dialoghi antivirus
di Giovanni Gugg
Ogni disastro ha un carattere totalizzante che, oltre al dolore e alle perdite, causa disordine a livello spaziale, morale e sociale. Ogni disastro sconvolge i luoghi e le comunità che li abitano perché accanto ai propri cari si smarriscono i riferimenti territoriali e le relazioni sociali, per cui determina un disagio a stare in un luogo o in una situazione. Dinanzi all’ambiente squassato si hanno poche possibilità di risposta: si corre contro il tempo per salvare delle vite, si scava tra le macerie, si curano i feriti e si distribuiscono i generi di prima necessità, si mettono in sicurezza gli edifici pericolanti, si sgombrano le strade e, con il tempo, si ricostruisce, magari ridisegnando completamente i luoghi; ma si tratta di fasi diverse che abbracciano un arco temporale lungo anni, spesso decenni. Sul piano sociale, invece, si può tentare di tenere insieme la comunità colpita attraverso una serie di strategie culturali volte a riconnettere il passato e il futuro, cioè finalizzate a ricucire la tela del tempo collettivo lacerata dalla calamità, per cui non di rado assumono le sembianze di riti.
L’africanista belga Luc de Heusch definisce i riti come «un progetto di ordine per difendere o ristabilire l’essere degradato, aumentare il suo potenziale vitale o, al contrario, distruggere l’essere-dell’altro» (de Heusch 1971: 245). In particolare, distingue tre tipi di azioni: i riti ciclici dell’ordine della struttura (le feste di Natale, ad esempio), i riti di passaggio o transitivi legati ad un tempo irreversibile (come l’iniziazione dei giovani o i compleanni) e i riti occasionali, che offrono un orizzonte contro gli scombussolamenti storici dell’ordine collettivo e del ciclo dell’anno.
Occupandomi da anni di territori a rischio o disastrati, ho osservato con una certa frequenza questo tipo di pratiche: innanzitutto intorno al vulcano Vesuvio (Gugg 2014; 2018a), poi nel Centro Italia post-sismico (Gugg 2018b), a Ischia dopo il terremoto del 2017 (Gugg 2018c) e, ancora, a Nizza dopo l’attentato terroristico del 2016 (Gugg 2018d). Al di là delle epoche, dei contesti e delle tipologie di disastro, in ognuno di questi casi ricorrono insolite performance collettive; possono essere molto varie – non solo religiose, ma anche laiche; a volte spontanee, altre sollecitate dalle istituzioni; spesso episodiche, talvolta ripetute negli anni successivi – eppure sono tutte accomunate da un elemento: compattarsi come comunità disastrata per affrontare lo scombussolamento collettivo. Ho proposto di chiamare tali azioni “riti in emergenza”, perché sono un insieme di gesti che innanzitutto legano i sinistrati alle generazioni passate, le quali compirono gesti simili, per ragioni simili, in momenti simili; sono il modo in cui i sopravvissuti cercano conforto procedendo gli uni verso gli altri al fine di restare coesi e vincere la disperazione e la disgregazione.
Si tratta di dispositivi folklorici utili a riassorbire lo shock causato da un trauma e, allo stesso tempo, efficaci nel tenere insieme una collettività dopo una calamità; sono, al contempo, cerimonia liturgica e manifestazione di socialità volti a contenere l’angoscia: un tentativo di dominare ciò che è indomabile, ma anche una modalità per esprimere sconcerto, incredulità, rabbia e dolore. Il termine dispositivo va inteso come ciò che ha «la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi» (Agamben 2006: 21), per cui si riferisce non solo alle strutture con una connessione evidente con il potere, bensì a tutti gli strumenti – compreso il linguaggio – che mettono in relazione gli esseri umani tra loro. In tal modo, l’esperienza di un medesimo modo di sentire, durante una crisi profonda, permette ai membri di una specifica comunità di pensare alla loro identità collettiva e di esprimerla secondo procedure che sono, appunto, culturali.
