’arte antica e nobile che affonderebbe le radici addirittura nel mito omerico? Poco, pochissimo, quasi nulla. I mastri ‘marina famosi in tutto il Mediterraneo per la loro perizia nel sagomare il legno si sono ridotti a una sola famiglia, mentre tutti gli altri si sono specializzati nel rimessaggio e manutenzione degli scafi in vetroresina del diporto nautico che ha sostituito completamente il traffico commerciale e in buona parte l’attività di pesca; i cantieri navali minori a ponente del porto, attivi fino agli anni ‘80 del secolo scorso, hanno ceduto il posto a pontili e rimessaggi per gli scafi della vacanza. Sono scomparse da anni anche le barche tradizionali in legno che per secoli hanno ingombrato banchine e area portuale, senza lasciare traccia della loro esistenza.
Tre tipologie di barche erano inoltre praticamente esclusive di Trapani e dunque espressioni di arte, cultura, tradizione, sapienza marinara intimamente legate alla città che solo il felice ed effimero slogan pubblicitario “Città della vela”, coniato in occasione della tappa trapanese della Vuitton Cup (2005), ha provato a perpetuare: il buzzo, lo schifazzo e il barcareccio di salina e tonnara (quest’ultimo poi esportato ovunque venissero calate le grandi reti per i tonni). Oggi non ne esistono più, non solo in attività ma nemmeno in esposizione museale. Barche naufragate nel mare dell’indifferenza.
Un libro per navigare nel tempo
Poche sono le pubblicazioni che hanno riguardato principalmente la cantieristica navale trapanese degli ultimi secoli, anche per la penuria di fonti documentali che ne possano tracciare la storia, ad eccezione degli atti notarili che però non conservano una sezione iconografica a integrazione dei rogiti per la costruzione, l’acquisto/vendita o il noleggio.
Pietro Monteleone, docente trapanese di matematica in pensione e appassionato di barche, ha voluto scrivere un trattato sul naviglio costruito dai mastri ‘marina trapanesi o comunque da questi manutenuti, e lo ha fatto ricorrendo a un artificio straordinario sia per la originalità sia per la fedele lettura filologica del materiale assunto come base del trattato: gli ex voto marinari conservati nel Santuario della Madonna di Trapani, una collezione di tavole votive commissionate alle botteghe dove si facevano i “miracoli” da marittimi e pescatori sfuggiti a tempeste o assalti di pirati grazie alla intercessione della Madonna e dei Santi. Negli ex voto sono dipinte le imbarcazioni sulle quali navigavano i “miracolati”, e da questa inconsapevole offerta iconografica l’autore è partito per scrivere la storia della cantieristica e della navigazione trapanese. L’idea è geniale.
Barche tipiche trapanesi nella tradizione degli ex voto è il titolo del ponderoso trattato (376 pagine grande formato, Quick Edizioni, Trapani 2021); le tavolette votive esposte nel Santuario sono in totale 51, la più antica dalla datazione certa risale al 1808 (altre probabilmente precedenti non riportano l’anno della realizzazione) e quella più recente è appena del 2007. Per completare il panorama delle imbarcazioni che hanno affollato il porto cittadino, Monteleone ha utilizzato anche uno sciupato disegno del XVIII secolo di proprietà del Comune di Trapani e ora affidato al locale Museo Regionale Agostino Pepoli (ripreso nell’anno 1900 dai fratelli Francesco e Antonino Tummarello), nel quale la città settecentesca viene rappresentata “a volo d’uccello” vista da sud con in primo piano il suo porto ingombro di navi e barche, che già in precedenza aveva fornito materia per approfonditi studi sulla città con le sue fortificazioni, l’assetto urbanistico e il naviglio di stanza o in transito per lo scalo marittimo trapanese [2].
