di Marco Milanese
Il senso storico del fenomeno
Il forte calo della popolazione europea a partire dalla metà del Trecento è un dato storico piuttosto conosciuto nell’immaginario collettivo del Continente e, in ambito rurale, caratterizzato da una conseguente riduzione nelle campagne del numero dei villaggi, per cause economiche strutturali, climatiche, per le carestie, le pestilenze e lo stato di guerra. Sempre nel Trecento, la crisi demografica colpì anche le grandi città italiane, che persero oltre il 50% dei loro abitanti, mentre un numero impressionante di insediamenti rurali (3.000 in Inghilterra, 10.000 in Germania) furono del tutto abbandonati.
Anche la Sardegna fu segnata da queste congiunture e l’impatto sul paesaggio antropizzato dell’Isola fu impressionante, con la comparsa di distese di rovine laddove si trovavano fino a pochi decenni prima popolosi centri abitati e ancora con l’inevitabile abbandono di terreni coltivati causato dalla drastica riduzione della forza lavoro. Si verificarono pertanto forme di “selezione” dell’insediamento, che favorirono la sopravvivenza di alcuni centri risultati “vincenti”, ai danni di altri demograficamente più deboli o più esposti, che scomparvero e la cui popolazione residua venne ridistribuita sul territorio e in taluni casi subì la forza di attrazione dei centri urbani.
Il fenomeno dell’abbandono dei villaggi, del trasferimento della popolazione rurale da centri rurali di piccole dimensioni ad altri maggiori o verso le città o ancora del calo demografico complessivo, sono fenomeni di lunga durata nel tempo, che sono successivamente andati ben oltre la fine del Medioevo. In Sardegna vi furono senza dubbio delle cause locali, ma ve ne furono anche alcune allineate a quanto contemporaneamente accadeva a livello europeo.
Il Trecento è il secolo più noto, non solo in Sardegna ma nell’intera Europa, come il momento classico della contrazione demografica per pestilenze, guerre e carestie, in particolare dello spopolamento delle campagne, tanto che, secondo una linea storiografica, la metà del secolo può essere considerata come la vera conclusione del Medioevo.
Nonostante questo, gli insediamenti nelle campagne sarde in tutto il lungo periodo medievale sono stati tutt’altro che statici e sempre fissi negli stessi luoghi e forme, anche prima dell’innegabile e tragica crisi del Trecento. Le villas desertas ricordate come tali all’inizio del Duecento nella Trexenta, lo erano probabilmente già da tempo.
Le migrazioni interne, lo spopolamento o i fenomeni di accentramento demografico determinanti nuovi paesaggi rurali nell’Isola sono molto chiari anche nel Duecento e in particolare dopo il 1250, quando una volta esauritisi tre regni giudicali su quattro (sopravvisse fino all’inizio del Quattrocento il solo giudicato di Arborea), si avviò una fase di trasformazione degli assetti insediativi delle campagne, in particolare nel nord dell’Isola.
Nel territorio dell’ex giudicato di Torres, esauritosi di fatto con la morte di Adelasia nel 1259, la fine del Giudicato aprì il campo a un diffuso fenomeno di fondazione di una nuova rete di castelli, su iniziativa di famiglie aristocratiche d’origine continentale presenti da molto tempo in Sardegna. Negli anni attorno al 1270 abbiamo infatti le prime citazioni nelle carte d’archivio dei castelli di Bosa, Osilo, Castelsardo – al tempo Castelgenovese –, Monteleone Rocca Doria, Alghero, Casteldoria e altri, che furono fondati con precise finalità economiche (il controllo del grano, la pesca del corallo, l’argento) e con un preciso progetto demografico di accentramento della popolazione entro le sue mura.
Non si trattò dunque di castelli con prioritarie funzioni militari, ma come strutture di popolamento, che determinarono l’abbandono di numerosi villaggi del territorio, la cui popolazione trovò accoglienza all’interno di queste nuove strutture insediative.
