C’è sempre un momento, nell’orlo del tempo che scorre, in cui le scelte che non hai fatto si traducono in una scelta fatta. È forse una delle cose che alle volte conduce un individuo al credere al fato, ad avere una fede, ad abbracciare un senso particolare della parola destino, o karma-tutto torna, o così doveva andare. Sebbene a tutto ciò ci si possa arrivare da molteplici strade-eventi, rivelazioni o illuminazioni, epifanie varie. E questo è un modo di vedere la cosa. Qualcuno che è parlato dal sistema in cui vive, che lo anima disanimandolo, dalle narrazioni culturali in cui è immerso dalla nascita in cui finisce inevitabilmente per credere. Come tutti insomma. Salvo rari momenti. Rari momenti appunto in cui si può scoprire che non-scegliere è un atto volontario, magari inconscio, che ha la stessa dignità dello scegliere. Si può vedere la non-scelta come un sintomo di vigliaccheria, pigrizia, apatia e conseguentemente allo stesso modo il ricorso al “doveva andare così”, una sorta di autoindulgenza ideologica, controfigura volgare di un stoicismo post-moderno.
Effettivamente, chi guardandosi indietro, in quest’epoca dell’antropocene manifesto, in questo tardo Occidente italiano, può dire di aver vissuto, o di star vivendo, con vivido piacere o reale fiducia che sia, la narrazione capitalistica del successo? Del “se lavori duro puoi realizzare i tuoi sogni”? Quali sogni, poi, bisognerebbe chiedersi. Perché sì, onestamente, avere “sogni” e aspirazioni è un atto tanto coraggioso quanto ciecamente irragionevole nel nostro qui e ora preda del futuro, del clima, delle risorse, delle tragedie mediterranee, del crollo di un sistema di credenze, del rinvigorirsi di spinte autoritarie e reazionarie; perché sì, credere – che veramente il duro lavoro consenta di arrivare a chissà quale apice e chissà quale carriera sempre e comunque a prescindere dalla classe sociale a cui si appartiene, dalla città e famiglia in cui si è nati, da avventure e disavventure proprie dell’accadere dell’esistenza, da eventi e/o processi che coinvolgono società, politica ed economia nel micro e nel macro – è un atto tanto coraggioso quanto ciecamente irragionevole nel nostro qui e ora.
Una certa narrazione tutta italiana sul futuro, la vita, la famiglia, la casa, la tv, il lavoro, è fortunatamente in crisi, un’altra parte sopravvive e resiste a difesa di ritmi lenti, più umani, che con qualche rinuncia restano comunque testimoni di una modalità di vita più sana, per certi versi, che invece altre città, altri paesi, hanno barattato in favore di una ricchezza pro capite maggiore che non è detto sia sintomo di reale benessere mentale e fisico. Insomma, oggi è molto difficile scegliere dove vivere, che lavoro fare, che carriera intraprendere, spesso, come detto, non si è veramente liberi di scegliere e ci si adatta, ci si fa forti, altre volte invece la libertà di scelta attanaglia e allora il non-scegliere attanaglia ugualmente.
Il nostro qui e ora non sarà la Tokyo di oggi, non sarà neanche la Tokyo di Wim Wenders in Perfect Days [1], ma di certo in questo film ci viene mostrata un’alternativa, una scelta-non-scelta, nel qui e ora alle narrazioni del qui e ora: sottrarsi. Parlare di Hirayama, il protagonista del film, come un qualcuno che “rinuncia a” o “fugge da” significherebbe fare il gioco a ribasso delle narrazioni di cui sopra e cioè deprecare una vita quando essa ripiega verso un lavoro umile, un quotidiano routinario e ai margini della realtà sociale dei più agiati. Il film infatti, con i suoi ritmi, le inquadrature e i suoi silenzi, crea un’atmosfera narrativa riflessiva, sognante e quasi estraniante rispetto al contesto geosociale nel quale prende vita la storia.
Il protagonista non parla quasi mai, come se l’atto in sé di parlare – comunicare a e col mondo – sia una vera e propria scelta e non un automatismo. Intuiamo sin dall’inizio, come poi ci viene confermato, che Hirayama proviene da una famiglia molto ricca dalla quale, per un qualche evento o processo traumatico o comunque drammatico, si sottrae. Hirayama vive “in un mondo diverso” da quello della sorella, e lo dice lui stesso alla nipote. Durante quella passeggiata in bici sul ponte, il protagonista ci rivela l’esistenza di diversi mondi tanti quanti sono gli esseri umani e più, perché ognuno può vivere in mondi molteplici e sempre diversi contemporaneamente. Il “mondo” possibile di Hirayama è un retromondo fatto di letteratura, audiocassette di musica anni ’70, una macchina fotografica a pellicola, un cellulare vecchio modello, una routine ossidata ma ben salda fatta da una lavanderia, un sentō [2] dove rilassarsi, piccoli e soliti pub, una piccola libreria e il negozio per la stampa e l’acquisto dei rullini.
Non c’è ossessività nell’esistenza di Hirayama bensì la lenta sacralità del rito. Il Tris su carta nascosto in uno dei bagni che pulisce ogni mattina e che qualcuno porta avanti con lui si accompagna nell’intreccio narrativo alla pausa pranzo in una panchina che per il protagonista è landmark fondamentale: da lì scatta una foto che inquadra sempre lo stesso intreccio delle stesse chiome degli stessi alberi – “posso dire che quell’albero è un mio amico”, rivelerà alla nipote – e i raggi del sole che filtrano [3]. Il gioco fatto a distanza con uno/a sconosciuto/a, i raggi del sole che appaiono, si nascondono, brillano, accecano, spariscono, il lavoro da “invisibile” del protagonista [4], il buffo senzatetto che vive alle pendici di uno degli alberi, la donna che ogni giorno pranza sulla panchina accanto, sono rimandi che insistono su una dimensione spettrale dell’esistenza: spettralità in quanto presenza-assenza, per sé e per gli altri; spettralità come velamento-disvelamento continuo di intere vite-mondi in un mondo in vita la cui immanenza straripante è costante sullo schermo attraverso l’insistenza delle inquadrature su alberi e chiome di alberi, quelli del parco dove pranza, quelli attorno la casa in cui vive e che scorge dalla finestra e quelli che sogna ogni notte. Spettralità quindi come connotato salvifico di quell’invisibilità che invece è espressione di una condanna morale e sociale – quella della sorella per esempio, che depreca il lavoro umile del fratello – tipica del sistema turbocapitalista.