Il mare dei Miracoli
“Qui si fanno miracoli” c’era scritto sulla tabella della bottega vicino al teatro di Santa Cecilia a Palermo [3] a metà Ottocento, e per “miracoli” si intendevano gli ex voto commissionati per essere scampati a un pericolo mortale: «Il soprannaturale, che pure è la parte principale di essi – scriveva nel 1813 il medico-demologo Giuseppe Pitrè – passa in seconda linea di fronte ai fatti che vi sono raffigurati». Così la Madonna, San Giuseppe, San Francesco di Paola che a Trapani è venerato come Santo Padre, diventano presenze secondarie davanti alla tragedia a cui si è scampati. Naufragi davanti alle coste nordafricane, tempeste di mare in pieno Canale di Sicilia (oggi lo si chiama “Stretto”), arrembaggi di pirati maghrebini, traunare/trombe marine al largo di Sardegna, nebbia nell’oceano atlantico, cime strette attorno al piede del tonnaroto che minacciano di trascinare nell’abisso lo sfortunato … e per ogni tragedia mancata, il disegno della nave o della barca al centro del pericolo. Una vera antologia del naviglio trapanese. In molte tavole votive c’è una didascalia che indica anno e luogo del “miracolo” e spesso anche il nome della barca, in altre invece nessun riscontro, in tutte però è abbastanza facile risalire alla tipologia dell’imbarcazione. La motivazione dell’omaggio reso alla potenza numinosa è riassunta negli acronimi V.F.R. (voto fatto, ricevuto), P.G.R. (per grazia ricevuta) e V.F.G.A. (voto fatto grazia avuta).
Nei dipinti degli ex voto del Santuario Pietro Monteleone riconosce, e ne descrive le caratteristiche, le diverse tipologie di imbarcazioni costruite dai cantieri navali trapanesi: Bilanciella/Schifazzo, Cutter, Goletta, Bovo, Brigantino goletta, Tartana, Trabaccolo, Brigantino a palo, Nave goletta, Buzzo, Leutello, a cui vanno aggiunte le barche realizzate per uso esclusivo delle tonnare (vascelli, parascarmi, muciare, varcazze, rimorchi, varvaricchio). Ciascuna di esse è protagonista di un incidente risoltosi con il salvamento degli equipaggi e quasi sempre anche della barca.
Il più antico “miracolo” in cui è indicato l’anno di realizzazione riguarda uno Sciabecco da guerra che nel 1808 navigava probabilmente nel mare dei Caraibi in condizioni di scarsa visibilità e dunque in pericolo di collisione; nella tavola votiva manca parte della scritta e dalle lettere rimaste l’Autore ritiene che la nave si chiamasse “La Vergine di Trapani”, comandata dal capitano Alberto Camilleri che commissionò l’ex voto. Il più recente arriva dopo decenni di vuoto e data 2007: è relativo al disalbero di una moderna barca a vela nel corso di una regata il 24 marzo al largo di Trapani; Michele Giacalone, che era a bordo, lo ha commissionato a tale N. Triolo affidandogli anche l’incarico di motivare l’omaggio alla protettrice della città: “P.G.R. alla Madonna di Trapani”.
Nel disegno del XVIII secolo che precede di pochi decenni i primi ex voto del Santuario, lo studioso Marco Bonino riconosce (e ne indica le caratteristiche) le seguenti tipologie di imbarcazioni: Parascalmu, Barca con un albero a vela tarchia, Liutello da pesca con un albero a vela latina e cinque banchi, Schifazzo da sale a due alberi con vele a tarchia, Barca a due alberi a vela latina, Barca con albero maestro a vela latina e trinchetto con vela tarchia, Brigantino, Fregatina o lancia, Lancia, Galeotta a due alberi e dodici banchi, Tartana a tre alberi a vela latina, Vascello di terzo rango, Galea con ventiquattro banchi di voga, Barca a due alberi e velatura mista, Barca a vela latina e polaccone, Barca a vela a tarchia, piccola Lancia [4].
Il lavoro di Pietro Monteleone dunque completa lo studio di Marco Bonino e consente di avere chiara la tipologia del naviglio trapanese o in transito per questo porto dal 1700 al secondo dopoguerra.
