«La conoscenza è posizionata, non trascendente; essa deve essere impegnata, non astratta». Rifiutando la pretesa neutralità delle scienze sociali, l’etnografo canadese Dwight Conquergood (2002: 149) automaticamente coinvolgeva i sensi, le emozioni e le esperienze personali come parte fondamentale del percorso conoscitivo, riconoscendo un enorme valore alla dimensione esperienziale e politica dell’incontro con i soggetti della ricerca. La conoscenza, quindi, «è forgiata dalla solidarietà con le persone, non dalla separazione da esse» (ibid).
La poetica etnografica di Conquergood richiamava la riflessione gramsciana sulla aderenza tra passione e conoscenza: «L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato […] cioè senza sentire le passioni elementari del popolo» (Gramsci 1971:134-135). La linea di pensiero che unisce Gramsci ai maestri dell’antropologia della performance si ascrive a una corrente minoritaria, sebbene persistente in seno agli studi sociali, la quale persegue come obiettivo epistemologico la prossimità, piuttosto che l’obiettività. A tale scuola di pensiero aderisce Santino Spinelli, poeta, musicista e accademico rom italiano.
Il suo libro Rom, questi sconosciuti. Storia, lingua, arte e cultura e tutto ciò che non sapete di un popolo millenario, edito da Mimesis (2016) è frutto di oltre vent’anni di ricerca dell’autore, dedicati alla difesa e alla promozione della civiltà romanì, e alla denuncia dei pregiudizi e della secolare ghettizzazione subiti da Rom, Sinti, Kalé, Manouches e Romanichals (i cinque gruppi che costituiscono la popolazione romanì, divisi in ulteriori sottogruppi a seconda delle originarie aree di insediamento in Europa).
La scelta riflessiva dell’autoetnografia non dipende da tendenze postmoderne. A sentire Spinelli, l’unico modo per parlare della cultura romanì in modo appropriato in Italia è che siano i Rom e Sinti stessi a parlare di sé; altrimenti si lascia il campo alle mistificazioni dei media e degli esperti ufficiali, che Spinelli in genere classifica nella categoria dei ‘ziganidioti’: «coloro che mistificano la realtà romanì, rafforzando stereotipi e pregiudizi a fini personali». In questo senso, l’opera costituisce una sorta di anno zero nella romanologia italiana: Rom, questi sconosciuti tratteggia dall’interno un’enciclopedia della cultura romanì e del discorso che le agencies ufficiali europee fanno su di essa, dalla preistoria del popolo Rom nella valle dell’Indo fino alle speculazioni sui campi nomadi di Mafia Capitale. Il progetto è molto ambizioso, e sicuramente presenta dei limiti, soprattutto per il lettore non specialista. Ad ogni modo, l’idea ha uno straordinario valore extraletterario: il libro costituisce un invito alla conoscenza diretta, decostruisce stereotipi e preconcetti dell’immaginario comune dell’europeo medio, spinge chi legge a chiedersi il perché della propria totale ignoranza riguardo alla più numerosa minoranza etnico-linguistica in Europa – e anche in Italia, se si escludono sardi e friulani.
Il libro funziona anche in senso opposto: l’autore si rivolge ai giovani Rom e Sinti italiani, proponendo loro un manuale di orgoglio romanò, valido per tutti coloro che vivono con vergogna la propria identità culturale, oppressi dall’intolleranza e dallo stigma sociale che spinge tanti cittadini europei di etnia romanì a nascondere la propria origine. Il testo mette in luce i trionfi culturali di un popolo di più di dodici milioni di individui, i cui membri sono tanto abituati a essere trattati come la “serie Z” dell’Europa che alcuni di essi hanno finito per convincersene.
