Un fattore di novità da registrare sul terreno delle relazioni economiche è l’ingresso nel Mediterraneo dei colossi russi del gas e del petrolio. Negli ultimi anni, alcune importanti società multinazionali russe hanno acquisito in vari Paesi mediterranei concessioni per la ricerca e la produzione d’idrocarburi, quote di partecipazione in società locali di raffinazione e di commercializzazione. In Italia, l’operazione più rilevante è stata quella realizzata dalla Lukoil con l’acquisto della maggioranza delle azioni della raffineria Isab di Priolo (Siracusa). Tuttavia, il dato, forse, più preoccupante per la concorrenza è stato l’ingresso di Gazprom, il più grande colosso mondiale del gas, in Algeria sulla base d’impegnativi accordi con la Sonatrach mirati alla realizzazione di nuove infrastrutture di trasporto del gas e alla unificazione, sotto le insegne di Gazprom, dell’offerta commerciale delle produzioni gasiere algerine. I russi volevano associare a questa impresa anche la Libia di Gheddafi e, a tal fine, avevano avviato promettenti contatti e studi preliminari.
Appare chiaro, specie agli occhi della concorrenza occidentale, che qualora tale progetto fosse stato attuato avrebbe sicuramente modificato gli equilibri sul ricco mercato europeo del gas, a favore dei nuovi soggetti e a danno degli operatori tradizionali. L’insurrezione di Bengasi e il micidiale intervento “umanitario” di alcuni paesi della Nato hanno fatto saltare anche tale progetto. Difficilmente Gazprom potrà entrare nella Libia del dopo Gheddafi, almeno con tali ambizioni e programmi.
Tuttavia, il colosso russo sembra intenzionato a realizzare gli accordi con Sonatrach (riproposti agli inizi del 2013) anche per ciò che riguarda la costruzione del gasdotto trans-sahariano, lungo oltre 4.100 km, che dovrebbe trasportare 30 miliardi di metri cubi annui di gas dalla Nigeria alla costa mediterranea d’Algeria e da qui sarà distribuito in Europa. Ne ho scritto anni fa.
«Oggi c’è un gran movimento nel mercato mondiale del gas, e in quello europeo in particolare. L’ultimo importante evento è stato l’accordo fra i due principali fornitori della Ue, il colosso russo Gazprom e la Sonatrach algerina, destinato a influenzare l’andamento dei flussi e il mercato interno europeo e a controllare direttamente anche settori della distribuzione interna. Peraltro, fra le ragioni della sua stipula c’è probabilmente anche la volontà di scoraggiare eventuali tentazioni di esportare in questi Paesi la “democrazia” anglo-americana sulla punta dei cannoni».[1]
Ancora. «Mentre si marcia, a tappe forzate, per realizzare due rigassificatori in Sicilia per importare e trattare, prevalentemente, il gas nigeriano, sappiamo che nello scorso marzo, a Parigi, l’EuroArab gas Forum ha preso accordi per realizzare il progetto del gasdotto transahariano (valore circa 13 miliardi di dollari) che da Brass (Nigeria) giungerà a El Kala, sulla costa algerina, con probabile derivazione verso la costa libica».[2]
Questa del collegamento dei giacimenti nigeriani alla costa mediterranea è una (nostra) vecchia idea che, circa 30 anni fa, proponemmo, per conto del Pci, al governo italiano, con una interpellanza parlamentare a firma di vari deputati comunisti, fra cui il capogruppo Fernando Di Giulio, Luciano Barca e il sottoscritto. Purtroppo, il governo la fece cadere senza una spiegazione e l’Eni continuò a importare gas nigeriano con le navi metaniere. Per altro, a quel tempo, tale progetto appariva più fattibile giacché la situazione nei Paesi di attraversamento del “tubo”, era meno pericolosa di quella attuale, tormentata da tensioni e conflitti che si sviluppano lungo l’intero tragitto, con particolare violenza nelle aree di estrazione e nel Nord della Nigeria.
Il progetto conserva la sua validità proprio per il suo alto grado d’interdipendenza, reciprocamente vantaggiosa, fra tutti i Paesi interessati. Anche in questo caso si ripropone un vecchio dilemma: interdipendenza o guerra. Non c’è dubbio che l’interdipendenza, concepita come cointerissenza fra i popoli, vincola gli Stati alla solidarietà e garantisce la pace e il co- sviluppo. Nel caso della Libia, come in precedenza in quello dell’Iraq e, domani chissà, in Siria o in altri Stati canaglia (a proposito: si può consentire l’uso di siffatta terminologia?), l’interventismo occidentale si spiega per esigenze generali geo-strategiche e per il controllo dei rifornimenti di petrolio e di gas e delle lucrose commesse generate dalla parte libica. Lo strumento militare di tale politica è l’organizzazione della Nato che è fuoriuscita dal suo ruolo istituzionale e geopolitico.
