di Letizia Bindi
Welcome Venice
C’è un film di Andrea Segre del 2021 – Welcome Venice – che mette in scena con delicata potenza le frizioni estreme che si vivono nella laguna e nella città a causa dell’overtourism e della crescente mercificazione degli spazi di vita e di produzione (pesca, artigianato). Racconta la storia di due fratelli, Pietro e Alvise, eredi di una famiglia di pescatori della Giudecca e del loro scontro in un certo modo epocale sullo sfondo della trasformazione più grande e generale cui l’intera città e la sua gente sono esposte: un cambiamento radicale fatto di globalizzazione turistica, di estrazione materiale e immateriale dei suoli e delle memorie che va a scardinare il rapporto tra città e cittadinanza, tra casa e valore relazionale e materiale, tra saper fare e saper guadagnare.
Pietro nonostante la fatica e un senso di perdita e solitudine crescente vorrebbe continuare a fare il pescatore di moeche, i granchi tipici della laguna. Alvise pensa invece che sia arrivata l’ora di mettere sul mercato la loro ambitissima casa alla Giudecca in una aspirazione di guadagno e di «accesso all’élite del potere immobiliare che governa la città» (dalla sinossi del film: https://www.jolefilm.com/film/welcome-venice/ ). Lo scontro che attraversa questa relazione diventa così il basso continuo di una lacerazione profonda che in fondo traduce tutte le contraddizioni e le frizioni della ipermercificazione delle destinazioni turistiche.
Il film sinteticamente afferra il nodo cruciale di questa difficile coesistenza e fotografa la contraddizione per certi versi insanabile tra l’abitare e il visitare nel secolo in cui il 10% del PIL mondiale viene ad essere rappresentato proprio dal settore turistico. Alcuni si sono spinti a parlare di questi accelerati fenomeni di overtourism come “city killers” (Tozzi 2023). La trasformazione delle destinazioni turistiche in commodities viene tuttavia da molto lontano e si connette all’orizzonte di infingimento di cui già parlavano gli antropologi inglesi, che a partire dagli anni Settanta alimentarono una scuola di antropologia critica del turismo. Boorstin (1962), ad esempio, che bollò con la celebre definizione di “pseudo-evento” tutto ciò che si connetteva al turismo di massa derubricandolo nell’ordine dell’inautentico e del fittizio. Il nesso turismo, mercato, reificazione e inautenticità, perdita di senso e di comunità diventa da quel momento un argomento per certi versi ‘classico’ della critica radicale alle forme di mercantilizzazione delle località, alle “tecniche di distruzione di culture” (Lombardi Satriani 1973), alle “fiere delle identità” (Bindi 2013).
Così partire da Venezia porta al cuore del discorso critico sul turismo i temi della sostenibilità e dell’Agenda 2030, la violenza estrattiva della macchina turistica che non solo occupa, invade, toglie e mangia spazio e local knowledge: di nuovo il tema anticipato da Lombardi Satriani dei “divoratori di folklore”, in quel caso, ma che potremmo più generalmente definire “divoratori” di culture, di tipicità, di identità con tutto ciò che di ambivalente, equivoco persino hanno sempre avuto queste nozioni.
Il turismo senza controllo, il turismo come sola prospettiva di sostentamento e di sviluppo territoriale mangia il suolo e gli spazi, logora le attività più profondamente legate a certe aree urbane o rurali, trasforma gli aspetti di caratterizzazione locale in ‘tipicità’ in una produzione e riproduzione costante di “staged authenticity” (MacCannell 1973), di autenticità fittizia.
Difficile, d’altronde immaginare forme di genuinità e autenticità dinanzi ai 14 mila turisti per km2 stimati per Venezia da una indagine di Demoskopica o continuare a pensare a una residenzialità scevra da pressioni con i biglietti di ingresso e il persistere delle navi da crociera in prossimità della città. Tuttavia la questione che la vicenda veneziana racconta va molto oltre il perimetro fluido della laguna e le sue attività culturali e turistiche, rinvia alla rottura del patto fiduciario tra residenti e visitatori, tra cittadini e turisti che è una frontiera per certi versi ben conosciuta, ma che oggi si tinge di nuove e più interessanti sfumature identitarie, critiche, antagonistiche, esclusiviste.