Il saggio è scritto in prima persona: nelle oltre cinquecento pagine riecheggia il grido di dolore di un’umanità disgraziata, di un popolo senza terra, costretto a errare per tutti i continenti, emarginato e per- seguitato in tutti i Paesi che attraversa. Spinelli riversa nel testo la rabbia per la gogna mediatica senza appello a cui il suo popolo è condannato, e sfoga la profonda indignazione per un sistema istituzionale che ignora ogni voce critica proveniente dal mondo romanò e preferisce interloquire con “marionette” compiacenti che speculano sul degrado. Ciononostante, il libro è lontano dal piagnisteo e dall’autocommiserazione: le tribolazioni delle comunità romanès scivolano sulle pagine, senza intaccare l’identità culturale di un popolo che ha saputo mantenersi fedele a se stesso lungo secoli di persecuzioni. Rom, questi sconosciuti è prima di tutto un inno alla romanipé, l’orgogliosa identità culturale romanì, che per Spinelli è il primo valore da difendere per garantire dignità al popolo Rom e per preservare il suo immenso patrimonio culturale nell’immediato futuro.
Il rigore scientifico del testo non ne esaurisce la forza semantica, che oltrepassa i limiti della circolazione accademica. La scrittura etnografica si concentra nella descrizione del bućhvibbé, la serenata d’amore tipica dei Rom italiani di antico insediamento. L’analisi storico-linguistica viene impiegata per tracciare origini storico-geografiche e percorsi dei popoli romanés dalla valle dell’Indo fino alla diaspora europea. Il lavoro d’archivio e la raccolta delle storie orali ricompongono le dinamiche delle relazioni tra genti romanés e Stati europei dal Rinascimento ad oggi, e ricostruiscono la tragica vicenda del Porrajmos, il genocidio nazifascista. Tuttavia, nessuno di questi approcci metodologici costituisce la struttura dell’opera. Il senso è un altro: diffondere la romanipé nell’era della globalizzazione, aprire il romanòthèm (l’universo culturale Rom) verso l’esterno, spezzare la secolare riservatezza e diffidenza che hanno permesso alla lingua e cultura romanì di resistere, rendendole invisibili, impenetrabili all’interno delle comunità. Oggi, mantenere segreto il patrimonio culturale di un popolo significherebbe farlo scomparire.
Spinelli si propone un obiettivo ambizioso: ribaltare un’attitudine esistenziale vecchia di secoli, cambiare strategia di fronte alle nuove sfide della contemporaneità, sempre in nome della romanipé, della difesa dei valori culturali romanés. A fronte del difficile compito, Santino Spinelli presenta un profilo personale di grande levatura: etnomusicologo, cattedratico di Lingua e Cultura Romanì presso varie università italiane, è altresì fondatore e presidente dell’associazione Thèm Romanò, la prima organizzazione culturale di Rom e Sinti in Italia. All’impegno accademico e all’attivismo culturale, Spinelli affianca una brillante carriera da musicista, che lo ha portato a eseguire le sue composizioni alla presenza di papi e statisti, e a patrocinare un festival internazionale di musica, arte e letteratura a Lanciano, giunto quest’anno alla sua ventitreesima edizione. Spinelli è anche autore di vari libri di poesie; il suo componimento Auschwitz è inciso sulla parete del Roma Memorial, il monumento eretto a Berlino nel 2012 alla memoria delle vittime romanés dello sterminio nazifascista. Il largo credito di cui l’autore gode in Italia e all’estero costituisce l’ideale cassa di risonanza per il suo messaggio; d’altra parte, la sua carriera fornisce un valido esempio di come un Rom possa vivere da protagonista nel gaćkanòthèm (il mondo di fuori, dei non-Rom) pur mantenendo intatta la propria romanipé.
Rom, questi sconosciuti si rivolge a un pubblico culto, predisposto al confronto e aperto verso il diverso. Difficilmente troverà lettori nei campi nomadi, tra i Rom fuggiti dal genocidio nei Balcani o dalla miseria negli altri Paesi dell’ex blocco sovietico; eppure, sotto molti aspetti, questo libro è scritto anche per loro. Spinelli non prende le distanze, non distingue tra i gruppi del suo popolo, non nasconde gli aspetti scomodi della storia che racconta. L’autore si dichiara solidale con la rabbia della sua gente, mostra in prospettiva anche la criminalità, la truffa e il furto ai danni dei Gagé (non-Rom) come conseguenze della miseria e dell’oppressione, così come lo sono l’accattonaggio e l’erranza coatta scambiata per nomadismo. Non giustifica, né condanna.