Talvolta i “riti in emergenza” fungono da “processo di blaming”, cioè servono ad attribuire delle responsabilità, per cui capita che vengano usati per puntare il dito fuori dalla comunità, in modo da autoassolversi e restare “puri”. Ma, da una prospettiva culturale, si tratta innanzitutto di strategie che hanno una doppia finalità: da un lato mettono in comune il dramma – e quindi ne permettono una prima elaborazione – e dall’altro intendono gestire l’incertezza, la paura, l’attesa o il trauma.
Quella del rito in emergenza è una categoria interpretativa piuttosto ampia, perché vi rientrano gli omaggi istituzionali e le cerimonie liturgiche, ma volendo anche certe dinamiche intorno alla costituzione di comitati di disastrati e talune interviste rilasciate ai mass media. Tutto ciò partecipa al mantenimento di una coerenza sociale che il disastro perturba insieme al territorio. Si tratta di pratiche ben documentate nei disastri geologici (sismi, eruzioni, frane) o riguardanti l’ecosistema naturale (incendi, xylella fastidiosa, scioglimento dei ghiacciai), ma che avvengono anche in caso di crisi sanitaria. Come evidenzia Giuseppe Forino (2020), sul piano politico e sociale un’epidemia è pienamente equiparabile ad una catastrofe; sebbene non devasti fisicamente il territorio, i suoi effetti sociali sono ugualmente scioccanti: la comunità viene squassata dalle morti improvvise e dallo sfollamento, e ciò causa sconcerto, disorientamento e ulteriore vulnerabilità.
Come negli altri disastri, anche in un’epidemia lo shock porta a eseguire dei “riti in emergenza”, ma con caratteri più complessi, perché il rischio di contagio tra umani aumenta con la prossimità. A questo proposito, è celebre il caso raccontato nei “Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, ossia la processione a Milano l’11 giugno 1630 contro la peste, che non fermò il morbo, ma addirittura ne favorì la propagazione in maniera esponenziale.
Tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio del 2020 mi sono domandato come potessero gli abitanti di Wuhan tenere unita la loro comunità – termine comunque problematico per una megalopoli di 11 milioni di abitanti –, evitando che al disastro sanitario ne seguisse uno sociale, in cui i rapporti si sfaldano e le relazioni si atomizzano. Poi ho incrociato un filmato commovente: i residenti di quella città cinese gridavano «Wuhan jiayou» dalle finestre, nel buio di una sera d’inverno, cioè «Wuhan resisti», per cui ho chiesto maggiori informazioni ad uno studente di mia moglie, originario proprio di quella città, e lui, che si trova in Francia da un paio di anni, ha saputo da amici e familiari che quel “coro” era il risultato di un appuntamento preso via-social. Ad una certa ora ci si affacciava tutti per incitarsi e, idealmente, abbracciarsi da un grattacielo all’altro. Anche in quella condizione estrema, dunque, la “comunità” tentava di non lacerarsi, per cui tesseva una trama di parole di sprone tra i condomini.
Fin quando l’epidemia Covid-2019 era lontana dall’Europa e dall’Italia, nel nostro Paese ci sono state reazioni molto varie, comprese delle storielle diffuse sui social che avevano la funzione di compattare intorno a valori comuni come l’antirazzismo (in difesa dei cinesi) e la cautela (per restare razionali dinanzi ad un fenomeno ancora largamente sconosciuto, all’epoca) (Lincos 2020). Poi però nell’ultima decade di febbraio il virus è arrivato anche nel Nord Italia, contagiando decine e poi centinaia di persone. In quei primi concitati momenti le autorità hanno rilasciato dichiarazioni in cui consigliavano di «limitare più possibile la socialità» (Ansa 2020) e, per quanto l’espressione “distanziamento sociale” sia inesatta e fuorviante, era comunque alquanto chiaro che le parole del sindaco di Milano intendessero invitare a mantenere una certa distanza fisica tra gli individui. In me, tuttavia, quel sollecito ha reso esplicito l’oggetto su cui avrei posto il mio interesse principale in quanto antropologo impossibilitato – come tutti – a effettuare osservazioni etnografiche dirette, ovvero come avremmo fatto a salvare la socialità; come avremmo preservato noi stessi come individui e il nostro essere comunità (locale, nazionale).
