il centro in periferia
di Eugenio Imbriani
Vivo in un paese in prossimità di Lecce, a due passi dalla città, in una zona, peraltro, densamente popolata, perché le distanze tra i comuni si misurano in poche centinaia di metri, quando non sono del tutto inesistenti. Anche se tutti tengono alla loro appartenenza municipale, è scontato che ci si sposti normalmente all’interno di questo agglomerato per ogni esigenza.
E, comunque, il decreto del 9 marzo che ci imponeva di restare all’interno del feudo di residenza, non ha prodotto, mi pare, gravi situazioni di disagio, al di là delle famiglie direttamente toccate dalla malattia e dalla morte. Gli approvvigionamenti non sono mancati. Nel mio paese non si sono registrati casi di contagio, in quelli vicini sì, seppure in numero contenuto, e tuttavia la paura è stata una buona regolatrice dei comportamenti.
Sono stato colpito dalla coincidenza tra il periodo di maggiore diffusione del covid 19 e la quaresima, tempo una volta privilegiato dei pensieri sulla sofferenza e la morte. Mi è tornata alla mente la mia infanzia tormentata dalle immagini truculente di una pietà poco consolatrice: «O Gesù mio, le sacre mani, chi con chiodi ti trapassò? / Sono stato io, l’ingrato, o Dio mio, perdon, pietà»; io non avevo fatto niente dal genere, ma bastava poco per essere accusati di deicidio: toccare del cibo proibito in quel tempo dell’anno, saltare una funzione religiosa, compiere un qualsiasi atto di seppur minima ribellione ai genitori e ai superiori (si diceva così), tutto avrebbe avuto delle conseguenze terribili. Avevo il futuro segnato dalla condanna, con tutti, pressappoco, i miei correligionari.
Nel paese in cui vivo ci sono due fornai, tre tabaccai, due modesti supermercati, un negozio di generi alimentari, uno di prodotti per l’igiene e per la casa, due fruttivendoli, le cui attività sono rimaste aperte: quindi, inevitabilmente erano i luoghi di incrocio dei cittadini a caccia di beni necessari, non c’erano alternative, per cui sarebbe bastato poco a consentire al virus di spargersi nelle famiglie. È andata bene. Nei primissimi giorni mi preoccupava seriamente il fatto che, per manifestare reciproca solidarietà, alle sei del pomeriggio i vicini, spinti dal genio italico, aprivano finestre e balconi e attaccavano con la musica ad alto volume, da discoteca, in genere; o, peggio, se è possibile, con qualcuno degli inni nazionali in adozione, il cielo è seeempre più bluuu, felicità, siam pronti alla morte, we are the champions. Il numero di morti deve aver strozzato qualche voce in gola e forse hanno capito che non era il caso di insistere.
Il santo patrono del mio paese è Gesù Crocifisso; si racconta che nel 1848 una terribile epidemia si era diffusa, e non si contavano i morti e i malati. Le preghiere non smuovevano la Madonna, all’epoca protettrice, e quindi il parroco decise di rivolgersi direttamente al grande Crocifisso appeso in un altare laterale, il simulacro fu fatto scendere dall’altare e portato processionalmente in giro per le vie, il miracolo si verificò al suo passaggio, nelle case i malati stettero meglio e guarirono. Il nucleo centrale della festa patronale (prima domenica di luglio) si compone di due momenti fondamentali: il solenne spostamento della croce dall’altare (discesa della croce la sera del sabato precedente) e la processione per le vie con la statua del santo la sera della domenica.
Nel pieno dell’emergenza, su un gruppo social paesano è apparsa la proposta di un devoto di rifare, appunto quella processione miracolosa; fortunatamente l’idea non ha trovato consenso. Il parroco, non so se spinto dalla stessa ispirazione, è salito sul tetto della chiesa matrice con un crocifisso più maneggevole e lo ha sollevato in alto mostrandogli il paese deserto; era accompagnato da qualcuno che ha filmato la scena e l’ha postata.
In una quaresima senza riti partecipati, la chiesa non rinuncia alla produzione di gesti simbolici. Di più: il 25 aprile il vescovo è venuto in paese (immagino con l’autocertificazione in regola), con un manipolo di religiosi e ha celebrato una messa compreso il rito della discesa della croce; il Crocifisso miracoloso è stato quindi portato processionalmente, attraverso la chiesa, sul sagrato dove è stata impartita la benedizione al paese, presenti il sindaco e il capo dei vigili rigorosamente sull’attenti.
Io aspetto la narrazione successiva di questo avvenimento, vedremo come verrà presentato. Quaresima e Pasqua senza riti partecipati, dicevo, con la nuova abitudine, presto acquisita, di seguire messe e liturgie in televisione o in streaming. Assai più strana, per me, è stata la rinuncia ad accompagnare i morti, la necessità di accettare che se ne andassero e basta, portati via da estranei, senza visite e cordoglio condiviso, sottratti ai vivi quasi senza mediazioni.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
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Eugenio Imbriani è professore associato di Antropologia culturale e Storia delle tradizioni popolari presso l’Università del Salento (Lecce) e afferisce al Dipartimento di Storia, società, studi sull’uomo. I suoi interessi sono orientati allo studio del folklore, ai temi della cultura popolare, della scrittura e dell’esperienza etnografica, ai rapporti tra memoria e oblio nella produzione dei patrimoni culturali e delle identità locali. Ha prodotto numerose pubblicazioni, monografie, saggi apparsi su riviste, in volumi collettanei, atti di convegni; è direttore della rivista “Palaver”; dirige la Sezione etnografica del Museo Civico di Giuggianello (Le). Ha conseguito l’abilitazione nazionale alla prima fascia della docenza.
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