di Chiara Dallavalle
Il fallimento del referendum sulle trivelle è stata una evidente dimostrazione non solo del disinteresse del popolo italiano verso quel sistema di rappresentanza democratica che è il voto, ma anche verso un tema importante come quello dell’ambiente. A prescindere dal fatto che l’opinione personale si orientasse a favore o contro l’abrogazione della norma, un tasso di assenteismo così elevato ha collocato inevitabilmente la questione ambientale in una posizione abbastanza bassa nella scala di priorità degli italiani. Tuttavia, la preoccupazione per le ripercussioni degli evidenti cambiamenti climatici in atto ormai da decenni sembra occupare i primi posti delle agende politiche dei Paesi di buona parte del nostro Pianeta. Lo dimostra la recente COP21 tenutasi a Parigi lo scorso dicembre, nata proprio dalla spinta sempre più forte ad agire in modo deciso rispetto alla riduzione delle emissioni di gas serra. Per quanto l’esito della Conferenza abbia portato forse a risoluzioni meno incisive di quanto ci si aspettasse, soprattutto rispetto alla reale messa in atto dei principi sottoscritti, essa ha comunque rappresentato un’occasione importante per porre la questione ambientale al centro delle future strategie politiche globali.
Avvicinarsi all’acceso dibattito sul cambiamento climatico ci costringe inevitabilmente a prendere in esame il millenario rapporto tra uomo e natura, da sempre al centro di speculazioni filosofiche e teologiche, e che oggi è invece divenuto l’emblema della profonda crisi in cui versa il modello economico capitalista. Quello che dalla comparsa della vita sul nostro pianeta fino a poche centinaia di anni fa è stato il principio cardine dell’ecosistema-mondo, ovverosia l’interdipendenza e la reciprocità tra organismi viventi e ambiente, è ormai entrato in crisi. Oggi l’essere umano si percepisce come altro dal mondo naturale, e pertanto autorizzato a controllarlo e dominarlo. L’ambiente in cui l’uomo vive è divenuto semplicemente un serbatoio di risorse a cui attingere a proprio piacimento. Il rapporto tra uomo e natura è quindi ormai completamente alterato, anche a causa del progresso tecnologico, che ha reso necessario l’utilizzo sempre più cospicuo di materie prime. Il modello di sviluppo capitalista ha introdotto il mito della crescita illimitata, che trova la sua realizzazione massima nella società dei consumi in cui siamo immersi. Sulla base di questo modello siamo portati a pensare che la produzione e il relativo consumo siano destinati a crescere esponenzialmente in modo infinito, senza considerare che questo si scontra invece con la finitezza delle risorse disponibili.
Per decenni le società del cosiddetto Primo Mondo hanno guidato questa corsa verso la crescita continua, trascinando il resto del pianeta al seguito attraverso il ritmo accelerato della globalizzazione. Tuttavia di recente appare sempre più forte la consapevolezza che questo meccanismo si stia in qualche modo incrinando. Il cambiamento climatico è stato forse la prima spia ad accendersi e a segnalare che qualcosa non funziona più secondo i piani. Sempre più frequentemente arrivano notizie di danni e vittime causati da disastri naturali, che in realtà altro non sono che l’esito dell’opera sempre più frenetica di manipolazione dell’ambiente da parte dell’uomo. Dal dissesto idrogeologico ai periodi di siccità eccessivamente prolungati, fino agli effetti devastanti di cicloni improvvisi, soltanto quando ci si accorge che i fenomeni naturali rimangono comunque fuori dal controllo dell’uomo, allora sorge la consapevolezza che certi meccanismi innescati stanno producendo risultati inaspettati e non necessariamente a favore della specie umana.
Le ripercussioni dei cambiamenti climatici sono evidenti soprattutto nel momento in cui intere popolazioni si ritrovano a dover modificare forzatamente il proprio rapporto con il territorio, e a mettere in atto strategie di adattamento che, in casi estremi, possono portare addirittura alla migrazione di massa. Se le variazioni dei fenomeni naturali, dai terremoti alle glaciazioni, hanno da sempre costretto l’uomo a spostamenti forzati, tuttavia il tempo presente ci mostra come gli esodi collettivi per cause ambientali siano in realtà il prodotto indiretto dell’attività umana. Il mutamento del clima inizia ad essere tra i fattori che maggiormente spingono popoli interi alla migrazione.
