Nel grande palinsesto della gastronomia siciliana, decantata nel corso dei secoli dalle testimonianze letterarie di colti viaggiatori stranieri e dalle narrazioni degli scrittori isolani, compare, appartato e certamente minoritario, un singolare segmento che si potrebbe definire “ impudico”.
In questa ricca e vasta cucina dall’ampio ventaglio di molteplici manipolazioni, che gli antichi compresero nella formula “Siculus coquus et sicula mensa”, la pasticceria conventuale dedicata ai dolci compariva, anche nei suoi risvolti licenziosi, nella fase conclusiva del pranzo, quasi con l’intento di mettere alla prova la voluttà estrema delle gole in cerca di paradisiache sensazioni.
E forse, per natali riconosciuti e conclamati, quel paradisiaco nel contesto non appariva improprio, semmai prossimo alla irriverenza. Perché questi dolci singolari non solo furono tenuti a battesimo nei monasteri femminili ma nel Palermitano ebbero anche un abile promotore dall’impareggiabile enfasi laudatoria come l’abate Giovanni Meli che nel Settecento dedicò a questo argomento un delizioso libretto in dialetto (Li cosi duci di li batii, pubblicato postumo nel 1911). Quindi, monasteri femminili e Abate curiosamente insieme nella proposta vincente di un audace laboratorio di produzione pasticciera nei luoghi preposti al raccoglimento e alla preghiera. Come mai? Forse qualche ancora incerta informazione storica ci aiuta a capire le ragioni di una simile e quasi inverosimile contraddizione.
I “galanti monasteri”, com’è noto, si diffusero a partire dall’epoca, che dai Normanni prese nome, principalmente su impulso di ricche famiglie dell’aristocrazia che non volevano disperdere gli ingenti patrimoni dell’asse ereditario in presenza di numerosa figliolanza femminile. Soltanto una fanciulla della famiglia era autorizzata quindi al matrimonio accompagnato da una ricchissima dote, mentre le altre sorelle, relegate in una clausura senza vocazione, ricevevano benefici dotali parcellizzati a vantaggio in definitiva dei numerosi e ricchi stabilimenti religiosi. C’è da aggiungere peraltro che in quei microcosmi dalla struttura rigidamente gerarchica (Abbadessa, Priora, Decane, Cellerarie, Maestre delle Novizie, Dispensiere, Infermiere, Sacristane, Portiniere) potevano pure essere ammesse attraverso un esame preventivo economico le nuove leve (Novizie, Educande e Converse),destinate un giorno a dare il cambio generazionale alle Suore. A suo modo, una sorta di selezione rigorosamente, come si diceva con linguaggio ottocentesco, nettamente di classe in una coerenza di potere tra società esterna e gestione dei monasteri. Eppure non mancavano, in certi casi, sottili distinzioni tra le composizioni sociali della popolazione religiosa. Valga l’esempio di Mazara dove dei tre monasteri di rito benedettino, peraltro contigui, il popolo diceva:
“A S. Micheli li superbi; a S. Catarina li baggiani (fanatiche); a S. Venera li accinnirati (sudice)” .
Il Pitrè ricorda che a Palermo esisteva anche una figura professionale, la “soggetta”, di non floride condizioni economiche familiari e tuttavia dotata di eccellenti qualità intellettuali e culturali, ammessa ugualmente nei ranghi del monastero e perfino autorizzata a tenere nella sua celletta penna e calamaio da utilizzare nella corrispondenza ufficiale.
Sembra allora non del tutto malizioso avanzare l’ipotesi che nella condizione assimilabile a quella degli arresti domiciliari queste Suore, oltre alla preghiera e alla meditazione, si dedicassero all’arte del cucito e alla raffinata e specialistica elaborazione delle vivande e soprattutto alla manipolazione della pasticceria conventuale che tanto successo riscontrava all’esterno della “Batia”.