Specie dopo il 2003, tutte le principali potenze (dalla Russia agli Usa, dalla Francia all’Italia, dalla Gran Bretagna alla Cina) hanno intrigato per controllare le enormi riserve libiche d’idrocarburi (il 4% delle riserve mondiali di petrolio) e la loro commercializzazione. Perciò la coerenza politica, l’etica sono andate a farsi benedire e tutti sono corsi alla Fiera di Tripoli. A tali priorità sono stati piegati i ruoli dei governi e della stessa diplomazia che, ormai, sembrano prendere ordini direttamente dalle multinazionali e dai potentati finanziari. Certo, il Colonnello non era un asceta, un benefattore dell’umanità; anzi, specie, nel secondo ventennio del suo potere, ha agito con i metodi tipici del moderno satrapo orientale. Tuttavia, puzzano d’ ipocrisia le posizioni assunte da eminenti personalità della politica e della cultura, da direttori di prestigiosi quotidiani i quali, magari dopo averlo per anni blandito, intervistato, hanno giustificato la guerra della Nato e perfino la barbarie della sua morte. Dimenticando che la nostra civiltà giuridica occidentale garantisce (o dovrebbe garantire) un processo di giustizia anche ai più efferati criminali politici e/o comuni. Dimenticando anche che Gheddafi, con l’operazione Jerusalem del 1° settembre del 1969, rovesciò la corrotta e assolutista monarchia senussita senza spargere una goccia di sangue e che costruì un regime sostanzialmente “autonomo” rispetto alle mire delle superpotenze, a beneficio della sovranità nazionale libica. Gli stessi rapporti con l’Unione Sovietica e con alcuni Paesi arabi amici (compreso l’Egitto di Nasser) non furono di sudditanza ma di alleanza. Si possono condannare i metodi di Gheddafi, ma è difficile dimostrare il contrario di tale asserzione.
A parte i sentimenti e le coerenze (merce sempre più rara di questi tempi), il fatto più clamoroso e deludente è stato il voltafaccia della grande e assortita categoria dei cinici, libici e stranieri, dei profittatori, dei cambia casacca, tutti ex amici e camerieri del Colonnello per i quali egli è divenuto, improvvisamente il feroce dittatore di Tripoli. Hanno agito come se dovessero rifarsi una verginità agli occhi del popolo, per accreditarsi presso chi dirige le operazioni di “giustizia internazionale” ed essere, così, ammessi alla tavola della spartizione del bottino. Sì, perché in Libia c’è stata una guerra per accaparrarsi un favoloso bottino in petrolio, fondi sovrani e lingotti d’oro. Una guerra illegittima perché sono stati ripetutamente violati i limiti della no fly zone decisa, a maggioranza, dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Una guerra asimmetrica perché scatenata dalle principali potenze della Nato contro un piccolo Paese dotato di vecchi sistemi d’arma dalle stesse venduti. Una guerra a rischio zero perché combattuta dall’alto dei cieli con mezzi davvero sofisticati e micidiali: dai missili “Cruise” lanciati dalle portaerei ai bombardamenti degli F16 e dei “droni” .
Perciò, ancora non si riesce a capire il senso dell’astensione di Russia e Cina nel Consiglio di sicurezza dell’Onu che ha dato il via libera all’intervento militare, per altro sotto comando Nato. Un’altra stranezza che nessuno ha contestato. Bisogna dedurne che Cina e Russia, paesi che certo non brillano per democrazia, hanno mollato Gheddafi e il suo regime dittatoriale? In cambio di quali contropartite? Secondo il punto di vista, un po’ esasperato, di Massimo Fini, una spiegazione ci sarebbe: «Bisogna ingoiare un brutto rospo che è il genocidio ceceno compiuto prima dai sovietici e poi dai russi, dovremmo avvicinarci molto più alla Russia che all’America. Può darsi che queste rivolte arabe e tutto quanto si estendano finalmente anche a questo regime infame che abbiamo in Italia».[3]
Dialoghi Mediterranei, n.6, marzo 2014
Note
1 A. Spataro in “La Repubblica” del 28/8/2006
2 A. Spataro in “La Repubblica” del 17/7/2009
3 in “BlogBeppeGrillo” del 31/10/2011