il centro in periferia
di Settimio Adriani
Da molto tempo seguo con regolarità e vivo interesse una rivista online che si occupa dei paesi di montagna. Di quegli ambienti e delle sue comunità esamina autorevolmente i problemi e le prospettive, racconta le reti di ricerca e monitoraggio attive, espone i bisogni e le dinamiche in atto, le politiche di sostegno e rilancio, le aspettative delle popolazioni, gli obiettivi e i trend, le esperienze di ritorno e restanza, i progetti nazionali e transnazionali in corso e auspicati.
Normative nazionali e regionali, buone pratiche e statistica la fanno da padrone. E non si può certo pensare che si debba procedere in altro modo, quanto meno nei mondi ordinari. Esistono però anche i mondi inconsueti, dei quali le reti non si interessano, la ricerca ufficiale passa alla larga, la normativa non li considera e spesso addirittura li esclude, la statistica non è applicabile.
Già, la statistica; nel vocabolario Treccani online leggo: «Scienza che ha per oggetto lo studio dei fenomeni collettivi suscettibili di misurazione e di descrizione quantitativa (spec[ialmente] quando il numero degli individui interessato è talmente elevato da escludere la possibilità o la convenienza di seguire le vicende di ogni singolo individuo): [la statistica si basa] sulla raccolta di un grande numero di dati inerenti ai fenomeni in esame […]».
Se provo a descrivere statisticamente la sparuta comunità fiamignanese, non più di 100 anime larghissimamente anziane dell’Appennino centrale, si delinea un paradosso: negli ultimi dieci anni i bambini in età prescolare si sono incrementati del 100% (sono passati da 2 a 4); in epoca di lockdown per Covid19 la popolazione presente ha subìto un’impennata che ha superato il 10% (11 persone residenti altrove hanno trascorso quel periodo nelle loro seconde case); nella stagione estiva in corso l’afflusso di turisti “esotici” ha registrato un incremento inconsueto (ma non quantificabile in termini percentuali: per la prima volta una famiglia non originaria del posto, composta da 2 persone, ha preso in affitto per 1 mese un’abitazione).
Insomma, mia nonna, che non aveva studiato alla Sorbona, diceva: «‘E cóse non sò’ come sò’, ma sò’ come le raccùnti!». Parafrasando Treccani, per Fiamignano e tutti i paesi che si trovino nelle analoghe condizioni, «il numero degli individui interessato è talmente [basso, che c’è] la possibilità o la convenienza di seguire le vicende di ogni singolo individuo». Sicché, laddove non esistano le quantità necessarie per l’elaborazione statistica, i «fenomeni in esame» possono essere descrittivi monitorando i progetti, le sensazioni, le opinioni, gli auspici e i sentimenti dei singoli soggetti; così almeno credevo.
Sulla scorta di quest’errato presupposto proposi a quella prestigiosa rivista una descrizione astatistica della mia comunità. Nulla di impegnativo, roba da dilettanti, la semplice visione di uno dei pochi, sempre più rari, che hanno forse follemente deciso di restare al capezzale del paese, per tentare in ogni modo di invertire la tendenza che lo sta portando all’agonia. Riprendo, almeno in parte, quella descrizione necessariamente astatistica, perché restituisce un quadro assolutamente realistico della situazione in atto, anche per i tempi pre Covid19, e in quanto tale costituisce un termine di paragone con gli eventi che si sono verificati durante e dopo le fasi più drammatiche della pandemia.
L’obiettivo che mi posi nella stesura di quelle poche righe era la descrizione del nostro vivere in montagna, pensando che tutte le montagne fossero degne della “M” maiuscola. Ma così evidentemente non è. Il quadro che sostanzialmente produssi è questo:
La solitudine, non voluta né auspicata, ma dovuta all’emorragia di presenze che sembra non avere fine; ma che inesorabilmente una fine l’avrà, e sarà segnata dall’andare via dell’ultimo dei nostri, quando il suo uscio si chiuderà per sempre … questa è la montagna.
La malinconia che assale dopo le affollate ferie estive, che si fanno sempre più brevi, e da un momento all’altro ci si ritrova da soli, o quasi, come se si fosse atterrati in un altro mondo, senza aver viaggiato … questa è la montagna.
Sorprendersi a contare le famiglie rimaste in paese, avvertire che nei vicoli i bambini quasi non corrono più, rendersi conto che le scuole stanno per chiudere, non vedere in atto concrete azioni di contrasto e riconoscere di avere difficoltà a proporne di realmente efficaci … questa è la montagna.
Ritrovarsi, al mattino, con l’ultimo negoziante che ancora ha il coraggio di alzare la serranda, sentirsi dire che non ce la fa più, e che intende chiudere, perché le tasse sono troppo alte e gli introiti sempre più bassi, che il suo incasso giornaliero farebbe ridere il più misero tra i negozianti di pianura, e che non c’è più margine … questa è la montagna.