Immediatamente si sono registrati diversi atti di solidarietà, come quelli di alcuni pizzaioli che hanno regalato pizze a medici e infermieri della Lombardia e delle altre regioni da cui sono partiti i contagi; oppure come il bel gesto verso una paziente ricoverata in isolamento a Palermo, alla quale il reparto ha offerto dei dolci il giorno del suo compleanno; o, ancora, come in Penisola Sorrentina, dove una pasticceria e un fioraio hanno donato i loro prodotti sull’uscio del negozio. Un passaggio importante, però, è avvenuto con il decreto con cui dall’11 marzo il governo Conte ha dichiarato l’Italia intera “zona protetta”, imponendo a 60 milioni di persone la quarantena: dopo una prima reazione di sbandamento e smarrimento, quell’atto ha segnato un mutamento anche nella percezione collettiva, perché si è avuto un fiorire di attività che hanno reinventato il nostro stare insieme: la socialità, dunque, non è stata limitata, ma in un certo senso ne è emersa accresciuta, sebbene a distanza. È così che in pochi giorni tutte le scuole e le università del Paese hanno avviato la didattica online, i musei e le biblioteche hanno aperto i loro patrimoni digitali e i più anziani hanno imparato a video-chiamare con Skype o Whatsapp.
Il confinement ha limitato gli spostamenti e interdetto un certo numero di interazioni sociali, eppure tutti i servizi digitali utilizzati in quei mesi hanno permesso non solo di mantenere una continuità nella vita sociale e, per certi versi, di trasferirla nel proprio salotto invece che a casa di amici o nei luoghi pubblici, arrivando addirittura ad aumentare quel particolare tempo sociale e a creare paradossi interessanti. Come ha osservato l’antropologa Fanny Parise (2020) in un podcast francese,
«molti tra i miei intervistati hanno messo in pratica alcune strategie di evitamento dei tanti appuntamenti in videoconferenza e del dover essere costantemente disponibili all’interazione, che è più difficile da gestire quando ci si trova nel digitale: tutti questi “apèro-Skype”, questi “brunch-online”, queste riunioni-familiari-a-distanza mettono alla prova le convenzioni sociali, per cui non si sa ancora bene come rispondere a tutte le sollecitazioni, le quali possono essere recepite addirittura come ansiogene e non necessariamente conformi al tempo reale di cui dispone l’individuo».
In questo contesto, sono riemersi riti antichi o, in alcuni casi, ne sono stati escogitati di nuovi, ma soprattutto si sono adattati quasi tutti alle condizioni d’isolamento cui si era costretti. Da una prima messa in ordine della vasta raccolta di articoli, post, gallerie fotografiche e altri materiali che ho effettuato tra febbraio e maggio, tali “riti” si dividono in alcune macro-categorie, le quali tuttavia non vanno considerate né esaustive, né definitive, perché non di rado vi sono casi trasversali a più tipologie. Inoltre, particolarmente sfaccettato è l’elemento sonoro, che frequentemente è stato il fulcro di specifiche occasioni rituali.