«La discriminazione crea stress psicologico, frustrazione ed emarginazione che espone facilmente alla devianza, che è il primo gradino verso le attività di rilevanza penale. È un circolo vizioso che ha come base la negazione dei diritti umani più elementari. Ogni italiano senza casa, senza lavoro, senza assistenza sanitaria e senza scolarizzazione sarebbe un potenziale criminale. È un fenomeno sociale che non ha nulla a che vedere con la cultura, ma viene favorito da meccanismi politici e dalle decisioni di chi detiene il potere nelle istituzioni».
Spinelli comprende le emozioni della sua gente, le ha vissute sulla sua pelle e le restituisce su carta con pienezza. Incarna il modello dell’intellettuale gramsciano, il cui ‘sapere’ è intriso di passione civile, e che può quindi parlare ‘in rappresentanza’ della sua gente, connettendo i sentimenti del popolo «in una concezione del mondo scientificamente e coerentemente elaborata». Queste ultime cinque righe potrebbero suonare retoriche e datate se riferite a un qualunque altro accademico europeo; sono molto meno retoriche, a mio parere, se ci riferiamo a una popolazione che ovunque si trovi – e l’Italia conferma in pieno tale regola – è posta al gradino più basso della scala sociale, estromessa dalla vita civile e politica, ultramarginalizzata nella geo-economia urbana, guardata con disprezzo da tutte le altre componenti della società. Per i Rom, ancora di più che per gli afroamericani o i Black Britons, l’origine etnica corrisponde alla subalternità di classe. Un Rom è alla nascita un sottoproletario, che si tratti di Zlatan Ibrahimović o di una delle decine di migliaia di persone in Italia costrette dalle ruspe a cambiare continuamente il luogo dove abitare. Il fatto che uno di loro abbia scritto un libro che parla proprio di queste cose rappresenta una conquista collettiva.
Il saggio ricapitola le teorie sull’origine indiana dei popoli Rom, i passaggi attraverso la Persia e l’Impero Bizantino, e poi l’arrivo in Europa a partire dal XIII secolo. E lì, da subito, iniziano le persecuzioni, i bandi di espulsione, le ostilità. Leggo le pagine di Spinelli, le confronto con le mie esperienze con i Rom Xoraxané al campo di Viale del Fante a Palermo, e mi chiedo cosa provochi il rifiuto categorico da parte della civiltà europea, in ogni situazione storica, politica e sociale, di fronte all’umanità romanì. Spinelli non dà una risposta: legge la storia dalla prospettiva Rom e accusa il colonialismo europeo e la sua brama di omologare e assoggettare il diverso, l’incapacità degli Stati europei di accettare la realtà culturale sovranazionale del popolo romanó, l’arroganza repressiva delle istituzioni occidentali, l’asfissiante brutalità del capitalismo che pretende di assoggettare a sé i ritmi esistenziali degli individui.
Proprio la concezione del lavoro, il suo valore socioculturale, credo sia uno scarto importante, che esprime tutto il potenziale sovversivo della cultura romanì in Europa e la sua irriducibilità alle culture maggioritarie: «Il lavoro (i buti) nella cultura romanì tradizionalmente non ha altra funzione che quella del sostentamento, in nessun modo deve privare un individuo del tempo da dedicare alla propria famiglia e allo sviluppo dei rapporti sociali». Basta questo, per rendere i Rom un’anomalia. L’Europa fonda il suo potere sulla consacrazione dell’individuo al lavoro, sull’accumulo del risparmio, sull’iperproduzione. Il lavoro è stato consacrato a essenza della funzione sociale dell’individuo, attraverso l’etica cristiana ora et labora fino alla produttività borghese, che con la Rivoluzione Francese celebra il suo trionfo sull’aristocrazia oziosa e spiana la strada al capitalismo industriale.