Da un punto di vista antropologico, la relazione tra movimenti migratori e spazio è un ambito di ricerca ampiamente esplorato. Tuttavia il concetto di spazio preso in considerazione dalla maggior parte degli studiosi lo ha solo raramente incluso nella sua accezione di ambiente naturale. Il legame tra migrazioni ed ecosistemi naturali sembra essere dive- nuto un tema di interesse scientifico soltanto molto recentemente, quando il termine migrante climatico ha iniziato a comparire sempre più frequentemente nei media. L’International Organization for Migration definisce i migranti ambientali come «persone o gruppi di persone che, a causa di improvvisi o graduali cambiamenti nell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le proprie case, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si muovono all’interno del proprio paese o oltrepassando i confini nazionali» [1]. Secondo questa classificazione esistono tre tipologie di migranti ambientali: gli environmental emergency migrants, ovverosia quelle persone che migrano temporaneamente a causa di un disastro ambientale, come ad esempio un terremoto o uno tsunami; gli environmental forced migrants, cioè le persone costrette a partire a causa del deterioramento delle condizioni ambientali, come la deforestazione; e gli environmental motivated migrants, vale a dire coloro che scelgono di migrare in risposta a problemi specifici legati al cambiamento climatico e ambientale.
Dalle precedenti definizioni appare chiaro che la scelta di abbandonare o meno il proprio luogo di residenza sia molto raramente una scelta volontaria e sia invece spesso imposta da condizioni esterne. In questo senso il migrante ambientale si avvicina molto alla categoria del migrante forzato. Il termine rifugiato ambientale fu introdotto per la prima volta negli anni ’70 da Lester Brown, fondatore del Worl Watch Institute, e successivamente ripreso da EssamEl- Hinnawi, e andava ad indicare chi fosse costretto ad abbandonare il proprio habitat a causa di un marcato degrado ambientale che metteva a repentaglio la propria vita, o ne influenzava pesantemente la qualità [2]. Esso è tuttavia un concetto fortemente controverso. Infatti, pur riconoscendo la natura spesso forzata di molti flussi migratori indotti da importanti mutamenti ambientali e climatici, tuttavia la categoria del rifugiato possiede una caratterizzazione giuridica ben precisa, regolamentata dalla Convenzione di Ginevra del 1951, la quale, nell’elencare le motivazioni per cui una persona può essere titolata dello status di rifugiato, non include le cause ambientali. Pertanto, almeno formalmente, pur riconoscendo gli aspetti coercitivi di molte migrazioni ambientali, esse non possono dare luogo a rifugiati. A questo proposito va detto che la Convenzione di Ginevra venne stilata nel periodo immediatamente successivo alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, e fu quindi ispirata ad un’immagine di rifugiato fortemente influenzata dalle atrocità attuate da parte dei Nazisti durante il conflitto. L’idea di persecuzione venne quindi legata prevalentemente ad elementi quali la razza, la religione ed il credo politico. Questo approccio rimane ancora oggi alla base del riconoscimento dell’asilo, che per l’appunto, viene definito asilo politico. Per quanto negli ultimi decenni siano stati fatti importanti passi per allargare l’accesso alla protezione anche a chi non rientraformalmente nella definizione della Convenzione di Ginevra (basti pensare al riconoscimento della protezione per motivi umanitari), tuttavia le cause strettamente ambientali non danno luogo ancora oggi a forme di tutela giuridicamente riconosciute.