Tra le forme di turismo di maggiore impatto sui luoghi e gli spazi di vita ci sono le esperienze turistiche site-specific, l’enfasi sulle emozioni patrimoniali connesse alla visita della destinazione turistica maggiormente ambita (Fabre 2013; Palumbo 2021), la ricerca di una tipicità locale ed esclusiva – che in quanto commerciale e mercificata per ciò stesso esclusiva del tutto non può mai essere – che per essere riconoscibile e riconosciuta da tutti e in un colpo d’occhio deve necessariamente prendere le forme del “luogo comune”, del cliché, dell’icona. Ritroviamo qui un fenomeno già chiaramente delineato da Roland Barthes nella celebre decostruzione della destinazione turistica – in quel caso era Parigi – della Guide Bleu (Barthes 1957) e nella critica alla definizione stratificata e segmentaria, pre-confezionata della città ad uso e consumo dei diversi targets turistici.
Ma sono proprio i numeri ipertrofici del turismo nazionale e internazionale post-pandemico che hanno probabilmente determinato questa sensazione più recente di una frattura irrimediabile rispetto all’ambiente e alla natura circostante, il senso di una biodiversità calpestata e dispersa, divorata – per l’appunto – dalla presenza turistica. La gentrificazione di Venezia, la perdita di abitazioni residenziali in favore di sempre più numerosi hotel e Bed & Breakfast o Airbnb, la perdita delle attività produttive, delle botteghe, dei mercati è il segno di quella trasformazione della città in un “nonluogo” (Augé 2009): categoria ormai abusatissima e di per sé quasi incapace di aggiungere alcunché alla rappresentazione dei luoghi se non un generico disprezzo e giudizio di valore.
Divoratori di montagne
I corridoi delle più importanti catene di accessori per lo sport e il tempo libero dedicati al trekking e all’arrampicata sono evidentemente aumentati negli ultimi anni. Le fogge dell’abbigliamento tecnico, le tipologie di scarpe si moltiplicano e si diversificano, con colori sempre più accesi: il numero delle persone che dedica del tempo libero alla camminata in montagna o al trekking in aree rurali e meno battute dal turismo di massa è aumentato in modo esponenziale intorno e dopo il COVID e si mostra come un ambito di sviluppo del comparto tra i più interessanti a livello europeo e non solo.
Sembra che ci sia un mondo in cammino, in cerca di luoghi da visitare, di benessere e di incontro esperienziale con i territori e le comunità in netto aumento. Molti organizzano con cura le loro escursioni da soli o in piccoli gruppi autonomi, altri si agganciano a circuiti e cammini accreditati nel tempo comprando ‘pacchetti’ che prevedono i trasferimenti in loco, le guide, l’alloggio, il vitto e un certo numero di escursioni e attività di divertimento e approfondimento a carattere di dirette etno-culturale: musiche, danze locali, recitals di poesia dialettale, piccole performance teatrali, ecc.
Su tutto, tuttavia, prevale l’esplorazione delle tipicità alimentari, le degustazioni, la conoscenza del terroir attraverso i suoi prodotti. Non è infrequente che questo ingeneri nei territori dei meccanismi di concentrazione aziendale in alcune aree e di impoverimento del potenziale commerciale in altre così come torsioni tutt’altro che infrequenti di ristoranti e altri esercizi che confezionano cibi cosiddetti tipici con prodotti spesso estranei al territorio e sganciati dalle produzioni locali semplicemente perché più convenienti e a basso prezzo perché prodotti industrialmente. Anche questa frizione tra filiere corte e ristorazione in certo modo di massa è un prodotto dell’overtourism: cambia la relazione ai prodotti alimentari del territorio, alle gerarchie dell’uso dei suoli, veicola processi di diffusione di monocolture (basti pensare a certi vini o ancora ad alcune monocolture solo per menzionare alcuni casi recentemente approfonditi da Giannandrea Mencini, 2023).
