Il fenomeno dell’apostasia in età moderna coinvolse un notevole numero d’italiani, che tra il XVI e il XVIII secolo raggiunse qualche migliaia di persone. Come abbiamo scritto in un precedente lavoro [1], queste persone venivano inserite nella società musulmana con piena parità con gli altri musulmani e, a volte, potevano perfino superarli nel conseguire ricchezze e occupare posti di rilievo nel governo. Molti di loro però, o per nostalgia o per altre ragioni, cercarono di ritornare in Italia, abiurando una seconda volta la fede professata. Si parlerà in questo lavoro del destino riservato a queste persone, quello del ritorno in Italia e quindi, della loro riconciliazione con la Chiesa.
La Chiesa e il problema dell’apostasia
Il problema dell’apostasia degli italiani non viene affrontato seriamente sin dall’inizio dalle autorità ecclesiastiche e dalla Chiesa romana specialmente, perché all’inizio gli apostati erano paragonati agli eretici. «Fino all’istituzione nel 1542 dell’Inquisizione romana non ci sono pervenute informazioni precise sul comportamento dei vescovi di fronte ai casi di riconciliazione dei rinnegati, che pure si verificarono, anche il nuovo tribunale si accinse ad affrontare questo problema solo una ventina di anni dopo. Il primo apostata all’Islam, infatti, compare in un tribunale inquisitoriale italiano solo nel 1562» [2].
All’epoca, l’Islam come religione fu poco considerata dagli inquisitori ed era vista come una religione diversa che però non faceva paura, nel senso che non metteva in crisi l’esistenza del Cristianesimo. Essi spiegarono, infatti, la conversione come un episodio di passaggio nella vita delle persone che si sono trovate in difficoltà e che in un certo momento, per sopravvivere o per altre ragioni, scelsero di convertirsi all’Islam considerato come “la sola via d’uscita”, oppure si trattava di persone ignoranti che non capivano nulla della religione.
Tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600, il ritorno dei convertiti non era ben organizzato, e non era chiaro tra gli uomini di chiesa, chi aveva il compito di riconciliarli, oltre ai vescovi della sede romana che avocavano a se stessi la soluzione di tutti i casi. Coll’aumento del loro numero, si pose il problema del loro trasferimento a Roma e dell’onere finanziario legato al viaggio, per cui nel XVII secolo i tribunali inquisitoriali cittadini furono costretti a risolvere ad avocare a sé la soluzione dei casi [3].
Lo schema inquisitoriale adottato da parte dai religiosi fu uguale in tutte le parti d’Italia: all’inizio dell’interrogatorio, l’imputato veniva inquisito sulle circostanze della sua apostasia, poi si cominciava a chiedergli se si è astenuto dal mangiare carne di maiale e dal bere vino secondo la legge musulmana, e soprattutto se il rinnegato aveva capito il senso delle parole della “Sciahada”, se è andato alla moschea, se ha pregato col cuore, se è andato nei bagni e per quale motivo (se solo per lavarsi il corpo, oppure per purificarsi). Volendo indagare di più sul grado di adesione degli apostati, gli inquisitori gli chiedevano anche se avevano praticato il digiuno del Ramadan e se avevano preso più mogli [4].
La volontà da parte dei religiosi di far ritornare in Italia il maggior numero di apostati, spinse l’Inquisizione a punirli con “mano leggera”. In tutta la documentazione disponibile sull’Inquisizione romana solo due rinnegati sono condannati a morte e solo pochi processi si sono conclusi con pesanti condanne [5]. E per raccogliere un numero sempre più crescente di cristiani, la Chiesa distinse tra due tipi di apostasia, ammettendo una differenza tra chi ha creduto col cuore e chi si è convertito per finta, sapendo comunque che i rinnegati davanti ai tribunali inquisitoriali avrebbero detto che la loro era una conversione parziale, perché erano convinti che la vera e profonda fede fosse quella cristiana e solo superficialmente e in apparenza si erano dichiarati musulmani. Elisio Masini, autore di uno tra i più importanti libri inquisitoriali, Sacro arsenale, conferma, nel 1625, questa idea, scrivendo che «quasi tutti i rinnegati affermano d’aver fatto ciò solo estrinsecamente, ed haver intrinsecamente ritenuta la cattolica credenza» [6]. Essi, quindi, non negarono il fatto intenzionale e la loro propria scelta di convertirsi all’Islam, ma insistettero sulla loro adesione limitata, cioè esteriore, e sul fatto esteriore del cuore che rimaneva intimamente cristiano.