Le barche tradizionali trapanesi
Come abbiamo detto, tre sono i tipi di barca che più di altri hanno connotato l’arte dei mastri ‘marina trapanesi: il “buzzo”, lo “schifazzo” e in generale le barche di tonnara (quello che in gergo si definisce il “varcarizzo”: barcareccio). Il “buzzo” era una barca di piccole dimensioni – da 4,5 metri ad un massimo di 7 – che dal XVIII alla metà del XX secolo è stata impiegata dai pescatori di Trapani e Marsala, la cui caratteristica principale erano le ruote di poppa e di prua rientranti. Oggi non ne esiste più alcun esemplare originale nato per la pesca. Il “buzzo”, o “buzo”, o ancora “vuzzu”, da non confondersi col gozzo – uzzu nel lessico marinaro della Sicilia occidentale, da cui comunque discende il nome e la forma a doppia prua – veniva impiegato soprattutto per la pesca con le nasse, le trappole di giunco – oggi acquistato a Cagliari o Catania, perché quello trapanese è meno resistente – per catturare aragoste, gronghi, polpi e altro pesce attirato dalle esche poste al loro interno. Il buzzo veniva usato anche per la pesca con i “conzi” – i palangari – e col “tartarune”, rete vagantiva per catturare pesce azzurro.
Era una barca spartana, dalla lunghezza media di 6 metri per una tonnellata di stazza, molto larga (il rapporto larghezza/lunghezza era quantomeno di 1 a 3), spinta da una vela latina e non sempre da un fiocco (in questo caso a prua c’era il bompresso, ‘u stasu), con un massimo di 6 remi e 8 uomini di equipaggio; la sua caratteristica principale erano le ruote di prua e di poppa (sarebbe errato parlare di “dritto” in questo caso) molto rientranti, cosa che le assicurava un aspetto molto singolare che trova unico riscontro presso i gozzi liguri, anch’essi molto usati dal Settecento a metà Novecento, e in particolare col gozzo “cornigiotto” [5]. Con questa barca i marinai trapanesi si spingevano a pescare fino alla più lontana delle isole Egadi, Marettimo.
Oggi non esiste più alcun esemplare originale di “buzzo” quale imbarcazione da pesca costruita per questa finalità, ed è un vero peccato; nessuno negli anni ha pensato di salvare i buzzi lasciati a marcire in riva ai cantieri, smembrati dall’uomo e dalle intemperie; di questa barca restano alcune fotografie (molto nota è quella scattata agli inizi del 1900 dai fratelli Alinari). Per fortuna poco più di trent’anni fa l’anziano mastro ‘marina trapanese Ciccio Mancuso, nostalgico e appassionato, volle costruire un ultimo buzzo identico – nelle sue forme generali – a quelli che aveva costruito numerosi e che hanno segnato la storia della marineria locale. Si tratta di una bella barca, robusta ed elegante pur nelle sue forme spartane, che però ha dovuto cedere parte delle sue caratteristiche alla modernità, e anche alle esigenze del committente: così è dotata di motore entrobordo diesel (e dunque di pozzetto per l’elica), e di una piccola e bassa cabina tanto comoda per il diporto. Per il resto il buzzo “vivente” resta un omaggio alla tradizione e alla maestria dei mastri ‘marina e dei pescatori trapanesi.
Lo “schifazzo” non esiste nella classificazione ufficiale del naviglio e dunque per decenni nei registri navali venne dichiarato come “bilancella” se aveva un solo albero, “bovo” se ne aveva due; i più grandi arrivarono ad essere armati con tre alberi, e quasi tutti avevano anche uno o due fiocchi. Questo tipo di imbarcazione si ritiene esclusivamente trapanese, anche se diversi esemplari vennero acquistati o impiegati in altri porti infra regno (in Sicilia) o extra regno (essenzialmente nel meridione del Paese): da qui l’opportunità di salvare e conservare quei pochissimi scafi che erano sopravvissuti all’abbandono. Purtroppo nulla è stato fatto in tal senso e i pochissimi schifazzi ancora galleggianti (un paio, forse tre) sono pressoché irriconoscibili nella loro trasformazione in naviglio da diporto.
Per decenni lo schifazzo è stato impiegato nel piccolo cabotaggio per il trasporto di merci: l’uso principale era destinato al trasporto dei conci di tufo dall’isola di Favignana (schifazzo ‘cantuna), dei tonni dalle tonnare trapanesi (schifazzo ‘tunnara), del sale (schifazzo ‘salina). Le saline avevano una loro tradizionale flotta simile a quella delle tonnare. Oggi quel che resta di questa flotta trapanese si può (tristemente) osservare nel “cimitero degli schifazzi”, cinte madieri e ordinate semi distrutti che emergono in un canale interrato delle saline.