Al tempo stesso si assiste a una omologazione delle ristrutturazioni: tutte le case prendono una forma standard connotata da aspetti di ‘patina’ (Appadurai 1986, 1996) e di valore aggiunto connesso all’esperienza di lusso fissata nell’immaginario delle campagne toscane, ad esempio, che viene indiscriminatamente estesa anche a territori del tutto diversi. Fa parte dell’overtourism la pretesa di standard estetici che si vengono a caratterizzare come i nuovi ambienti percettivi del turismo globale: stesso mobilio, stessi colori – i legni, i beige, gli acciai –, stesse fragranze delle facilities da bagno, persino. Rassicurante percezione, anche nel lusso mediano, di una ininterrotta esperienza di prossimità che di fatto non fa uscire mai dalla zona di confort che è considerata in ogni caso un valore da salvaguardare nell’esperienza di relativo e sempre molto protetto spaesamento connesso al viaggio.
Questa continuità nella discontinuità è un nesso che l’antropologia critica dei processi turistici ha rimarcato sin dagli anni Sessanta del Novecento quando osservava i primi grandi flussi del turismo di massa e le prime, interessanti esperienze di turismo ‘esotico’ in aree e mondi molto lontani. L’estrazione di valore e di senso ai danni della destinazione turistica nei due casi avveniva seppur secondo declinazioni diverse. Nel primo caso – come nell’overtourism veneziano e non solo – le bocche delle grandi navi da crociera rilasciavano come continuano a fare nel tessuto delle città una marea di persone nella sostanza inesperte e spesso disinformate, lasciate spesso a sé stesse oppure accompagnate secondo forme deresponsabilizzanti e infantilizzanti che sottraggono spazio e risorse alla popolazione residente, producono un surplus di rifiuti, consumano acqua e suolo. Nel caso del nuovo turismo rurale anche le aree un tempo marginali, periferiche, dimenticate vengono fatte oggetto di una nuova curiosità turistica spesso invasiva che finisce per creare squilibri – si pensi alle aree protette, ai parchi e alle coesistenze con gli animali selvatici, alle difficili convivenze in alcuni casi con le forme di vita locali – e creare nuovi partages e nuove segmentazioni del tessuto socioculturale delle aree targets (Devine – Ojeda 2017; Higgins-Desbiolles 2022).
Piccoli borghi e transumanze alla moda
Abbiamo una malcelata tendenza a creare facili distinzioni manichee tra locale e globale, tra autentico e mercificato, tra unico e massificato che impedisce spesso di leggere l’infinita complessità delle pressioni e delle aspirazioni, dei desideri dei territori e delle comunità. È così che accanto alla percezione chiara, palese e sfacciata dell’overtourism veneziano che gentrifica i centri storici espellendone la popolazione che storicamente li ha abitati, si affaccia oggi, con sempre maggiore evidenza, un eccesso di turismo o una forma di saccheggio temporaneo e ‘mordi e fuggi’ di destinazioni per certi versi ancora più fragili quali sono le aree interne e quelle rurali.
Si dirà che poche destinazioni sono fragili quanto Venezia: è vero, per la sua configurazione, per la sua natura liquida e scivolosa che la rende preda delle acque. Al tempo stesso Venezia come entità patrimoniale, come struttura e sovrastruttura fragile non lo è. È abituata alla folla e al commercio da secoli, è segnata in lungo e largo da storie di sovraffollamento, è in continua trasformazione per sua stessa natura di città di mare, di porto, commercio, di scambi. C’è al contrario una fragilità interna che è fatta di assenza di alternative, di un affidarsi al salvagente del turismo come ultima risorsa che in certo modo è più profondo e senza appello perché quando la tendenza e le rotte volubili e capricciose del turismo più o meno di nicchia si invertono lasciano le comunità – a patto che si possa parlare di comunità come interi e non come intrecci di gruppi e componenti sociali e culturali differenziate che necessariamente le compongono sia nello scenario complesso e stratificato di una città storica che in quello di un piccolo ‘borgo’ – senza prospettive e senza visioni se non quella desolante dello svuotamento e della perdita delle vocazioni territoriali che le hanno costituite.
È fin troppo facile, pertanto, evocare nel ragionamento sull’eccesso di turismo il discorso critico post-coloniale e post-orientalista, appare esso stesso, in certo modo, un attardamento. Eppure quella lezione forte, radicale della riflessione decoloniale può essere una guida fine all’analisi di alcuni meccanismi di estrazione simbolica operati ancora oggi dal turismo eccessivo e dal consumo di luoghi (Urry 1995) che lo caratterizza e ci permette, forse, anche di andare oltre la semplice critica anti-consumistica da cui muovevano le critiche di ascendenza marxista del già citato Boorstin e di altri al turismo di massa degli anni Sessanta.