C’era sempre negli interrogatori la domanda: «se in detto tempo abbia praticato li riti maomettani o esteriormente o interiormente?» Infatti, la testimonianza di non aver mangiato carne tutti i giorni poteva costituire una prova sufficiente e credibile per i giudici della sincerità della persona e della sua parziale conversione, mentre non si dava importanza a temi teologicamente discutibili tra le due religioni, come la Trinità, l’origine divina di Cristo, e neanche di pratiche musulmane come la poligamia. Forse tra le domande che venivano poste nell’interrogatorio, quella che poteva essere più pericolosa era: se sia stato in corsa contro cristiani o in guerra contro medesimi, e li abbia ammazzati. Questa domanda, infatti, poteva condurre l’inquisito al rogo se veniva confermata, ma anche questa colpa poteva, a volte, essere condonata [7].
Lo sdoppiamento tra interno ed esterno è presente in molte testimonianze di vari rinnegati: il ligure Giovan Battista Barbottino di Porto Venere, ad esempio, che fu un membro di un’intera famiglia rinnegata, conferma d’aver avuto un comportamento a casa diverso a quello di fuori, e che non ha mai pregato nelle moschee con l’anima, ma andava solo col corpo. Questo comportamento, infatti, mette in rilievo una opposizione tra i gesti e il cuore e anche tra la bocca e il cuore. C’è anche la testimonianza dei due rinnegati, Giovanni Maria Trena e Pandolfo Lombardo, che confermarono ai giudici dell’Inquisizione di aver mangiato carne nei giorni proibiti, solo in presenza dei musulmani, e di esserne astenuti in privato [8]. Il fenomeno fu, in effetti, simile alla “Taqiya” dei musulmani che identifica un comportamento di dissimulazione religiosa lecito nei casi estremi, come il pericolo di morte.
A guardar bene, l’esperienza dei rinnegati può dunque definirsi come una sorta d’esperienza nicodemita [9] Secondo questa tradizione, il cuore dell’uomo è un luogo impenetrabile che dispone di tutte le verità riguardanti la personalità individuale. E così la volontà che sprofonda all’interno e che si nasconde dietro il corpo è considerata dagli inquisitori come “la sincerità superiore”, mentre i comportamenti esteriori sono stimati come una sorta di mimetizzazione culturale senza alcun valore religioso.
Questo fenomeno fu considerato da alcuni religiosi italiani come Francesco Pucci nel suo libro «Forma d’una republica catholica, come una forma d’organizzazione clandestina, una possibilità di esserci malgrado l’ostilità esterna» [10]. Invece altri religiosi europei come Calvino ne furono grandi oppositori, tant’è che, nel 1544 «si scaglia in un libello contro coloro che identificavano libertà cristiana ad arbitrio individuale cioè i nicodimiti, i pusillanimi, ancora peggio, i libertini, un’altra razza di simulatori che nasconde sotto le apparenze di pietà la mostruosità dell’irreligione» [11]. Lutero invece, nel 1519, sostenne che un Cristiano non è sottoposto alle leggi cerimoniali come gli Ebrei e quindi si possono adottare pratiche esteriori estranee, se ad esse viene tolto ogni significato sacrale «non siamo salvati per le opere ma per la fede» [12]; ma nel 1524 lo stesso riformatore davanti alla diffusione inattesa della sua posizione, condannò severamente tutte le forme di sdoppiamento e di simulazione religiosa. Alla fine questo fenomeno di dissimulazione religiosa venne accettato e tollerato sia dai cattolici sia dai protestanti.