Trovarsi a mettere nel camino l’ultimo avanzo della catasta di legna, ed è quasi giugno, mentre si sta pensando che ottobre non è poi così lontano, e la catasta non si è fatto in tempo a consumarla che già se ne deve allestirne una nuova … questa è la montagna.
Quando arriva dicembre, e nei vicoli non echeggia quasi più il grido lancinante del maiale che sta per essere macellato. Quel grido che da un lato offende i timpani e il cuore, mentre dall’altro concretizza la chiusura di un ciclo di lavoro e riempie la dispensa … questa è la montagna.
Aspettare le feste lunghe, confidando che finalmente questa e quella porta si riapriranno, e poi restare sistematicamente delusi … questa è la montagna.
Assistere all’inesorabile sopraggiungere della tramontana, quella forte, che spira per almeno tre giorni, e che si insinua tra gli stretti vicoli con un sibilo ostile, come se volesse farti paura … questa è la montagna.
Sobbalzare al rombo del tuono, che sembra voglia sconquassare i vetri delle finestre, e poi rendersi conto che quello è il primo rumore udito nella giornata … questa è la montagna.
Vivere in mezzo a cinque seimila ettari di bosco demaniale, e quasi altrettanti di proprietà privata, ma, a causa di indiscutibili questioni di bilancio, dall’alto viene definitivamente serrata la storica caserma che ancora ci piace chiamare “Forestale”. Con il solo esito di chiudere altre porte, facendo svanire un altro presidio umano e lasciando di fatto quei boschi pressoché incustoditi … questa è la montagna.
Aprire al mattino l’uscio di casa, notare che la neve caduta silenziosamente nella notte ha formato una soffice coltre ancora immacolata, e sapere che resterà tale finché non sarà il tuo piede a corromperla … questa è la montagna.
Avere da sempre al centro del paese la casa comunale, ancora in grado di creare quel minimo movimento di persone che dà un po’ di respiro all’unico bar e la sola rivendita rimasti. Poi si scatena il terremoto, che fortunatamente non fa danni (evidenti) a persone e cose, arrivano gli esperti dalla pianura che contestano l’assenza della documentazione di rito, e invece di produrre ciò che manca evacuano gli uffici. Li portano fuori, e il palazzo resta lì, senza documentazione di rito, senza crepe nei muri e senza presenze umane. Ottenendo come unico risultato una ulteriore sottrazione di ossigeno al già fragilissimo tessuto economico e sociale … questa è la montagna.
Attendere il giorno della fiera, come quando si era bambini, pur non dovendo comprare nulla, e ogni volta fingere di non vedere che le bancarelle sono meno dell’anno precedente … questa è la montagna.
Scorgere il fiocco rosa o azzurro su uno dei pochi usci ancora aperti, e accorgersi che la gioia è presto sopraffatta dalla triste consapevolezza che quel lieto evento non sarà sufficiente a cambiare le cose … questa è la montagna.
Assistere allo svuotarsi delle stalle in tarda primavera, quando le vacche vanno in monticazione, pensare che gli addetti si siano finalmente liberati del pressante impegno quotidiano, e vederli subito dopo che stanno raccogliendo il fieno per quando le vacche ridiscenderanno … questa è la montagna.
Sentire i politici di questo o quello schieramento che continuano a vomitare magici progetti che favoriranno il ritorno, e fingere di crederci, pur sapendo che ancora una volta non accadrà nulla … questa è la montagna.
Ma forse altrove non è così, e quindi questa non è la montagna, questa è la nostra montagna!
Rispetto a tale situazione, ormai consolidata, nel periodo di lockdown per Covid19 a Fiamignano nulla sembra essere cambiato. Neanche la disgrazia del Coronavirus ha fatto spalancare le imposte di gran parte delle seconde case, che ormai restano sistematicamente chiuse per tempi troppo lunghi. Nessuno è abusivamente tornato, e nessuno è abusivamente scappato! Neanche la (relativa) sicurezza è stata di vigoroso richiamo per i cittadini fuggitivi.
Eppure la situazione era tranquilla, o quasi. In rigorosa solitudine si è continuato a fare quello che si faceva prima: il quotidiano, la legna, l’orto, le galline, il cane… È mancato il bar, che apriva soltanto per qualche pacchetto di sigarette e i giornali; e ha preso un’altra brutta batosta. Ne ha però beneficiato il negozietto degli alimentari, al quale il blocco entro i confini comunali e l’impossibilità di raggiungere i supermercati, dove si risparmia, ha fatto incrementare di poco le vendite, e il lockdown ha rappresentato un’indesiderata piccola manna. Così, mentre alcuni perdono ossigeno altri lo prendono; è la drammatica storia di sempre.
Una novità che si sta registrando in epoca di riapertura è l’acquisto di qualche casa, pochi immobili a prezzi stracciati. Due diventeranno dimore abituali di altrettante famiglie relativamente giovani che vengono da fuori; ma la causa non è di certo il Coronavirus, bensì il Decreto Rilancio e Superbonus 110% (D.L. n. 34/2020). In queste condizioni è stato “conveniente” acquistare a buon mercato case bisognose di interventi, anche massicci, ma il senso complessivo all’operazione lo ha dato la certezza di essere sostanziosamente supportati dallo Stato nelle ristrutturazioni.