Il barcareccio – la flotta – delle tonnare invece non era un’esclusiva dei cantieri trapanesi, ma poiché la provincia di Trapani storicamente è sempre stata la più ricca di impianti fissi di pesca del tonno (nei secoli sono stati addirittura 22), i suoi cantieri erano quelli che più di altri erano specializzati nella costruzione di vascelli, parascalmi, rimorchi e muciare. Se poi teniamo conto che a Marsala e Mazara del Vallo hanno operato solo pochissime tonnare e per di più saltuariamente, allora emerge chiara la preminenza dei cantieri della città di Trapani in questo tipo di costruzione, che ha caratteristiche assolutamente uniche [6]. Non dimentichiamo inoltre che attorno alla città di Trapani fino al primo decennio di questo secolo sono state calate le ultime tonnare siciliane: Favignana e Bonagia. Tale speciale tipologia di barche è stata pensata e realizzata appositamente per la tonnara, natanti che non troverebbero uso e collocazione al di fuori della pesca del tonno, che proprio per questa sua unicità assume una “dimensione addizionale” nell’attività alieutica, come ha argutamente scritto l’antropologa Gabriella Mondardini [7].
I tipi di barca che venivano impiegati nelle tonnare sono il risultato di un’esperienza pratica nata dalla collaborazione fra tonnaroti e “mastri d’ascia”, che già nel XV secolo aveva portato alla definizione della flotta, praticamente identica a quella odierna; le dimensioni delle barche che compongono il barcareccio (“varcarizzo”) e la loro forma sono rimaste pressoché identiche nei secoli, tant’è che le moderne imbarcazioni in ferro, che alla fine degli anni ’80 hanno sostituito quelle tradizionali di legno, hanno mantenuto le stesse dimensioni. Questo anche perché – pur se può sembrare esagerato – la “costruzione” e il calo di una tonnara sono operazioni scientifiche: niente è lasciato al caso, e ogni attrezzo, ogni rete, ogni cavo, ogni barca deve rispondere a misure precise, adattate a “quella” tonnara dalle esperienze dei rais che si sono avvicendati al suo comando.
La consistenza del barcareccio a servizio delle tonnare variava a seconda della dimensione degli impianti di pesca: si va dalle 12-14 imbarcazioni delle tonnare più grandi (fino a 18 nelle tonnare siciliane di Favignana e Bonagia, e in quella Saline in Sardegna), alle 6-7 delle tonnarelle a “monta e leva” che operavano in Liguria, Campania, Toscana, alla unica barca “tonera” delle tratte dalmate; tonnare di dimensioni medie, come quelle di Pizzo Calabro, avevano un numero di imbarcazioni a metà fra le 6 e le 10, a seconda della disponibilità momentanea dei proprietari.
Generalizzando, la flotta delle tonnare si può così suddividere: 2 vascelli (di ponente e di levante) lunghi da 18 a 22 metri, 2 “parascarmi” (o anche palascarmo) da 13/17 metri (il nome è la corruzione dell’italiano palischermo, natante adibito al trasporto di uomini e cose): questi due tipi di imbarcazione non avevano alcuna capacità di movimento autonomo e venivano trainati da 2 “rimorchi” (lunghi da 11 a 14 metri, con 8 coppie di remi). C’erano poi la muciara del rais (a doppia prua lunga 9 metri con 6 remi), la “muciaredda” del sottorais (simile alla muciara), 2 “bastarde” (chiamate “ordinaro” e “bastardo” a seconda della “camera” loro assegnata, o anche “vinturera” se addetta ai collegamenti con la terraferma, lunghe 10 metri, a 6 remi, con la poppa quadra); infine una lancia lunga 5 metri a due remi per i piccoli spostamenti all’interno delle reti, chiamata “varvaricchio” a Bonagia, “caicco” a Favignana e “barbareccio” nella tonnara Saline.
Il legno usato era lo stesso sia per le barche piccole che per quelle grandi, con una grande preponderanza della quercia e delle sue varietà. Quando alla fine degli anni ‘80 del Novecento la Regione Siciliana finanziò l’ammodernamento del barcareccio di tonnara, non potendo più erogare contributi per l’attività, le antiche barche in legno di Bonagia vennero sostituite da nuove imbarcazioni in ferro realizzate dai cantieri trapanesi: nessuno ha pensato di conservare quelle straordinarie testimonianze di un’arte plurisecolare e il varcarizzo è andato perduto, a onta di un recentissimo restauro consentito dai fondi Comunitari che è arrivato comunque troppo tardi. A Bonagia è sorto così il “cimitero dei Vascelli”.