Sottrarsi al sistema, alle pressioni sociali, allo stakanovismo tipico dei lavoratori di Tokyo – conosciuta nel mondo anche per il fatto che spesso i lavoratori si addormentano per strada, talmente stremati delle continue ore di lavoro – alla tecnologia imperante digitale simbolo universale di incomunicabilità e solitudine. Hirayama abbraccia tutto questo proprio sottraendosi, dal tempo oltre che dalle narrazioni di successo-soldi-carriera del mondo. La sottrazione dal tempo – l’uso delle audio cassette, di un vecchio furgoncino, della fotocamera a pellicola – può essere patologica o può invece semplicemente essere politica, nel senso esistenziale del termine. In una società che corre, che si sfianca di lavoro, schiava di una iperconnessione che nasconde solitudine e alienazione, che non lascia più il tempo al sogno e al sentire la terra respirare attorno, Hirayama sceglie di sottrarsi: scegliendo quando e se parlare, creando un archivio dello stesso sole dietro le stesse chiome, ascoltando vecchia musica in vecchie cassette, annaffiando delle minuscole piante, leggendo tonnellate di libri, mangiando e bevendo sempre negli stessi due posti, bagnandosi nella stessa vasca.
La fine del film ci conduce alla scena catartica di un pianto pieno, che è felice ma anche doloroso. Un pianto pieno di vita che suggella una storia fatta invece da apparente ripetitività e monotonia, nessun evento eclatante, nessun colpo di scena. Solo la contezza di una pienezza diversa appunto, una qualità che scopriamo essere non nascosta nelle piccole cose ma proprio in quelle poche cose che piccole non sono, una qualità che schiaccia la quantità proprio perché la svuota, la sottrae e da cui si sottrae.
Nei ritmi cadenzati di un’alba che sorge fra i palazzi, non sappiamo se la vita di Hirayama sia stata una scelta libera, una scelta indotta, una conseguenza diretta o indiretta di una qualche tragicità, la conseguenza o la causa di una faida familiare, la risposta a una crisi esistenziale o altro, ma non importa. La storia non è, fortunatamente, l’ennesima storia di un piccolo dramma borghese. La storia ci parla invece di un’alternativa mentale a certe pressioni e modelli sociali, il sottrarsi come atto di rivalsa, di difesa, di libertà e indipendenza. Non tutti avremmo mai la pazienza di Hirayama, la sua sacrale lentezza e ritualità, la sua cieca fiducia nell’arte (narrativa, musicale, fotografica che sia), il suo rispetto per ciò che vive attorno a lui e la sua generosità.
Il film non vuole suggerirci una strada da percorrere né offrirci modelli sostenibili e antistress. Perfect Days ci suggerisce invece che le narrazioni sclerotizzanti della modernità si incistano nella nostra capacità di sognare – sognare come immaginazione di aspirazioni ed esplorazione psicogeografica di un proprio posto nel mondo – delineando per noi i nostri sogni che quasi sempre, servendo il meccanismo capitalista, vertono su narrazioni di fatica, sacrificio, abnegazione, oblio del sé, annichilimento del tempo, proprio, interno ed esterno, che si riduce al concetto di “tempo libero” dal lavoro, dallo sfruttamento. Ecco, ciò che Hirayama trova nel lavoro umile è l’affrancamento dal lavoro, quello considerato alto, adeguato, buono ma che porta annichilimento del proprio tempo e spazio nel mondo.
Hirayama trova nei margini della città e della scala sociale una vastità di significati ed emozioni piene. Il tempo di Hirayama non si annichilisce ma si dilata, diventa più pieno appunto, nel pulire i cessi, nella routine, nella letteratura, nella musica, nella fotografia a pellicola, nel vivere un in mondo diverso pur vivendo, in realtà, ciò che per qualcun altro (come la sorella) sono le bassezze e la materialità pauperistica del mondo. Non esiste un mondo assoluto, dice Hirayama alla nipote mentre attraversano in bicicletta un ponte sul fiume. Ognuno ha il suo e molteplici mondi. Hirayama perciò non si vanta, non dà lezioni, così come il film. Hirayama ci accompagna in una scelta-non-scelta ove a trionfare è la ricerca del proprio spazio, del proprio tempo e del proprio miglior mondo possibile.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Nel momento in cui scrivo il film è ancora nelle sale.
[2] https://www.japan.travel/it/ita1/bloggiapponenikki/2022/la-cultura-del-bagno-in-giappone-i-sento/
[3] Molte recensioni e riflessioni evidenziano il fatto che il giapponese è l’unica lingua ad avere un termine che indica il sole che passa fra le foglie degli alberi: https://www.nocturno.it/movie/perfect-days/;https://www.ilpost.it/2024/02/06/perfect-days-tokyo-parisi/.
[4] L’attore stesso parla dell’invisibilità di quel tipo di lavoratori durante la conferenza stampa a seguito del premio come miglior attore al festival di Cannes: https://www.youtube.com/watch?v=oLxIjgaN0Rs.
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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