Il periodo “classico” dello spopolamento delle campagne sarde fu tuttavia il Trecento e la causa principale e scatenante – sia pure non l’unica – è da identificarsi con la conquista aragonese dell’Isola, a partire dallo sbarco del 1323. L’impatto della conquista per la società sarda fu devastante, in particolare per la forzata introduzione del sistema feudale aragonese nei territori della Sardegna, per il generalizzato stato di guerra, le conseguenti carestie e negli anni centrali del secolo anche le devastanti pestilenze, che rappresentano un fattore di portata europea, con un drastico calo della popolazione.
Nel nord-ovest dell’Isola, il Logudoro è un territorio di particolare interesse per verificare la vastità del fenomeno degli abbandoni nel corso del Trecento, ma anche in Anglona, nel Campidano, nella curatoria del Sigerro e in quella di Parte Montis (tutti territori colpiti dal feudalesimo aragonese), complessivamente con centinaia di abitati rurali abbandonati, i cui numeri (superiori ai 400 casi) risultano sempre molto alti.
Nel Logudoro, ma anche nel Sassarese (curatoria di Flumenargia), la guerra tra i Doria e gli Aragonesi (e gli Arborea, loro alleati), determinò distruzioni di moltissimi villaggi e la fuga della popolazione verso i castelli signorili, come Osilo, Chiaramonti, la stessa città di Sassari.
In Sardegna, dunque, il sistema feudale aragonese scatenò crisi drammatiche per le popolazioni rurali, in quanto prevedeva un prelievo fiscale calcolato non sul numero effettivo dei nuclei familiari (i “fuochi”) in grado di far fronte al pagamento della tassa, ma su un contributo richiesto all’intera comunità, secondo un calcolo derivante da parametri precedenti la conquista, in cui l’economia dei villaggi e il loro assetto demografico erano particolarmente fiorenti. L’obbligo per le comunità rurali di dover continuare a rispondere alla stessa richiesta fiscale anche in periodi di calo demografico, accentuò lo spostamento della popolazione – non più in grado di rispondere a questo “fiscalismo squilibrato” – verso i centri maggiori, più tutelati rispetto ai centri minori.
Per un uso pubblico della storia dei villaggi abbandonati della Sardegna
In un momento in cui il tema dello spopolamento delle aree interne della Sardegna riceve un’attenzione centrale da parte della politica, dei mezzi d’informazione e della consapevolezza sociale, il punto di vista dell’archeologia può restituire uno sguardo storico profondo, capace di evidenziare la continuità di un filo rosso della questione demografica, che permette anche di contestualizzare meglio i drammi dello spopolamento attuale nella continuità cronologica di un passato prossimo o più o meno remoto.
L’indagine sulle cause dello spopolamento rappresenta il punto di possibile convergenza tra archeologia, archivistica (entrambe con un occhio più lungo e attento alla diacronia), antropologia, sociologia e demografia, tutte discipline che oggi, al di là di una più o meno “tradizionale” interdisciplinarietà, possono diversamente essere chiamate anche da una prospettiva politica “ideale” a fornire analisi e materiali utili per una migliore interpretazione dei fenomeni e per suggerire soluzioni.
Il problema di fondo dell’archeologia dei villaggi abbandonati della Sardegna è che questo numero impressionante di siti configura un patrimonio materiale, culturale e identitario a oggi quasi interamente non censito e pertanto non tutelato. Occorre pertanto acquisire la piena consapevolezza della necessità di verificare sul terreno in modo capillare l’ubicazione dei siti noti nella documentazione archivistica, per attivare forme di protezione del patrimonio in quanto memoria sociale delle società locali, delle comunità di patrimonio (secondo la convenzione europea di faro sul patrimonio culturale) e come materia di ricerca per le future generazioni di ricercatori.