Generazioni di Maestri d’ascia
I mastri ‘marina trapanesi negli anni hanno costruito vascelli e altre barche per tutte le tonnare italiane: da uno studio dei carlofortini Salvatore Pomata e Tonino Sanna apprendiamo che ai primi dell’800 nei cantieri navali di Carloforte lavoravano anche i mastri d’ascia trapanesi Gavassino, che preparavano chiglia, madieri e staminali per i vascelli delle tonnare di Isola Piana e Portoscuso nel loro cantiere di Trapani, numeravano tutti i pezzi che poi imbarcavano su una nave e trasportavano a Carloforte, dove le imbarcazioni venivano assemblate e completate. Gavassino però non è un cognome trapanese, ed è stato mastro Nardo Barraco, valente costruttore navale trapanese, figlio e nipote di famosi rais, a chiarire la questione: lui stesso mi ha raccontato che a metà del secolo scorso, intorno agli anni ‘50, ha riparato un vascello costruito a metà Ottocento proprio dal mastro d’ascia trapanese Cavasino [8].
Il volume di Monteleone, dalla ricchissima iconografia, non si limita a descrivere le diverse tipologie di barche trapanesi, ma allarga la ricerca ai costruttori, agli armatori e alla ubicazione dei cantieri navali, fornendo un quadro importantissimo della situazione sociale ed economica della città tra Otto e Novecento; nel libro oltre alla riproduzione degli ex voto si ritrovano molte fotografie d’epoca e le cartografie relative all’assetto urbanistico della città in generale e della zona portuale in particolare, nel loro divenire.
Due erano le aree occupate dai cantieri navali, rispettivamente a est e ovest delle banchine commerciali: a ponente c’era la “marina piccola” con i suoi bassi fondali (ora c’è il porto peschereccio) dove venivano realizzate le imbarcazioni minori (buzzi, schifazzi e barche di tonnara); a levante presso la “marina grande” operavano anche i cordai e i velai, e ci si costruivano le barche più grandi come brigantini e golette. Nel libro si richiamano i costruttori navali trapanesi dalla fine del XIX secolo ai giorni d’oggi: Gaspare e Pietro Cavasino; Luca e Alberto Bascone; Francesco Paolo, Giovanni e Nicolò De Vincenzi; Giuseppe, Saverio e Francesco Greco; Gaspare Frusteri; Giuseppe Favaloro; Antonio Martines; Vincenzo Stampa; Francesco Manca, tutti in attività nell’Ottocento. Agli inizi del XX secolo troviamo le stesse famiglie impegnate nei cantieri: Pietro, Francesco, Gaspare, Giuseppe, Vito, Giorgio e Felice Cavasino; Giovanni e Baldassare De Vincenzi; Gaspare e Vito Greco; Vincenzo Stampa con i figli Giuseppe, Mario, Giovan Battista e Paolo; Matteo Stabile con i figli Nanai (Leonardo), Cino (Francesco), Turiddu (Salvatore) e Arturo; Giuseppe Cintura col figlio Andrea; Francesco Paolo Emiliani. Dopo la seconda guerra mondiale nacquero i cantieri dei Mancuso (Francesco e Alessandro), e quelli di Vincenzo Verderame, Michele D’Amico, Michele Scirè, Giuseppe Santalucia, Leonardo Barraco, Toni Guaiana, Salvatore Ballotta. In ciascun cantiere accanto ai mastri d’ascia trovavano lavoro operai, serrantini (falegnami addetti al taglio dei tronchi), mastri ‘calafati (addetti alla impermeabilizzazione degli scafi con la stoppa), apprendisti … una intera economia si muoveva attorno a questa attività (notevole il movimento nell’indotto: ferramenta, velai, funai/cordai etc.).