Cosa cercano, infatti, i turisti nei luoghi visitati? Da un lato cercano delle destinazioni certe, delle icone. Vogliono vedere il contrassegno – si direbbe con Barthes –, l’emblema capace di sintetizzare in un solo scatto – oggi più ancora che allora – il senso e la testimonianza del viaggio svolto. In questo operano nello stesso senso di standardizzazione, iconizzazione e semplificazione che tutta la cultura coloniale ha da sempre applicato alle società e comunità dominate e piegate al sistema di rappresentazioni, all’etica e all’estetica della cultura prevaricatrice e invasiva. La stessa idea patrimoniale – quella del patrimonio dell’umanità – anziché rispettare ed essere intesa nella sua accezione alta e nobile di una tutela e salvaguardia dei siti condivisa e gestita come impegno comune, è stata traslata in privilegio esclusivo, come marchio di qualità che è al tempo stesso motivo di orgoglio identitario, ma anche valore commerciale da mettere in vendita, in negozio nel grande mercato delle destinazioni turistiche, specie nei siti fortemente patrimonializzati.
Su tutt’altro fronte, quello delle destinazioni periferiche, rurali, interne, montane persiste una logica per certi versi antica della no man’s land, della terra di nessuno dove i turisti hanno diritto di arrivare e sentirsi a casa o in luoghi di ristoro compensatori delle fatiche urbane e accanto a ciò l’idea salvifica, missionaria, per certi versi, secondo cui il turismo in ogni caso rappresenterebbe la panacea per i territori e le comunità ospitanti.
È ciò che in parte rischia di accadere nei piccoli borghi oggetto oggi di processi accelerati e fortemente eterodiretti di riqualificazione – come si è cercato di mettere in luce da parte di urbanisti e scienziati sociali (De Rossi-Barbera 2022) – e nelle montagne gentrificate dall’estrazione dei grandi eventi (Perlik 2011; Smith, Phillips, Kinton 2018) – si pensi a quello che sta accadendo sulla scena preparatoria al cruciale appuntamento delle Olimpiadi invernali 2026 (Nardelli 2022) – o ancora da una idea predatoria del turismo transumante che viaggia e cerca esperienze secondo forme che in realtà spesso sfidano i limiti imposti nella relazione ai luoghi dalla conoscenza locale, un’offerta veloce, emozionale e narrativa, come quelle pianificate a tavolino da fior di esperti, eliminando ogni variazione, rischio ed incertezza, totalmente massificata e replicabile (Trentini 2024). Ne sono esempi evidenti le trasformazioni sregolate di strutture di uso agricolo in residenze vacanze e b&b più o meno di fortuna, ma soprattutto rappresentano questa deriva i turisti che arrivano per pochi giorni all’anno a invadere i piccoli centri montani e rurali lasciando poi quelle traiettorie all’inseguimento di nuove destinazioni. Alla destrutturazione e minaccia nei confronti della biodiversità umana e ambientale, assistiamo in modo sempre più frequente al logoramento della biodiversità umana culturale e delle persone nei diversi contesti.
Nell’uno e nell’altro caso siamo di fronte a una distorsione nel rapporto alla destinazione: sovraffollamento e snaturamento dei luoghi nel caso delle città d’arte e grandi mete turistiche, rarefazione e ingorgo per pochi giorni all’anno e conseguente abbandono per i luoghi e le destinazioni periferiche nell’altro. Fenomeni che non tengono in sufficiente considerazione i desideri e le esigenze delle comunità residenti (Fournier – Broissard – Chastagner – Crozat 2012), che non hanno cura di mantenere accanto ai servizi per i turisti, quell’insieme di servizi fondamentali (Barbera – Dagnes – Salento – Spina 2016; Zanini 2021) necessari a garantire il benessere e il buon abitare delle persone che abitano quei luoghi in modo stabile.