Poteva allora accadere che la creatività di qualche suora dalla fantasia particolarmente sbrigliata, magari come risposta giocosa ed infantile ad un matrimonio negato, oppure per ingenua adesione ad una scelta devozionale, si soffermasse su qualche ardita invenzione. Ề il caso “di li minni di vergini” , assai somiglianti al seno della martire catanese S. Agata che l’iconografia popolare da secoli rappresentava sopra un vassoio d’argento. Mancano supporti documentari a sostenere questa o quest’altra tesi, ma è certo che nel libretto dell’Abate Meli, esplicito è il riferimento al Monastero delle Vergini come luogo privilegiato per la produzione di questo dolce licenzioso. Il libretto di Giovanni Meli in effetti costituisce ancora oggi un ricco e gradevole carosello d’informazione culinaria sui 21 monasteri palermitani tra loro sempre in competizione, anche se il gusto è cambiato nel tempo e le sorelle pasticciere, scomparendo per naturali ragioni anagrafiche, si sono portate dentro la tomba molti segreti. Nel libro, naturalmente dedicato a li manciuni, la “musa golosa” dell’autore utilizza di volta in volta rime burlesche oppure serie, ma resta in silenzio in merito ad una più particolare analitica descrizione delle diverse varietà compositive di questo dolce declinato, in altri monasteri siciliani, in rapporto alle disponibilità offerte dal territorio e dalla stagione agricola. Così ancora oggi vengono ricordati, e riprodotti da bravi pasticceri laici, “ li minni” con la ricotta fresca, con il biancomangiare, con le conserve di cedro ed infine con la crema gialla. Nella zona orientale della Sicilia qualche monaca aggiungeva poi, a scopo decorativo, perfino una rossa ciliegia come capezzolo e l’usanza non manca di moderni seguaci. Come alcuni ricorderanno, proprio nel corso della sfarzosa cena in casa Ponteleone, il Principe Salina disdegna tutta la pasticceria straniera (“crudeli colorate delizie”) riservando privilegiata attenzione soltanto “a li minni” che già si mangiavano con gli occhi.
Era tale e tanto il successo esterno della pasticceria conventuale, che impegnava nel periodo pasquale tutto il personale del Monastero a detrimento della preghiera e della penitenza, da indurre nel Cinquecento il Sinodo di Mazara ad emanare un editto con il quale si proibiva la commercializzazione dei dolci durante la Settimana Santa ( ma una legge in Italia, come si sa fin dai tempi di Dante, subisce deroghe ed eccezioni secondo la varia umanità che vi si imbatte e può essere nello stesso tempo indulgente oppure spietata: come si poteva vietare un regalo monacale al principe o al Cardinale in quel periodo festivo?).
Una produzione dolciaria particolarmente licenziosa o godereccia e di grande reputazione era poi quella del Monastero “Cancilleri” fondato nel 1190 da Matteo D’Ajello, Cancelliere appunto del re normanno Guglielmo II. Unitamente a numerose altre specialità le suore sfornavano di continuo soprattutto le cosiddette “feddri di lu Cancilleri”, un vero piatto “di li Cavaleri”, come sottolinea l’abate Meli, il quale però non fornisce altra notizia (improvviso pudore del poeta oppure descrizione ritenuta superflua di un dolce molto conosciuto attraverso diffusi maliziosi commenti?).
Recentemente però una eccellente appassionata di studi culinari, di origine non siciliana ma residente nell’Isola dal 1962, Mary Taylor Simeti, ha dedicato all’argomento queste parole nel suo libro Fumo ed arrosto: «Pare che queste fedde del Cancelliere, che sono sparite dalla produzione contemporanea, fossero preparate in una formella a cerniera a forma di conchiglia, la quale veniva foderata di pasta di mandorla e poi riempita di crema pasticciera e marmellata d’albicocca. Chiudendo le due metà della formella, un po’ del ripieno fuorusciva, dando al dolce una certa rassomiglianza ai genitali femminili, fatto sempre rimarcato dagli scrittori siciliani. Ma oltre a ciò le fedde suscitavano ilarità in quanto la parola dialettale fedde può significare sia fette che natiche, ed ancora più divertente dell’immagine di seni di vergini era quella di natiche maschili in mano alle monache».
Dopo tanta processione di vivande e di dolci la parola conclusiva passava, nella rassegna del Meli, al Monastero di S.Rosalia, famoso per la produzione dell’antiacitu, cioè un purgante contro l’indigestione, un digestivo efficace e miracoloso si direbbe oggi. Era l’amaro della Santa. Parola di Giovanni Meli!