Nel suo straordinario libro/diario Il ritorno a casa il trapanese Mario Cassisa, che per tutta la vita frequentò navi e pescherecci, ricorda come nell’immediato dopoguerra i cantieri navali trapanesi furono sommersi dai lavori di ristrutturazione dei velieri scampati alle bombe e ai siluri, con la loro trasformazione in motovelieri dotati di apparato motore. Il marinaio/scrittore (cui abbiamo dedicato lo scritto Breviario mediterraneo nel numero 31 del 2018 di “Dialoghi Mediterranei”) enumera i bastimenti rinnovati: brigantino goletta “Giuseppe Surdo”, brigantino goletta “Fratelli Ciotta”, goletta “Madonna di Montenegro”, goletta “Maria Fiore”, goletta “Fratelli Lazzara”, goletta “Pio X”. Mario Cassisa ricorda anche i tre motovelieri in ferro realizzati nel cantiere Santalucia: “San Vincenzo” primo e secondo, “Dina”. Erano tutte barche da 150 a 800 tonnellate di stazza, un vero e importante naviglio commerciale. Oggi a Trapani non si costruiscono più imbarcazioni medio-grandi e il sogno della cantieristica è svanito con il fallimento del Cantiere Navale Trapanese, prima di proprietà pubblica con l’Espi (Ente siciliano per la promozione industriale) e successivamente passato ai privati (una ultima grande commessa non fu mai completata).
L’eredità di Odisseo
Cosa resta oggi di quel mondo fatto di invasature maleodoranti di sivo per fare scivolare a mare le barche, di segatura e pece nera, catrame e corde realizzate camminando all’indietro e intrecciando le fibre vegetali che venivano dall’Oriente (“andare indietro come i cordai” era un detto trapanese per significare un peggioramento nella condizione sociale, lavorativa, di salute), di lavoro senza orari e tozzi di pane raffermo tenuti in tasca in attesa di consumarli tra un varo e un alaggio? Poco, davvero poco. A ponente del porto non ci sono più cantieri e solo pochi scafi semidistrutti abbandonati sulla riva del mare testimoniano che lì, un tempo, aveva radici l’economia della città. Nella zona a est i pochi cantieri attivi ricevono barche di lusso i cui ospiti inorridirebbero al puzzo del grasso che bolle per trasformarsi in sivo. Restano il bel libro di Pietro Monteleone, i semplici e nostalgici ricordi di Mario Cassisa, uno sciupato disegno settecentesco conservato al Museo Pepoli. Qualcuno potrebbe mai credere che, forse, tremila anni addietro su questo mare navigava Odisseo e le straordinarie navi dei Feaci progenitori dei trapanesi lo portarono nella sua Itaca/Marettimo? Esiste un filo invisibile che ancora oggi, nonostante tutto, è in grado di legare questi due mondi?
Tanti anni fa mi trovavo sulla muciara dell’anziano e saggio rais Mommo Solina dopo una ricca mattanza nella tonnara di Bonagia, tornavamo a terra e fummo colti dal temporale di tramontana. «Si ‘nni vinni ‘na boria» commentò il rais e diede ordine di allungare i cavi di rimorchio. Boria? e che cos’è mi chiesi, ma non volli fare domande, rais Solina sapeva sempre ciò che diceva. Mi interrogai a lungo, poi finalmente capii. “Boria”: Borea il vento da nord che Zeus scatenò per far naufragare Odisseo, il rapido Borea che l’onde gli ruppe davanti, / sicché tra i Feaci amanti del remo arrivasse / il divino Odisseo … [Od. V, 385-86]. Eccolo il filo, esile, fragile, diafano, che solo una mente colorata dalla passione oggi può vedere [9].
Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
Note
1] G. F. Pugnatore, Historia …: 201
2] Alla città rappresentata nel disegno settecentesco già di proprietà del Comune di Trapani e ora conservato al Museo Agostino Pepoli è interamente dedicato il volume “Trapani in un disegno a penna …” citato in bibliografia
3] G. PITRÈ, Il popolo siciliano. La famiglia e la casa, Palermo 1913, qui in Brancato Editore, Brugherio-Milano 2002: 131
4] cfr. M. BONINO, Ricostruzione dei tipi navali rappresentati nello sciupato disegno in “Trapani in un disegno a penna …”: 175-193
5] cfr. G. PANELLA, Gozzi di Liguria, Tormena, Genova 2003
6] Consistenza e denominazione del barcareccio/varcarizzo delle tonnare trapanesi, nonché informazioni sulla tecnica di pesca, si possono trovare in N. RAVAZZA, Diario di tonnara e Il sale e il sangue … ; per le tonnare di Sardegna cfr. S. RUBINO, La tonnara Saline, La Celere, Alghero 1994
7] cfr. G. MONDARDINI MORELLI, La tonnara nella cultura marinara, in “Civiltà del Mare”, Icimar, San Teodoro-Sardegna n.2/1999
8] cfr. N. RAVAZZA, Il sale e il sangue … : 80
9] Mi piace ricordare la definizione che Piero Citati diede di Odisseo: uomo dalla mente colorata (“Quindi la sua mente … ha molti colori: è scintillante e cangiante …”, La mente colorata. Ulisse e l’Odissea, Mondadori, Milano 2002).
Riferimenti bibliografici
Odissea, qui nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi Tascabili, Torino 1989
Vincenzo BARRABINI, L’Odissea a Trapani, Trapani 1978; ne esiste una ristampa DG Editore, Trapani 2005
Samuel BUTLER, The Authoress of the Odyssey, Londra 1897 (esaurita), qui nella traduzione italiana di Vincenzo Barrabini “L’Autrice dell’Odissea”, Celebes, Trapani 1968
Mario CASSISA, Il ritorno a casa. I miei ricordi dal 1946 al 2008, Trapani s.d.
Maria Luisa FAMÀ e Daniela SCANDARIATO, Trapani in un disegno a penna del Museo Pepoli, Regione Siciliana Assessorato BB.CC.AA. e della P.I., Trapani 2009
Robert GRAVES, La figlia di Omero (Homer’s Daughter), 1955
Lewis Greeville POCOCK, Reality and allegory in the Odyssey, 1959
Giò Francesco PUGNATORE, Historia di Trapani, ms. del 1595 (Biblioteca Fardelliana, Trapani), qui nella edizione a cura di S. Costanza, Corrao, Trapani 1984
Ninni RAVAZZA, Diario di Tonnara, Magenes, Milano 2005-2018
Id., Il sale e il sangue. Storie di uomini e tonni, Magenes, Milano 2007
Pietro SUGAMELI, Origine trapanese dell’Odissea, Tip. Fratelli Messina & C., Trapani 1892; ne esiste una ristampa Coppola Editore, Trapani 1998.
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Ninni Ravazza. Giornalista e scrittore, è stato sommozzatore delle tonnare siciliane e corallaro. Ha organizzato convegni e mostre fotografiche sulla cultura del mare e i suoi protagonisti. Autore di saggi e romanzi, per l’Editore Magenes ha scritto: Corallari (2004); Diario di tonnara (2005 e 2018); Il sale e il sangue. Storie di uomini e tonni (2007); Il mare e lo specchio. San Vito lo Capo, memorie dal Mediterraneo (2009); Sirene di Sicilia (2010; finalista al “Premio Sanremo Mare” 2011); Il mare era bellissimo. Di uomini, barche, pesci e altre cose (2013); Il Signore delle tonnare. Nino Castiglione (2014); San Vito lo Capo e la sua Tonnara. I Diari del Secco, una lunga storia d’amore (2017); Storie di Corallari (2019); L’occhio in cima all’albero (2022; finalista al Premio letterario “Carlo Marincovich” 2023). Dal libro “Diario di tonnara” è stato tratto l’omonimo film diretto da Giovanni Zoppeddu, prodotto dall’Istituto Luce Cinecittà, in selezione ufficiale alla Festa del Cinema di Roma 2018, di cui l’Autore è protagonista e voce narrante. In aprile per l’Editore Avagliano uscirà il suo romanzo “Cianchino. L’isola delle illusioni”. Ha vinto il Premio Nazionale di Giornalismo “Pippo Fava” (1987); il Premio Nazionale “Un video per un Museo” dell’HDS Italia (2001), sezione Mediterraneo, con il video “La tonnara nascosta”; il Premio Internazionale “Orizzonti Mediterranei” 2002 per il sito internet www.cosedimare.com ; nel 2018 per il suo impegno in favore del mare gli è stato conferito il Premio Unesco.
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