A questo proposito va osservato che individuare in modo chiaro ed univoco le cause ambientali come propulsore principale di un fenomeno migratorio sia poco realistico. Infatti esse vanno sempre a sommarsi con una pluralità di altri fattori, da cui è impossibile prescindere. Ad esempio, se si va ad analizzare il rapporto tra degrado ambientale e livello di conflitto in un dato territorio, appare subito chiara l’impossibilità di determinare quale sia la causa e quale l’effetto di un’eventuale migrazione di massa. Al contrario spesso questi due elementi sono indissolubilmente intrecciati, dando come risultato finale lo spostamento di interi popoli. Questo è ad esempio il caso del Darfur, una delle nove provincie storiche del Sudan dove venti anni di siccità, indotta probabilmente da profondi mutamenti climatici a livello locale, hanno notevolmente ridotto il suolo a disposizione per l’agricoltura e la pastorizia. Tuttavia la scarsità di risorse si è andata combinando con l’utilizzo strumentale delle identità tribali, con l’esito finale di un sanguinoso conflitto armato per il controllo della terra a base etnica. La distruzione delle già scarse risorse naturali da parte delle milizie ha portato quindi ad un degrado ulteriore del territorio, che a sua volta ha determinato il massiccio sradicamento di migliaia di persone dislocate in enormi campi profughi. La presenza dei campi profughi, con relativa produzione di rifiuti, utilizzo del suolo non finalizzato all’agricoltura e costante deforestazione per procurare legna ai campi, ha accelerato ancora di più il processo di degenerazione dell’ambiente, innescando un circolo vizioso di difficile interruzione [3].
L’esempio del Darfur ci riporta nuovamente alla possibile applicazione del termine rifugiato ai migranti ambientali. Infatti, sull’onda delle recenti azioni intraprese per il riconoscimento di protezione internazionale anche ai migranti per cause ambientali [4], la categoria di rifugiato appare sempre più politicamente valida nell’includere tutti coloro costretti in qualche modo allo spostamento. Tuttavia la sua efficacia si esaurisce nel momento in cui la validità giuridica non è applicabile a coloro le cui traiettorie migratorie rimangono confinate entro gli spazi del proprio Stato. Rifugiato è infatti per definizione chi chiede protezione ad un Paese diverso dal proprio, e che quindi ne ha quindi necessariamente oltrepassato i confini. In questo caso la categoria del rifugiato cede il passo a quella dei cosiddetti internallydisplacedpeople (IDP), gli sfollati interni, i quali possono, volenti o nolenti, contare solo sulla protezione offerta dal proprio Paese. Va detto che solitamente gli spostamenti interni sono tra i primi ad essere messi in atto nel momento in cui il contesto socio-ambientale di residenza non appare più sicuro o capace di garantire le condizioni minime vitali. Pertanto, sia nel caso di disastri ambientali, sia in quello di conflitti o di condizioni economiche ai minimi della sopravvivenza, i migranti scelgono come prima via lo spostamento in altri territori più o meno prossimi a quello di provenienza. Èinoltre importante sottolineare che spesso spostamenti apparentemente attuati su base volontaristica, sono in realtà il risultato di scelte forzate, provocate da condizioni di vita ormai insostenibili. Infatti il grado di volontarietà sulla base del quale una persona decide di abbandonare il proprio luogo di residenza è difficilmente individuabile in modo chiaro, in quanto è il risultato di una molteplicità di fattori, alcuni dei quali spesso imposti dall’esterno. È quindi molto arduo, se non impossibile, distinguere in modo netto tra migranti forzati, migranti economici, migranti ambientali, e via dicendo. Le cause all’origine dei processi migratori sono sempre molteplici e strettamente interrelate. Nel caso degli IDPsla linea di demarcazione tra coercizione e scelta volontariaè difficilmente tracciabile in modo netto, con il risultato finale che gli sfollati interni si ritrovano spesso collocati in una zona d’ombra, che li rende poco visibili alla comunità internazionale e quindi poco individuabili come soggetti bisognosi di protezione.
Il dibattito sulla necessità di estendere le forme di protezione internazionale anche agli IDPs (Phuong 2014) verte soprattutto sul fatto che, rimanendo all’interno dei propri confini nazionali, gli sfollati rischiano di veder minata la salvaguardia dei propri diritti umani da quegli stessi Stati, che dovrebbero invece garantirne la protezione in quanto propri cittadini. Nel caso delle dislocazioni forzate imposte dai Governi per permettere la costruzione di grandi opere infrastrutturali, la devastazione ambientale è spesso accompagnata dallo sradicamento imposto a quelle popolazioni che fino a quel momento avevano basato la propria sopravvivenza sull’ecosistema locale, di cui erano parte attiva. È questo il caso ad esempio delle faraoniche dighe in costruzione sul fiume Omo in Etiopia, la cui realizzazione sta provocando l’esodo forzato delle tribù locali, incapaci di sopravvivere in assenza dell’ecosistema fluviale ormai compromesso, ma al tempo stesso obbligate a spostarsi per lasciare spazio alla coltivazione intensiva della canna da zucchero, incentivata dagli interessi economici del Governo etiope.