Quest’atteggiamento della Chiesa contribuì a trasformare «la leggenda nera dell’Inquisizione in una assurda leggenda rosa» [13], dove i rinnegati si trovarono di fronte ad un nuovo aspetto del tutto diverso da quello conosciuto sulla severità degli inquisitori. Quest’ultimi sembravano infatti voler aiutare l’imputato e non perseguitarlo. Si nota che gli inquisitori volevano sminuire il problema delle conversioni, ignorando la somiglianza esistente tra alcuni princìpi musulmani e alcune eresie cristiane; la volontà di «ridurre la gravità dottrinale» ebbe pertanto lo scopo di incoraggiare quelli che avevano la voglia di riconciliarsi e assicurarli con delle leggere pene spirituali.
Secondo gli intellettuali cristiani, questo schema d’interiorità della credenza da un lato e di apparenza dei gesti dall’altro, permette ai rinnegati la garanzia di una permanente appartenenza cristiana. La caduta della categoria della contaminazione materiale e la dissimulazione che ne consegue liberano il Cristiano dai legami comunitari e lo candidano alla scoperta del mondo. Ma forse il punto più contradditorio di questa teoria di dissimulazione fu quello della mancanza di segni materiali nella definizione di alterità, che avrebbero dovuto stabilire dei confini concreti che un Cristiano non dovrebbe superare per non rinunciare alla sua appartenenza cristiana; per questo, la Chiesa accettò anche il rientro di persone il cui caso era ambiguo e sui quali c’erano dei dubbi riguardanti soprattutto la loro reale adesione alla fede musulmana (col cuore) e di conseguenza, la negazione di quella cristiana. Ecco uno tra tanti esempi: Giovanni Parasceni fu un rinnegato che faceva il mestiere di mediatore nelle operazioni di riscatto. Egli, infatti, nonostante la sua dichiarazione di non aver aderito col cuore alla setta maomettana e di non aver mai lasciato la Santa fede, non fu creduto dai giudici dell’Inquisizione di Roma e di conseguenza fu accusato di apostasia e di essere stato in un certo tempo un vero musulmano; ma dal momento in cui era volontariamente rientrato in Italia per essere riaccolto di nuovo in seno della Chiesa, gli veniva imposta come penitenza:
«che per spatio di cinque anni ogni giorno dichi una volta il Padre Nostro l’Ave Maria et il credo, che in detto tempo una volta la settimana reciti la corona della gloriosa vergine Madre del nostro Signore Giesù Christo, che degiuni dodeci volte in tutto, che in detti cinque anni confessi li peccati tuoi ad un Idoneo sacerdote, et approbato dall’Ordinario alla Natività, et Resurretione di nostro Signore et alla santissima Pentecoste, et assumptione della beata Vergine et nel istessi tempi ti communichi di suo conseglio et ch’una volta visiti le sette chiese privilegiate di Roma» [14].
Per quanto riguarda invece i rinnegati che si sono convertiti in età infantile, l’assoluzione fu garantita in quanto costretti a tale atto e fu una sorta di premio a quelli che fuggirono volontariamente; essi sostenerono di aver compiuto un così grave gesto solo per poter evitare le ingiustizie e i maltrattamenti da parte dei loro padroni e confermarono di aver avuto la coscienza e la consapevolezza di non tradire il cristianesimo adottando i riti musulmani. La loro simulazione fu pertanto considerata come provvisoria, in attesa del ritorno alla vera fede d’origine. A questa categoria di riconciliati bastavano solo alcuni giorni di digiuno e un po’ di catechismo per fare ricordare loro i princìpi dottrinali del Cristianesimo. Invece quelli che furono catturati nel corso di una battaglia contro Cristiani e avevano assunto posti di responsabilità come gli artiglieri, i navigatori e in certi casi i capitani di navi, il giudizio era molto diverso e più severo. Essi, infatti, affermavano quasi sempre di aver simulato l’abiura della fede e accettato quelle cariche solo nella speranza che la nave cadesse un giorno in mano ai cristiani. Queste loro testimonianze venivano ascoltate con molta cautela da parte degli inquisitori e potevano essere riconciliati se negavano la loro intima intenzione di uccidere i cristiani. Tuttavia anche se venivano riaccolti nel cristianesimo essi rimanevano comunque schiavi e potevano essere liberati solo per volontà dei loro padroni cristiani [15].