Sentirsi Chatwin, ridere di Erminia e Giacinto
Quella di Venezia è una ipertrofia, ma aiuta come per altri casi a mostrare la diffusa presenza di torsioni e frizioni nella gestione della macchina turistica complessiva del nostro Paese. Accade nei poli urbani, invasi e maltrattati da una macchina turistica invadente e per molti versi devastatrice, ma sta accadendo in modo crescente anche nelle aree rurali negli ultimi anni con una crescita esponenziale di esercizi ricettivi, di agriturismi recuperati, di case vacanze più o meno improvvisate e di percorsi e cammini dalle molte, diverse sfaccettature, ascendenze, proposte, cornici. I territori e le aziende agricole vengono sollecitate a pensare a una multifunzionalità benefica che consentirebbe di sopportare il peso della competizione e di integrare i proventi derivanti dall’agricoltura e dall’allevamento. Attraverso questa via anche le aree rurali entrano a pieno titolo in quel processo di commodification e di estrazione da parte dell’industria turistica: perdita di terreni agricoli in favore di attività di diporto, riqualificazione standardizzata dei borghi e dei centri, perdita di attività produttive, perdita di pratiche sedimentate storicamente e saperi locali caratterizzanti, perdita di biodiversità coltivata e allevata e di specificità e caratterizzazione paesaggistica mentre, apparentemente, se ne tesse l’elogio e lo si eleva a elemento cardine dell’attrattività turistica.
Si assiste in quasi tutti i casi a una nuova partizione che sembra voler individuare il turismo buono da quello cattivo, il saper viaggiare dal saccheggio attribuendo i meriti della prima pratica a sé stessi o a coloro che ci piacciono, a un certo selezionato numero di testimonial giusti e attribuendo demeriti, cattive pratiche, atteggiamenti ridicoli e goffi agli altri non meglio definiti: gli altri, i turisti, mentre chi critica sarebbe dalla parte giusta del residente titolare di diritti e del viaggiatore sensibile e rispettoso quando a sua volta si muove verso altre destinazioni. La solita, inestinguibile diatriba tra “hosts and guests” (Smith, 1978) che in realtà mostra quanto il tema dell’overtourism sia decisamente più antico e radicale e rinvii alle dialettiche coloniali e orientaliste tardo-ottocentesche e primo novecentesche, al folklorismo borghese e antiquario e ci racconti di noi, del nostro modo di intendere l’abitare e il risiedere o, nella più recente retorica essenzialista, dell’appartenere ai luoghi molto più di quanto non crediamo.
Tutti pensiamo di essere grandi viaggiatori, tutti riteniamo – ne abbiamo bisogno in certo modo per godere della propria esperienza turistica – che ciò che viviamo sia una emozione unica e irripetibile, ‘autentica’ e tutti abbiamo la tendenza a ritenere che invece quello che fanno gli altri ‘a casa nostra’ sia una vacanza sguaiata e maleducata, priva della necessaria e reale curiosità verso la dimensione locale, ‘mangereccia e cafona’. Tutti – per dirla con due facili riferimenti iconici – ci pensiamo emaciati esploratori à la Chatwin e vediamo gli altri come gli impacciati Giacinto ed Erminia delle celeberrime Vacanze intelligenti di Alberto Sordi (1978).
In primis dunque la questione turistica pone un tema di etero e autorappresentazioni, di nuovi partage tra forme del viaggiare corrette e incorrette e questo primo livello si colloca sul fronte dell’esperienza soggettiva come nuovo registro distintivo tra forme di fruizione della cultura, del paesaggio e del tempo libero incaricate di posizionare chi le pratica in diversi ambiti e categorie sociali distinte.
Come tale pone all’antropologia domande difficili e delicate circa l’origine stessa di quelle partizioni, alle ontologie cui alludono e la loro ripetizione e riproduzione da parte del mercato e si potrebbe dire del quadro culturale e normativo che governa le economie tardo-liberiste contemporanee. Questa ontologia che ha fondato il legame sociale e al territorio sul consumo ha determinato, nella sua attuale parabola, anche l’irrigidirsi dei rapporti sociali e di scambio tra comunità visitanti e ospitanti e lo svilupparsi di frizioni che doppiano nella forma della critica all’eccesso di turismo, le critiche radicali alle torsioni del tardo-capitalismo e dell’Antropocene, andando a mettere in discussione il diritto arrogato da certe categorie – ceti, specie – di decidere del destino di altre/i in nome della loro posizione di preminenza (Duffy 2015, Giuzio 2022).