Oggi il principale problema di questo sterminato patrimonio appare l’erosione e la distruzione dei resti sepolti di un elevato numero di villaggi abbandonati, un processo in atto a diverse velocità: più accelerato nelle aree di espansione residenziale delle periferie urbane e nelle aree agricole caratterizzate da elevato potenziale produttivo, più lento nelle aree adibite a pascolo o a colture stabili, dove i danni sono probabilmente stati già arrecati al momento degli impianti di vigneti e oliveti.
Per questo motivo ritengo (da anni e per certi versi autisticamente) che il patrimonio archeologico costituito da centinaia di villaggi rurali medievali sepolti – ma ad alto rischio per i processi di trasformazione del territorio – debba essere posto al centro di un progetto regionale di tutela, ricerca e valorizzazione, in forte connessione con la pianificazione territoriale.
Nel Sassarese, nel territorio di Sorso in Romangia, è ormai noto a livello internazionale il caso del grande villaggio medievale abbandonato di Geridu, il cui abbandono, a partire dal pieno XIV secolo, fu determinato da una serie di concause, fra cui il processo di feudalizzazione catalana-aragonese (dal 1323-24) e la conseguente pressione fiscale che si aggiunse a quella già prima esercitata dal Comune di Sassari e dalla Chiesa, che determinò un consistente esodo della popolazione in direzione della vicina città di Sassari, ma anche verso Osilo e probabilmente Sorso.
Il sito di Geridu è a oggi l’unico villaggio medievale abbandonato della Sardegna a essere stato, sia pure non completamente, indagato con lo scavo archeologico, a partire dal 1995. All’inizio del Trecento, il villaggio contava 326 fuochi fiscali, pari a oltre 1500 abitanti: in questo sito sono state realizzate dieci campagne di scavo, che hanno riportato in luce 12 edifici, ma le indagini geofisiche hanno innalzato in modo esponenziale la stima degli edifici ancora sepolti, dei quali è stata restituita la planimetria.
Il case-study di Geridu rappresenta oggi a tutti gli effetti un modello del potenziale informativo dei villaggi abbandonati della Sardegna: di Geridu conosciamo infatti l’organizzazione spaziale nel Trecento, che appare gerarchizzata dalle funzioni e dal simbolismo del potere, le attività economiche, la cultura materiale, le tecniche costruttive delle abitazioni e i resti della popolazione, che illustrano i dettagli di una grande villa di liberi coltivatori ed allevatori ubicata nel Nord-Ovest della Sardegna, prossima al mare ed a pochi chilometri dal centro urbano di Sassari.
In una sede come questa, in cui al centro del dibattito multidisciplinare è posto lo spopolamento, occorre evidentemente domandarci quale immagine ci restituisca lo scavo archeologico di Geridu dello spopolamento dell’abitato medievale. In sintesi, quella che appare è la lenta agonia del villaggio, che tuttavia subisce alla metà del Trecento anche episodi che ne sconvolgono rapidamente la vita quotidiana: tracce di violenti incendi, interpretabili come razzie, “bardane”, atti dimostrativi nei confronti degli abitanti insolventi o che ancora cercavano di resistere alla crescente pressione fiscale, sono state identificate con grande chiarezza.
Grandi edifici, anche centrali nel villaggio, dati alle fiamme e crollati senza dare il tempo agli abitanti di portare via quasi niente, se non pochi oggetti preziosi, la propria vita e qualche capo di bestiame, hanno restituito un fermo immagine di grande nitidezza, certificato dalla disposizione di oggetti e attività negli spazi domestici, immobilizzate sotto al crollo dei tetti.
Altra accelerazione è costituita dalle pestilenze della metà del Trecento, forse documentata a Geridu dalle sepolture collettive presenti nel cimitero del villaggio, ma lo scavo parla anche di forme di resilienza dei pochi abitanti rimasti, la cui vita si riorganizza faticosamente, nella seconda metà del Trecento, sulle macerie delle case incendiate o abbandonate. Nel Quattrocento, di fatto, rispetto alle migliaia di abitanti di un secolo prima, nel villaggio rimangono solo macerie e case vuote e inizia un’attività organizzata di “smontaggio” delle abitazioni, per recuperare architravi, soglie, pietre squadrate e tegole, che vengono ordinatamente accatastate.