Un primo gruppo riguarda “riti di continuità”, ovvero si è mantenuto il legame tra passato e presente per assicurare un nesso con il domani; la comunità non è formata solo dalla generazione attuale, ma anche dagli antenati e, soprattutto, dai posteri non ancora nati; in questo senso, il rispetto della ricorrenza garantisce la trasmissione del patrimonio identitario alla generazione a venire. Una settimana dopo l’inizio del confinamento nazionale e la sospensione di ogni attività liturgica, ad Ariano Irpino (Avellino), a Bari, a Taranto, a Palermo e in altre località i falò – o vampe – per san Giuseppe, nella notte tra il 18 e 19 marzo, sono stati accesi nonostante l’assenza fisica del pubblico dei fedeli in piazza. Una variante dei “riti di continuità” riguarda quelli che hanno recuperato cerimonie antiche, come l’esposizione eccezionale – possibile solo in momenti particolarmente drammatici – di reliquie e statue sacre che furono efficaci nel passato contro altre epidemie: è il caso del Cristo dei Miracoli nella basilica del Carmine a Napoli o del Crocifisso di San Marcello al Corso a Roma, che secondo tradizione avrebbe liberato dalla peste del 1522 (Nardecchia e Vecchiarelli 2020) e che su richiesta di Papa Francesco è stato fatto portare in piazza San Pietro il 27 marzo; oppure, ancora, è il caso delle reliquie di san Sisto ad Alatri, in provincia di Latina, o di santa Giustina a Bellusco, in provincia di Monza, o di san Rocco ad Anversa degli Abruzzi, in provincia dell’Aquila.
Una seconda categoria è quella dei “riti virtuali” che, tuttavia, spesso sono più propriamente una interessante ibridazione tra fisico e virtuale; inoltre sono di frequente anch’essi riti di continuità resi possibili grazie agli strumenti tecnologici contemporanei. Questi riti si sono rivelati gli unici fattibili nel caso dei funerali durante la quarantena, quando anche il pianto era confinato (Gugg e Valitutto 2020) e, come mostra il caso di Frosinone, per la chiusura dei cimiteri erano state organizzate delle preghiere via-Whatsapp. Inoltre, anche le liturgie canoniche hanno trovato una modalità espressiva di emergenza nei device informatici: le parrocchie si sono rapidamente organizzate per trasmettere la messa o la recita del rosario su Facebook o su YouTube, ma grande diffusione hanno avuto anche il video dell’arcivescovo di Napoli che si affida a san Gennaro o quello dell’arcivescovo di Milano che prega la Madonnina sul tetto del Duomo.
Parallelamente, in alcune località si è tentato di recuperare attraverso il web i riti pubblici pasquali, cancellati per evitare assembramenti: è avvenuto ad esempio a Forio, sull’isola d’Ischia, con la tradizionale Corsa dell’Angelo, o a Torino, con l’adorazione via-internet della Sacra Sindone. Una modalità particolarmente creativa, però, è stata la messa ideata da Giuseppe Corbari, parroco di Robbiano di Giussano (Monza e Brianza), che l’ha celebrata dinanzi alle panche della sua chiesa piene delle foto dei parrocchiani e trasmessa in diretta streaming. L’idea è stata poi riproposta da un sacerdote di Bastia, in Corsica, e da uno in Brasile, mentre è stata leggermente modificata dal vescovo ortodosso moldavo di Gesso, frazione di Zola Predosa (Bologna), che sui banchi della chiesa ha poggiato un ramo di olivo per ogni parrochiano, o dai prelati della cattedrale di Lima, in Perù, che il 15 giugno sulle panche hanno rimesso le fotografie, ma delle allora 5000 vittime del coronavirus.