La penitenza variò col tempo e da una persona all’altra. All’inizio il digiuno fu imposto ogni venerdì almeno per un anno a tutti i riconciliati, con più confessioni e comunioni possibili (almeno una volta al mese), a partire dal 1567 il digiuno venne imposto anche nelle vigilie colla recita dei sette salmi penitenziali [16]. In alcuni casi la penitenza fu di lunga durata, come nel caso di Antonino Petruccio, che per la sua confessione di aver mangiato carne tutti i giorni anche se non era in presenza dei Turchi, gli fu imposto di digiunare ogni venerdì per sei anni, recitando nello stesso tempo il rosario, di confessarsi quattro volte all’anno e infine di recitare cinque Pater e Ave, mentre a quelli che si sono riconciliati e sono rimasti schiavi sulle galere, fu imposto soltanto di recitare il rosario ogni giorno.
Altre strane penitenze furono adottate da altri rinnegati come Alessandro Graziano, che baciava la terra per tre volte, ogni volta in cui recitava il rosario, oppure come Ludovico Boido il quale, accanto alla penitenza impostagli dalla Chiesa, recitò il credo ogni giorno. Insomma, si può dire che la penitenza fu basata in primo luogo sul digiuno e la preghiera, ma a partire del Seicento si aggiunse la pratica del pellegrinaggio, dovendo vari rinnegati effettuarlo almeno una volta nella vita, in luoghi considerati santi come il chiostro del santuario della Madonna dell’arco a Napoli oppure alle sette chiese di Roma [17].
Il ritorno in Italia non sembra dunque sia stato così traumatico a causa dell’assenza di pressioni da parte degli Inquisitori, che non diedero molta importanza alle abitudini rituali nella vita di tutti i giorni concentrandosi invece sulla sincerità del pentimento. Questa tolleranza riguardante il tema dell’abiura poteva essere ottenuta con la semplice «giustificazione teorica della mensogna» che sta all’origine dello schema funzionale dei tribunali italiani (una tolleranza – si badi – che riguardava solo i rinnegati), i quali rispondendo alle solite domande poste a tutti quelli che si presentarono per la riconciliazione, «non fanno altro che ripetere un copione già noto: confessione, pentimento, perdono» [18]. Questa testimonianza di sé non era spontanea né sincera, tuttavia quest’atteggiamento della Chiesa mette in rilievo un particolare modello inquisitoriale che tende a far uscire l’imputato con pochi danni dalla sua avventura considerata pericolosa e a cancellare eventuali sensi di colpa. «Forse non è estraneo a questo atteggiamento il fatto che essa si consideri fondata su Pietro, l’apostolo che ha tradito, fin dall’inizio dimostra quindi disponibilità nei confronti di chi confessa e si pente di un tradimento» [19]. Inoltre, l’assenza di segni materiali in grado di segnare i confini che un rinnegato non dovrebbe superare, permise sia agli inquisitori che agli imputati di negare ogni vera appartenenza concreta all’Islam, così che si parlava piuttosto di una semplice adesione temporale.
Dopo le sentenze, gli inquisitori non sembrano essere stati interessati a controllare se le norme penitenziali fossero applicate seriamente o no. Sembra che l’importante per loro fosse solo l’abbandono della fede musulmana da parte di queste persone. Notiamo, infine, che il ritorno in Italia riguardava, perlopiù, i maschi, perché le donne una volta convertite erano più inclini a conservare i nuovi legami di sangue che nascevano tra loro e i loro mariti musulmani.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
Note
[1] I rinnegati italiani e la loro integrazione nella società nordafricana in età moderna, in “Dialoghi Mediterranei” n. 51, settembre 2021
[2] L. Scaraffia, Rinnegati per una storia dell’identità occidentale, Editore Laterza, Roma-Bari, 1993:103.