Proprio “convenienza” ritengo che sia la parola chiave sulla quale riflettere. Mantenere presidi umani in aree marginali, a tutela degli ambienti e delle culture locali, decongestionare le città e beneficiare a livello generale di tutto ciò che ne potrebbe conseguire, sarà possibile soltanto se l’opzione di restare, o tornare, risulterà “conveniente”. Strategia che implica scelte politiche molto coraggiose e, nel caso, dev’essere inevitabilmente l’intera comunità nazionale a farsene carico. Gli esempi che in tal senso hanno (parzialmente) funzionato non mancano.
L’onere della tutela del Lupo, per esemplificare drasticamente una questione molto complessa che conosco bene (perché è di gestione delle risorse faunistiche che mi occupo), non è attribuito ai pastori che subiscono le predazioni, ma all’intera comunità nazionale, che avendo come obiettivo democratico (non tutti sono d’accordo) la salvaguardia della specie, si fa carico dell’indennizzo dei danni a chi li patisce. Garanzia, onerosa per il popolo italiano, concepita al fine di evitare che i danneggiati e i danneggiabili si attivino (illegalmente) nell’eliminazione degli animali che la stessa collettività intende proteggere. Alla base di tutto ciò c’è stata una precisa scelta politica, ardua e controversa: la Repubblica italiana ha ritenuto di dover conservare il Lupo, e se ne sta facendo carico.
Parimenti, se la Repubblica italiana deciderà di mantenere realmente in vita le aree marginali e svantaggiate, dovrà farsene carico.
Se così non sarà, vorrei capire perché qualcuno dovrebbe decidere di restare (o andare) a vivere in un luogo in cui: l’acqua e lo smaltimento dei rifiuti costano tanto quanto, se non più, che in città; il riscaldamento domestico invernale ha una durata decisamente superiore alle aree di pianura, ma il prezzo del gas è sostanzialmente identico; i ragazzi debbono alzarsi molto presto, prendere il pullman che li porta a scuola e pagare gli abbonamenti quasi quanto chi dalle stesse strutture dista soltanto qualche chilometro; allevare i propri figli in un contesto in cui avranno innegabilmente meno opportunità occupazionali rispetto ai coetanei cittadini; il presidio medico non è a portata di mano; per qualunque necessità bisogna sistematicamente spostarsi, spesso in modo molto disagevole e non per brevi distanze; fare la spesa nei negozietti locali dove, inesorabilmente, rispetto ad altrove la scelta è minore e i prezzi sono maggiori.
Le condizioni in cui versa il già limitatissimo e traballante settore commerciale non sono molto diverse: perché, ad esempio, gli esercenti di un qualunque paese sperduto, che forniscono un indiscutibile servizio sociale di vicinato (soprattutto laddove la maggior parte dei residenti è molto anziana), dovrebbero proseguire nell’operare nei luoghi in cui il fatturato è risibile e la pressione percentuale di imposte, tasse e contributi è equiparata a quella degli analoghi esercizi di via Monte Napoleone e via dei Condotti?
E la lista dei perché non si esaurisce certamente qui. Finora l’opera di trattenimento in montagna è stata in larga parte demandata alle radici, che stanno però diventando sempre più superficiali, e quindi in grado di garantire un sempre più flebile ancoraggio al substrato.
È anche vero che, su ampia scala, si registrano sporadici casi di ritorni in montagna, eventi encomiabili e non di rado ampiamente ostentati dai media, ma di fatto capaci di cambiare soltanto le situazioni soggettive dei pochi avventurosi coinvolti, e non il trend generale in atto, che più interessa.
Che si continui a discutere di restanze e ritorni è ovviamente auspicabile, ma sono assolutamente convinto che il tutto resterà uno stimolante ma puro fantasticare, finché a favorirli non subentrerà l’emanazione di leggi apposite e lungimiranti, seguite dall’attivazione di piani di sviluppo che siano adeguati ai contesti, inclusivi, facilmente accessibili e concreti; tali che rendano l’obiettivo realmente “conveniente”.
A quanto sembra, neanche il Covid19 ha prodotto effetti in tal senso.
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
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Settimio Adriani, laureato in Scienze Naturali e Scienze Forestali, si è specializzato in Ecologia e ha completato la formazione con un Dottorato di ricerca sulla Gestione delle risorse faunistiche, disciplina che insegna a contratto presso l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo (facoltà di Scienze della Montagna, sede di Rieti) e ha insegnato presso le Università degli Studi “La Sapienza” di Roma (facoltà di Architettura Valle Giulia) e dell’Aquila (Dipartimento MESVA). Per passione studia la cultura del Cicolano, sulla quale ha pubblicato numerosi saggi.
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