La stessa estensione della nozione di parco – da naturalistici a quelli a tema, acquatici, letterari – ad aree indifferentemente urbane e interne, rurali e metropolitane indica questa plasmazione dei territori e dei luoghi di vita di altre comunità come aree di sollievo e divertimento per altre (Moore 2015, Fletcher 2018). Persino l’idea recentemente evocata come panacea per la rigenerazione dei borghi delle aree interne – quella dei cosiddetti ‘nomadi digitali’ – rinvia a una idea di abitare che sicuramente rimodula l’accezione dell’appartenere come contribuire con il proprio risiedere al farsi di un luogo, ma piuttosto lo vive come un parco in cui fermarsi temporaneamente, un foglio bianco o verde su cui disegnare, uno spazio-tempo dove ricavare ristoro, recupero dallo stress della vita urbana. In ciò sostanzialmente ripetendo e riportando dialettiche overturistiche al cuore stesso del discorso sulle aree interne.
Le moeche in casa
Alla fine del film di Segre il disequilibrio intorno a cui l’intera storia si struttura – quella tra città abitata, produzione ed esclusivismo turistico – si riprende fattivamente il centro della scena. Le moeche invadono la casa della discordia, l’immobile gentrificato intorno a cui si articola tutta la polemica familiare in merito alla destinazione d’uso.
Ai ricordi struggenti della città di pescatori, città povera, immersa in una natura acquatica e nella fatica dei risvegli all’alba per andare a curare le moeche subentra l’idea veloce e riduttiva del soldo facile, degli affitti delle case di pregio, delle abitazioni ‘tipiche’. Persino la logica della filiera corta, del cibo a metro zero rappresentato da questi molluschi entra a far parte di questa rilettura in chiave critica del rapporto a Venezia e alla sua industria turistica alternando costantemente i registri di finzione e realtà.
Ciò che è autentico diventa commerciale perché diventa interessante come destinazione turistica, la casa di famiglia estromette i suoi eredi naturali per ospitare persone che vogliono fare ‘esperienza’ del vivere in laguna: un abitare spossessato ai ‘veri’ residenti. Nota in una intervista Segre che «il fatto che le stesse moeche si possono mangiare solo quando fanno la muta, quando perdono la loro casa, ci è sembrata una metafora importante. Oggi un piatto di quei crostacei costa molto, benché sia sempre stato un cibo popolare: è la trasformazione del tradizionale in traditional. Che è il grande paradosso: i turisti cercano la verità, la realtà autentica, ma non la trovano più perché è messa in crisi dallo stesso mercato turistico» (Porro 2021).
Torniamo così pensando proprio alle moeche ‘autentiche’ mangiate dai turisti e a quelle che invadono la casa di famiglia in un atto resistente di Pietro contro il miraggio dei “divoratori” di cultura e di territorio di cui scriveva oltre quarant’anni fa Lombardi Satriani, contro le contraddizioni insanabili del mercato, contro gli squilibri del turismo di predazione: una metafora densissima della relazione impari e asimmetrica tra economie morali e materiali in questo tempo di vertiginosa transizione.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
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Letizia Bindi, docente di discipline demoetnoantropologiche e direttore del Centro di ricerca ‘BIOCULT’ presso lo stesso Ateneo molisano. Presidente dell’Associazione “DiCultHer – FARO Molise” per la piena attuazione della Convenzione di Faro nel territorio regionale molisano. Si occupa di storia delle discipline demoetnoantropologiche, di rapporto tra culture locali e immagini della Nazione nella storia italiana recente e sulla relazione più recente tra rappresentazione del patrimonio bio-culturale e le forme di espressione digitale. Su un fronte più strettamente etnografico ha studiato negli scorsi anni i percorsi di integrazione dei migranti, alcuni sistemi festivi e cerimoniali, la relazione uomo-animale nelle pratiche culturali delle comunità rurali e pastorali, la transumanza dinanzi alle sfide della tarda modernità e della patrimonializzazione UNESCO. Visiting Professor in varie Università europee, coordina alcuni progetti internazionali sui temi dello sviluppo territoriale sostenibile e i patrimoni bio-culturali (EARTH – Erasmus + CBHE Project con Università Europee e LatinoAmericane) e il Progetto ‘TraPP (Trashumancia y Pastoralismo como elementos del Patrimonio Bio-Cultural) in collaborazione con le Università della Patagonia argentina.
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