[3] Ibid.
[4] G. Boccadamo, Napoli e l’Islam: storie di musulmani, schiavi e rinnegati in età moderna, D’Auria Editore, Napoli, 2010: 63.
[5] Vedi: Lucia Rostagno, Mi faccio Turco: esperienze ed immagini dell’islam nell’Italia moderna, Istituto per l’Oriente C.A. Nallino, Napoli, 1983.
[6] Eliseo Masini, Sacro arsenale ouero prattica dell’officio della Santa Inquisitione, Roma, 1730: 232.
[7] Un atteggiamento molto intelligente lo ebbe un certo Ciuffo, di origine sarda, che nel 1773, ravvedutosi dal suo peccato contro la Chiesa, chiese la grazia dal governo sardo e fece la proposta di consegnare la nave da lui comandata con i musulmani a bordo, caso mai fosse stato riaccolto in patria. Promessagli positive assicurazioni, il rinnegato mise in esecuzione il suo piano, uscì in corsa con il suo legno, arrivando al mare sardo presso Teulada, fu inseguito da alcuni legni siciliani e senza nessun tentativo di difesa, il Sardo ordinò di arenare la galeotta, i teuladini giunsero rapidamente sulla spiaggia per catturarli, egli avrebbe voluto arrendersi, ma temette la reazione dell’equipaggio, che se avesse intuito la vera intenzione del Raïs l’avrebbe sicuramente ucciso; la battaglia fu presto finita e i Musulmani si lasciarono prendere, il Sardo venne riparato in convento per proteggerlo dal popolo in quanto corseggiò contro i Cristiani. Più tardi, dopo la sua abiura dell’Islam, il governo gli diede il comando di una galeotta con la quale il Ciuffo ristabilì “il suo onore” operando con tutta la sua abilità e la sua esperienza contro gli ex correligionari. Vedi: Pietro Martini, Storia delle invasioni degli Arabi e delle piraterie dei Barbareschi in Sardegna, Timon, Cagliari, 1861: 240- 241.
[8] G. Boccadamo, Napoli e l’Islam…, op, cit.: 64.
[9] Nella cultura cristiana, il cuore è la sola parte del corpo responsabile dell’appartenenza di una persona a una fede precisa e quindi gli atti esteriori non contano. Giovanni Calvino usò il termine Nicodemismo per la prima volta per definire una sorta di dissimulazione religiosa, che i fedeli potevano usare per aderire a opinioni dominanti diversi dalla propria pur di rimanere in vita.
[10] Vedi: Francesca Bonicalzi, Il Rinascimento e le riforme: con atlante storico fuori testo, Jaca Book, Milano 1979: 360.
[11] L. Scaraffia, Rinnegati…op, cit: 128.
[12] Dino Bellucci, Fede e giustificazione in Lutero, Gregorian & Biblical BookShop, Roma, 1963: 239
[13] Adriano Prosperi, L’Inquisizione romana: letture e ricerche, Editore di Storia e Letteratura, Roma, 2003: 95.
[14] Citato in L. Scaraffia, Rinnegati…, op, cit,: 170.
[15] John A. tedeschi, Il giudice e l’eretico. Studi sull’inquisizione romana, Vita e Pensiero, Milano, 1997: 42-43.
[16] I sette salmi sono (Sal 6; cfr. Sal 32; cfr. Sal 38; cfr. Sal 51; cfr. Sal 102; cfr. Sal 130; cfr. Sal 143) furono raccolti da sant’Agostino sotto il nome di “salmi penitenziali”, che vengono recitati la sera, prima di confessarsi e dopo essersi pentiti di un peccato.
[17] G. Boccadamo, Napoli e l’Islam…, op, cit.: 65-66
[18] L. Scaraffia, Rinnegati…,op, cit.: 114 .
[19] Ivi: 167.
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Kais Ben Salah, ricercatore presso l’Università della Manouba, in Tunisia. Da anni si dedica a lavori sui legami culturali tra l’Italia e il Nord-Africa in età moderna.
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