Una terza tipologia raccoglie i “riti spaziali”, ossia che si sono svolti in maniera dinamica sul territorio e che possono essere sia “di continuità” che totalmente nuovi, ma in ogni caso con un sottotesto essenziale durante il periodo di chiusura del Paese: «siccome voi non potete uscire e le chiese sono chiuse, siamo noi prelati a portarvi sotto casa i vostri santi protettori». Nel primo caso rientra la processione della spada di san Michele, che l’8 aprile ha girato per le vie di Monte Sant’Angelo, sul Gargano, come nel 1656, quando si racconta che sconfisse il morbo. Similmente a Bologna, il vescovo e il sindaco hanno accompagnato la Madonna di San Luca in un itinerario volto a benedire città, pianura e montagna. In una seconda variante, invece, possono essere inserite le benedizioni effettuate da numerosi sacerdoti a bordo di automobili o, più di frequente, dai cassoni di camion e furgoni, come a Salerno, a Bibione, in provincia di Venezia, o in Catalogna e in molte altre zone interessate da culti cristiani: particolarmente emblematica è una processione di auto con crocifissi e bandiere fuori dai finestrini in una città ucraina, e in testa al corteo un sacerdote su un camion intento ad aspergere un incrocio con acqua benedetta. La benedizione itinerante, tuttavia, è avvenuta anche in modalità più spettacolari, ad esempio dall’alto di un elicottero a Panama e in Sri Lanka, ma anche a Padova, dove a bordo del velivolo, oltre a sant’Antonio, il 13 giugno c’era pure la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, seconda carica della Repubblica Italiana.
Un quarto gruppo riguarda i “riti sonori”, forse i più coinvolgenti ed efficaci sul piano della conservazione della socialità durante l’isolamento di decine di milioni di persone. Si tratta di una categoria trasversale, perché vi fanno parte pratiche sacre e laiche, contegnose e ludiche, di cui quasi tutti hanno probabilmente fatto esperienza. Un po’ ovunque è riemerso l’appuntamento quotidiano con le campane, spesso in sincrono in un intero territorio; come il 9 marzo in Abruzzo o il 25 marzo in tutta la Francia, oppure per ricordare un vecchio miracolo, come a Cava de’ Tirreni (Salerno), in cui il 12 marzo hanno suonato come nel 1656 contro la peste. Sul piano religioso sono innanzitutto sonore anche alcune cerimonie estemporanee sui tetti, durante le quali diversi parroci hanno celebrato messa e pregato attraverso megafoni e altoparlanti. La modalità più diffusa e letteralmente popolare è stata però quella dei cosiddetti “flashmob dei balconi”, quando, come a Wuhan all’inizio della pandemia, ci si è organizzati sui socialmedia per darsi appuntamento ad un determinato orario, così da cantare insieme dai propri appartamenti: delle tammorriate a Benevento e delle canzoni locali a Genova, a Siena, a Lecce… e poi l’inno di Mameli a Roma e altrove. In Francia alle 20:00 si applaudiva per ringraziare gli operatori sanitari, ma anche per salutare i dirimpettai che, sera dopo sera, sono diventati più “familiari” come non era mai accaduto prima incrociandosi in ascensore: in questo caso l’appuntamento sui social non era neanche più necessario, essendo diventato una consuetudine. Alcuni hanno proposto dei dj-set a tutto volume, mentre altri hanno suonato la tromba, la chitarra o la viola, come Cyril Boufyesse, dell’Orchestra Nazionale di Francia, che ha dichiarato: «C’era un’atmosfera speciale e molte persone sui balconi; talvolta dopo la musica alcuni restavano alla finestra con un drink e cominciavamo a parlare; esisteva un vero legame che non si sarebbe creato se avessimo continuato con la routine quotidiana precedente alla crisi» (cit. in Kubik 2020). In altre parole, la musica è stata una forma di resistenza all’atomizzazione, perché suonare e cantare insieme è un modo di sincronizzarsi con gli altri; il suono ha permesso di comunicare come una carezza è in grado di regolare il nostro umore: le campane hanno “igienizzato” e i cori, i concerti e gli applausi hanno occupato lo spazio che il virus aveva strappato al nostro incontrarci.