Il lavoro sancisce lo status sociale, e permette di sbandierarlo; l’aumento della disoccupazione in epoca postindustriale, il precariato e la mobilità, non fanno che rafforzare il culto del lavoro, qualunque esso sia, trasformandolo in ragione di vita e conditio sine qua non dell’affermazione dell’individuo. La crisi dei valori non tocca il lavoro, che continua a dare una soluzione a sé irrisolti, e fornisce una scusa socialmente accettata per occupare tempi e spazi e altri vuoti esistenziali che non si saprebbero riempire altrimenti. Valore fondante del nostro Occidente è il compiacimento del lavoro, l’abbarbicarsi al posto nella società sancito dal proprio impiego, unito alla filosofia del sacrificio, del portare il pane a casa, del fare tutto per i figli, dell’essere impegnati a produrre o del fingere di esserlo. Tutte le classi sociali celebrano il mito del lavoro: dagli ultimi sopravvissuti del sindacalismo di sinistra alla borghesia dei parvenu arricchitisi nel Dopoguerra, ai precari della Generazione Y che procrastinano ogni definizione di se stessi in attesa del raggiungimento del ‘posto fisso’, ai giovani sfruttati di lusso del mercato finanziario e alle vittime del workaholism antisociale.
La cultura romanì, invece, non offre alcuna libagione al dio lavoro. Il lavoro è un mezzo di sostentamento: si lavora quanto serve per vivere, e si considera attività lavorativa qualunque fonte di reddito, financo l’elemosina quando non si possa fare altrimenti. I Rom si mantengono restii all’organizzazione del lavoro capitalista anche quando l’alternativa è la miseria, e contrappongono la loro etica di semplice edonismo al dominio del consumismo.
La resistenza all’assimilazione viene letta come antivalore: la cultura romanì viene percepita come alternativa insopportabile, un modello umano agli antipodi rispetto all’ordine costituito. Ecco perché hanno gioco facile la manipolazione mediatica e le speculazioni politiche: l’opinione pubblica europea non ha a cuore le sorti del popolo romanó. Se la gente non si indigna dell’esistenza dei campi nomadi, non è solo a causa della cattiva informazione. La gente ha paura dei Rom, a prescindere dagli stereotipi sulla criminalità, proprio perché la loro cultura mette in ridicolo la nostra, ci fa interrogare sul senso di ingranaggi cognitivi che non vorremmo mettere in questione. E l’unica risposta che la civiltà europea sa dare di fronte all’altro è la violenza, l’annientamento, il giogo.
Nei suoi testi, nelle sue conferenze, nei suoi concerti, Spinelli non fa altro che parlare della persecuzione senza quartiere dalla quale i Rom fuggono instan- cabilmente, e denuncia il complotto mediatico vecchio di secoli che legittima la romfobia. «Sul mondo romanó dal Rinascimento ad oggi si è imposto uno sguardo deformante e mistificatorio»: sono queste le parole con cui si apre il saggio, e tale accusa costituisce il leitmotiv dell’intera opera. In alcuni passaggi del testo la dicotomia Rom vittime/Gagé persecutori viene ripetuta come fosse un paradigma strutturale, senza approfondire le dinamiche puntuali e le variazioni storiche. Ciononostante, il quadro che se ne ricava è quello di una cultura in stato d’assedio, e le prove addotte sono estremamente convincenti.
Cosa ha permesso ai Rom di non venire assimilati? Cosa gli ha consentito di continuare a vivere a modo loro nel cuore dell’Europa, senza avere eserciti, senza un’istituzione religiosa unitaria né una rete economica rilevante? Spinelli non ha una risposta definitiva. Elogia la resistenza e l’adattabilità del suo popolo, ed evoca la forza della romanipé, che ha preservato l’identità romanì, al tempo stesso scavando un confine di invalicabile alterità con chiunque al di fuori di essa.
Proprio nell’ambivalente attitudine romanì nei confronti di un tabù della società europea quale la pratica della questua si può leggere una grande arma della romanipé: il netto dualismo fuori/dentro permette agli uomini e alle donne romanés di mantenere intatti onore e fierezza all’interno del proprio gruppo pur accettando le umili condizioni esistenziali offerte dalla società ospitante. I Rom vivono ai margini: è nell’emarginazione che hanno trovato lo spazio per esprimersi, la libertà di essere se stessi e di odiare i propri nemici, resistendo.