L’archeologia medievale e postmedievale, quando scende dalla visione territoriale allo scavo di un insediamento specifico entra negli spazi della vita, ma indaga e ricostruisce i tempi e i modi dello spopolamento dei villaggi, gli abbandoni definitivi (come il caso di Geridu), quelli temporanei (è il caso di Olmedo, abbandonata nel XVI e rifondata nel XVIII secolo) e informa su modalità che difficilmente emergono nella documentazione archivistica.
In conclusione, le linee di politica culturale che sostengono il progetto sui villaggi abbandonati della Sardegna non possono naturalmente prescindere da un’attenzione alla comunicazione, per diffondere la consapevolezza di un patrimonio collettivo, che appartiene alla società civile e del quale gli addetti ai lavori (Soprintendenze, Università, Comuni) rappresentano soltanto i delegati tecnici pro tempore alla gestione dei beni e in questo senso hanno l’obbligo etico di rendere conto delle loro scelte gestionali e dei risultati di studi e scoperte.
L’idea di realizzare in Sardegna un museo tematico regionale dedicato ai villaggi abbandonati medievali e postmedievali dell’Isola nasce inizialmente dalla consapevolezza di questo patrimonio archeologico, mentre la sua realizzazione (nel 2011) a Sorso deriva dallo scavo del villaggio di Geridu e dalle numerose iniziative di ricerca e di valorizzazione che gli studi sul caso di Geridu nel tempo hanno generato.
Se si comprende pertanto facilmente per quale motivo a Biddas – Museo dei Villaggi Abbandonati della Sardegna, l’archeologia rappresenti una modalità di lettura fondamentale, occorre precisare come Biddas non sia un museo archeologico. Biddas ha diverse anime – tutte raccolte nella sintesi della narrazione storica – che vanno dai documenti scritti alle fonti orali, alla ricerca archeologica, all’antropologia.
Sociologia, Antropologia e Archeologia infatti si intrecciano strettamente nell’esposizione, che mira alla costruzione di un articolato ambiente di apprendimento, nel quale il visitatore si immerge ed è coinvolto da suggestioni, parole chiave, ricostruzioni, suoni ed un contatto diretto con i materiali, una impostazione che è stata premiata nel 2013 con la I edizione del Premio Nazionale per il migliore museo italiano nell’innovazione della comunicazione per le tematiche di periodo medievale.
Il museo Biddas presenta tematiche connesse con lo spopolamento dell’Isola e parte dall’esistente nel racconto che propone ai visitatori, accompagnandoli a ritroso nel tempo dall’Età Contemporanea a quella Moderna, fino al Medioevo. Lavorare e condividere un patrimonio diffuso capillarmente sul territorio, che ci parla di fondazioni e di abbandoni, di centri vincenti, di resilienze esasperate e di spopolamenti temporanei o definitivi è la base dell’ impegno di Biddas.
La parola chiave forse più significativa di Biddas è “memoria collettiva”, così come lo è l’invito a considerare il filo rosso della storia del fenomeno dello spopolamento e a non guardare a questa prospettiva storica di lungo periodo come estranea al presente. Una memoria capace di far dialogare la ricerca con la società civile e con gli amministratori locali in una prospettiva di un uso pubblico della storia e su alcune scelte strategiche della politica attuale in tema di sviluppo locale, che oggi possono – se colte o non colte – avere ricadute pesanti nel frenare o nell’imprimere invece devastanti accelerazioni al fenomeno dello spopolamento delle aree rurali dell’interno della Sardegna.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
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Marco Milanese, professore Ordinario di Archeologia Medievale, Past Director (2014-2020) – presso il Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione (Università di Sassari), Direttore di Biddas – Museo dei Villaggi Abbandonati della Sardegna.
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