Come osserva Dimitris Xygalatas (2020), i riti emersi durante la pandemia forniscono un significato e rendono memorabili determinate esperienze, ossia sono una risposta all’ansia e uno strumento di resilienza che, come abbiamo visto, permettono una connessione tra le persone. Va aggiunta, però, anche una considerazione sull’uso dei riti in emergenza da parte del potere. L’organizzazione di un rito può partire (e spesso lo fa) dall’alto, ma anche quando parte dal basso (e ha successo) l’autorità può tentare di mediarlo. Per esempio in Francia le amministrazioni locali hanno incoraggiato i cittadini a partecipare all’applauso serale, chiedendo foto e video da condividere sui propri canali social (Dalla Casa 2020). Una vicinanza ancora più stretta tra riti in emergenza e personalità politiche si è vista in Italia, specie sul piano religioso, come nel caso del sindaco di Barrafranca (Enna), che ha affidato il suo comune al Crocifisso, o dell’intero consiglio comunale di San Cipriano Picentino (Salerno), che ha votato all’unanimità per la benedizione del paese, o, ancora, del sindaco di Cosenza, che ha esposto dal suo balcone istituzionale la sacra effige della Madonna del Pilerio. In questi casi, cioè, i riti fungono da strumento di rinnovo dell’ordine e le autorità – religiose e non – si servono della loro forza simbolica per ribadire il loro ruolo di guide.
Non sappiamo come evolverà e quanto ancora durerà la crisi sanitaria in Italia, in Europa e nel mondo, né quali eventuali ulteriori strategie di attribuzione di senso o di gestione del trauma le varie comunità elaboreranno, tuttavia è probabile che prima o poi emergerà una nuova esigenza, quella della commemorazione. Non abbiamo una memoria collettiva delle epidemie particolarmente profonda e duratura (Metitieri 2020), per cui è verosimile che si tratterà di commemorazioni locali o limitate ai parenti delle vittime del patogeno, come mostrano alcuni primi segnali: qualcuno propone un giorno del ricordo nella data del 18 marzo, ma altri hanno subito intorbidito la discussione indicando il 25 aprile, giorno della Liberazione.
Ad una scala più piccola, alcuni comitati cittadini stanno già procedendo alle commemorazioni: è accaduto ad esempio al cimitero di Borgo Panigale di Bologna, dove a metà agosto una compagnia teatrale e dei musicisti hanno reso omaggio in maniera artistica e delicata, all’alba, alle persone decedute e trasportate a marzo con i camion dell’esercito da Bergamo; oppure a Casalpusterlengo (Lodi), dove tante persone hanno raccolto l’invito di un’associazione locale e stanno contribuendo a formare un memoriale spontaneo con le pietre del fiume Po, posate a ricordo dei defunti del coronavirus e per «celebrare il funerale che non c’è stato» (Agi 2020).
Se qualcosa vogliamo imparare dal disastro pandemico del 2020, una messa in ordine dei ricordi, atta a favorirne la memoria collettiva, sarà necessaria; i tanti riti in emergenza che ci hanno aiutato ad affrontare l’incertezza e la paura dovranno auspicabilmente trasfigurarsi in riti di commemorazione, permettendo una ricorrente rievocazione di quanto accaduto e una sua perpetua elaborazione di senso. Il rito è un linguaggio intergenerazionale che comunica un insieme di informazioni sul modo di affrontare i rischi e che trasmette un sapere sulla natura di un luogo o di una condizione. Se vogliamo che i riti dei balconi non siano stati gesti effimeri e fini a se stessi dobbiamo augurarci che riescano a trasformarsi in quel patrimonio culturale a cui i nostri posteri potranno attingere nel momento in cui diventerà necessario affrontare una crisi del loro tempo.
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Riferimenti bibliografici
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Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia Culturale, è docente a contratto di Antropologia Urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Le sue ricerche si focalizzano sull’antropologia del rischio e sull’antropologia del paesaggio, riguardando soprattutto la relazione tra le comunità umane e il loro ambiente, in particolare quando si tratta di territori a rischio. È membro del LAPCOS (Laboratoire d’Anthropologie et Psychologie Cognitives et Sociales, Universitè Côte d’Azur di Nizza, Francia) e insegna in alcuni master Erasmus Mundus+. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Disasters in popular cultures (2019), Anthropology of the Vesuvius Emergency Plan (2019).
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