Ma l’autore ci dice che la battaglia per l’affermazione della diversità è lungi dall’essere vinta, e che la cultura Rom e Sinta italiana sta scomparendo sotto i colpi del mancato riconoscimento ufficiale e dei processi omologativi del Dopoguerra italiano. Le istituzioni europee stentano ancora a sancire l’accesso del popolo Rom ai diritti umani senza ambiguità, e nel frattempo interessi economici illeciti e forze politiche reazionarie continuano a battere sul tamburo dei pregiudizi.
Quella di Santino ‘Alexian’ Spinelli è una battaglia dura: dare voce al popolo reietto, combattere il pregiudizio più incistato nel sentire comune degli europei, siano essi benpensanti o meno. Chi legge questo articolo è probabilmente immune da pregiudizi negativi riguardo il popolo romanò, e magari prova una certa solidarietà con la sua causa. Ma se allarghiamo lo sguardo appena oltre il consesso umanistico, la tziganofobia dilaga, senza dare segni di cedimento. Lo dimostra una semplice analisi storico-linguistica dell’eteronimo con cui le comunità romanés vengono designate. Etnonimi come ‘Rom’ e ‘Sinti’ continuano ad essere termini tecnici; la gente li chiama zingari. Per estensione, ‘zingaro’ si usa nel linguaggio comune come insulto, sinonimo di straccione, miserabile, truffatore, indecoroso. Applicato a un intero popolo, la chiara accezione dispregiativa del termine concretizza l’immagine di chi è peggiore di noi, per quanto brutti, cattivi e poveri possiamo essere. È un’immagine che serve, perché attenua le tensioni sociali, e fa sentire meglio il sottoproletariato urbano e gli altri emarginati dalla società capitalista: gli zingari sono gli unici che li mantengono parte di un consesso civile che per il resto li esclude ferocemente. Tra i bambini che giocano nei padiglioni dello ZEN II, ‘zingaro’ è l’insulto peggiore che si possa lanciare.
Il termine resiste anche nei discorsi politici della destra ufficiale, pur essendo lo stesso che veniva usato nelle ordinanze di sterminio nazifasciste. Il parallelismo non è retorico: la continuità è ancora più stridente se paragonata allo scarto linguistico che si è reso necessario in altri casi. Immaginiamo che una compagine politica, qualunque sia l’orientamento dei suoi elettori, si riferisca ai cittadini italiani di religione ebraica chiamandoli ‘giudei’, o agli omosessuali come ‘invertiti’: sarebbe una gravissima scorrettezza politica, l’opinione pubblica si indignerebbe. Nessuno batte ciglio, invece, quando si tratta di zingari. Nonostante più della metà dei 180mila Rom e Sinti presenti in Italia siano cittadini a pieno diritto e discendano da comunità che si sono insediate nel Paese durante il XV secolo, essi continuano a essere percepiti come stranieri. L’attitudine generale nei loro confronti resta sostanzialmente quella della propaganda fascista, che considerava i Rom sospetti per “natura intrinseca”.
Spinelli ripercorre passo dopo passo settecento anni di razzismo di Stato in Europa e in Italia, e il dato che risalta dalla disamina è proprio la sostanziale uniformità del modo di trattare il popolo romanò dal Trecento a oggi. Dai bandi dei comuni medievali che cacciavano i gitani si arriva senza soluzione di continuità alle deportazioni di cittadini Rom rumeni attuate dal governo Sarkozy in Francia. Dagli arresti e dai roghi dell’Inquisizione si transita nei campi di concentramento nazifascisti, per arrivare agli attuali campi nomadi.