In conclusione, risulta evidente che il tema delle migrazioni ambientali non possa essere disgiunto da quello dello sviluppo sostenibile, e da una nuova visione delle dinamiche socio-economichea livello globale. La portata delle migrazioni legate a profondi mutamenti ambientali e climatici non è più ignorabile, e i flussi migratori che interessano ormai milioni di persone vanno per forza di cose considerati come esito dell’ormai incrinata interdipendenza tra uomo e ambiente. L’attuale fase di crescita economica non permette più di considerare lo sviluppo come fine a se stesso, ma impone di prendere in considerazione altre variabili, ad esso strettamente interconnesse, quali le dimensioni sociali, culturali ed ambientali. Se la natura, nella sua costante energia trasformativa, ha da sempre costretto l’uomo ad un continuo adattamento e a ripetuti spostamenti, d’altra parte nel tempo presente le modificazioni climatiche e ambientali sono per lo più frutto dell’opera umana, che in pochi decenni è riuscita a ridisegnare pesantemente la fisionomia del Pianeta. Aprire il dibattito sui migranti ambientali, e sulla multifattorialità dei processi che stanno alla base dei loro movimenti attorno al globo terrestre, significa in qualche modo riportare l’attenzione sulla profonda interconnesione tra diversi aspetti della vita umana, e ripensare allo sviluppo economico e tecnologico come ad una prospettiva che non può prescindere dalla cura dell’ambiente intorno a noi.
Dialoghi Mediterranei, n.19, maggio 2016
Note
[1] Cristaldi, F. 2013, “Le migrazioni ambientali: prime riflessioni geografiche”, in Aru, S. Corsale, A., Tanca, M. (a cura di), Percorsi migratori della contemporaneità. Forme, pratiche, territori, CUEC Editrice: 44.
[2] Caruso, I., Venditto, B. 2012, “Il futuro del Mediterraneo. Studio preliminare sui rifugiati ambientali”, in Valleri, M., Pace, R., Girone, S. (a cura di), Il Mediterraneo: uno studio e una passione, Cacucci Editore. 253-254.
[3] Kolmannskog, V. O. 2008, Future floods of refugees. A comment on climate change, conflict and forced migration, Norwegian Refugee Council: 21.
[4] Attualmente sono già state intraprese delle azioni per il riconoscimento di protezione anche ai rifugiati climatici, molte delle quali promosse dalla NansenInitiative, un organismo creato da Svizzera e Norvegia nel 2012.
Riferimenti bibliografici
Calzolaio, V., 2010, Ecoprofughi, migrazioni forzate, di ieri, di oggi, di domani, Rimini, NdA Press.
Caruso, I., Venditto, B., 2012, “Il futuro del Mediterraneo. Studio preliminare sui rifugiati ambientali”, in Valleri, M., Pace, R., Girone, S. (a cura di), Il Mediterraneo: uno studio e una passione, Bari, Cacucci Editore.
Cristaldi, F., 2013, “Le migrazioni ambientali: prime riflessioni geografiche”, in Aru, S. Corsale, A., Tanca, M. (a cura di), Percorsi migratori della contemporaneità. Forme, pratiche, territori, Cagliari, CUEC Editrice.
Dall’Ongaro, G., 2012, “In fuga dal progresso”, in Micron, n.22, ottobre 2012.
El-Hinnawi, E., 1985, Environmental Refugees, New York: United Nation Environment Program.
Kolmannskog, V. O., 2008, Future floods of refugees. A comment on climate change, conflict and forced migration, Norwegian Refugee Council.
Latouche, S., 2004, Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa, Torino, Bollati Boringhieri.
Morrisey, J., 2012, “Rethinking the ‘debate on environmental refugees’ from ‘maximalist and minimalist’ to ‘proponents and critics’”, in Journal of PoliticalEcology, vol. 19: 39.
Phuong, C., 2014, The International protection of Internally displaced persons, Cambridge: Cambridge University Press.
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Chiara Dallavalle, già Assistant lecturer presso National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia culturale, è coordinatrice di servizi di accoglienza per rifugiati nella Provincia di Varese. Si interessa degli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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