Come sempre, dietro ai pregiudizi razzisti si mascherano interessi economici: Spinelli protesta con forza contro lo scandalo del denaro pubblico sperperato nella gestione dei campi nomadi – che definisce «uno strumento politico di annientamento culturale» – e nei continui sgomberi e rilocalizzazioni di decine di migliaia di Rom e Sinti in Italia, di cui vengono impunemente lesi i fondamentali diritti umani e civili. In generale, Spinelli denuncia con grande lucidità il losco giro di affari che ogni anno mette in circolo decine di milioni di euro per ‘far fronte all’emergenza Rom’. Il testo accusa l’associazionismo sociale e la politica collusa con la mafia di speculare sulle comunità romanés e di contribuire a mantenere le loro condizioni di vita disastrose per alimentare il proprio business. La cronaca conferma alla lettera le accuse di Spinelli, nonostante le sue parole siano rimaste inascoltate per anni, durante i quali le istituzioni hanno preferito interloquire con i professionisti del ‘problema Rom’ e con i malavitosi delle comunità romanés piuttosto che interrogare queste ultime sui propri bisogni e favorirne la reale integrazione e la valorizzazione del patrimonio culturale.
Ci sono tanti ostacoli ancora disseminati sul laciod rom, il ‘buon cammino’ del popolo romanò. Tanti hanno interesse a che le condizioni delle comunità romanés continuino a peggiorare; tantissimi restano indifferenti e non provano alcuna empatia per un modo di vivere che non capiscono. Santino Spinelli lavora in senso opposto: invita il suo popolo ad aprirsi e ad avere fiducia nei propri valori e nelle proprie eccellenze, e continua la sua opera instancabile di divulgazione della cultura romanì, scommettendo sulla curiosità, sulla vivacità culturale e sull’intelligenza di chi lo ascolta, mettendo la sua arte al servizio della causa. Una grande risorsa di Spinelli è la sua capacità di aprire gli orizzonti delle rivendicazioni romanés verso questioni sociali più ampie, di mettere le sue battaglie in relazione con altre lotte civili e politiche volte all’inclusione, alla giustizia sociale, ai diritti dei migranti e degli emarginati. Questo libro ne è una prova: la prefazione è scritta dal suo amico Moni Ovadia, che affratella il popolo romanò e quello ebreo nel comune destino di sofferenza, e amplifica lo sdegno di fronte alle discriminazioni subite dai Rom nell’Europa di oggi: «persino l’Europa, che ha conosciuto la più spaventosa pestilenza razzista della storia». Le tribolazioni del popolo Rom sono accomunate alla tragedia della Shoah: speriamo che ciò serva a rinfrescare le sinapsi nervose dell’opinione pubblica, e a stimolare finalmente accostamenti di immagini più che ovvi, ma che tali non sono nel conformismo dilagante del postpensiero e della sensibilità collettiva che si commuove a (tele)comando.
Rom, questi sconosciuti è una mirabile opera scientifica, uno straordinario atto di passione civile, un prezioso contributo intellettuale alla cultura e alla coscienza critica italiana. Inoltre, rappresenta l’ennesima astuzia del popolo Rom, capace di reinventarsi senza sosta e di sfidare i sistemi dominanti grazie al proprio eclettismo, alla polisemia e alla grande elasticità culturale. E se è vero che «nulla accade casualmente e tutto segue la logica funzionale al gioco di potere», la presenza di un attivo intellettuale Rom nel panorama italiano testimonia che accanto alla vecchia demagogia della “ruspa come strumento di democrazia” esistono tendenze culturali nuove e si fanno largo voci che hanno tante cose da dire. Butbaxttasastipé, Santino!
Dialoghi Mediterranei, n.24, marzo 2017
Riferimenti bibliografici
Conquergood, Dwight (2002), Performance Studies: Interventions and Radical Research, The Drama Review, 46: 2, 145-156.
Gramsci, Antonio (1971), Il materialismo storico, Roma, Editori Riuniti.
Meschiari, Matteo (2016), Artico Nero. La lunga notte dei popoli dei ghiacci, Roma, Exòrma Edizioni.
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Eugenio Giorgianni, laureato in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha recentemente completato il Master of Arts in Visual Anthropology presso The University of Manchester. Tra il 2011 e il 2012 ha condotto, con il supporto della Universidad de Granada, una ricerca etnografica presso la comunità dei migranti in transito a Melilla (Spagna africana). Tra i suoi interessi di studio temi e questioni relativi all’antropologia dello spazio. In questa direzione ha condotto una ricerca sul quartiere palermitano di Ballarò.
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