Che cosa è l’identità? Come si definisce? Ai bambini delle scuole elementari, nell’ambito dell’educazione civica, il concetto viene semplificato con la dimostrazione di una vera carta d’identità. La maestra procede pertanto all’esplicazione dei vari aspetti che fanno di una persona un determinato individuo inconfondibile con chiunque altro: dati strettamente personali quali nome, cognome, data e luogo di nascita e di residenza; e connotati fisici quali statura, colore di occhi e capelli e segni particolari. Ma tra le due sezioni intercorre una voce che sovente oggigiorno non viene compilata dai funzionari comunali che rilasciano suddetta carta. Questa voce è quella della professione svolta, del lavoro.
Se ne deduce dunque che il lavoro è parte dell’identità di un individuo. Ma quando questo elemento, così importante da essere persino trascritto in una carta che riassume l’individualità, le caratteristiche strettamente identitarie di un essere umano, viene a mancare cosa succede all’identità stessa dell’uomo?
L’uomo è l’essere vivente più forte e debole allo stesso tempo. L’intelligenza e le molteplici abilità acquisite durante il lunghissimo processo evolutivo lo hanno eletto a essere superiore su tutti gli altri esseri viventi, e a buon ragione mi viene da aggiungere. Ma basta porvi di fronte il nulla, l’incertezza, il dubbio di ciò che verrà per far entrare in crisi questa macchina perfetta. La mente dell’uomo infatti si organizza secondo un sistema logico di ordine binario in cui alla certezza si contrappone l’incertezza. Ma essendo un sistema tendenzialmente positivo la prima sovrasta ed oscura la seconda. Come scrive Roberto Albanesi, «la logica stessa è la scienza della certezza per eccellenza».1
Nel momento in cui però il quadro delle certezze s’incrina, e l’uomo non è più in grado di gestire e controllare la situazione, ecco che sorge l’insicurezza verso se stesso. Insicurezza che diventa ben presto ansia a cui si cerca di ovviare con tutti i mezzi possibili. Se la situazione negativa persiste per lungo tempo, l’ansia lascia ben presto il posto alla demotivazione, poi alla rassegnazione ed infine ad una situazione di sopravvivenza in cui ci si rifugia chiudendosi a riccio di fronte a qualunque prospettiva, evitando così di mostrarsi troppo e mettere allo scoperto le proprie debolezze. Ci si accontenta insomma del male minore, mostrando sempre meno di se stessi e mutilando la propria personalità, e con essa la propria specifica identità.
Quanto sia vitale e consustanziale il nesso lavoro-identità è – oggi come non mai – dato drammaticamente attuale, se pensiamo alla condizione dei milioni di italiani che sono stati licenziati o non hanno alcuna occupazione. Su questa condizione e sugli effetti socioantropologici che si stanno determinando a livello individuale e collettivo è forse utile qualche osservazione per tentare di capire le dinamiche in atto nel sistema delle percezioni da parte dei soggetti e dei complessivi cambiamenti culturali.
Fin da bambini, genitori, insegnanti, educatori ci esortano a pensare al nostro futuro con domande quali: «Cosa vuoi fare da grande?», «Cosa ti piacerebbe fare un giorno?». Domande le cui risposte, seppur immature, indicano in germe la tendenza, la predisposizione del bambino o del ragazzo a svolgere un determinato percorso di studi e, al termine di quest’ultimo, un lavoro.
Il lavoro pertanto è inteso come coronamento di un percorso, come scopo finale e duraturo, nonché soddisfacente, di un cammino per molti aspetti faticoso ma necessario, indispensabile poichè permette di integrarsi totalmente in una società che fonda la sua stessa esistenza sul lavoro. «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», ci ricorda la formula dell’art.1 della Costituzione italiana. Forse la vedeva lunga Mario Cevolotto che nella sua proposta iniziale ometteva la seconda parte della formula, non ritenendo fondamentale il riferimento al lavoro, ipotesi che però venne bocciata dall’allora Assemblea Costituente come espressione incompleta e non esauriente delle caratteristiche dello Stato italiano nascente, che invece costituiva la propria autorità e la propria identità su questo presupposto programmatico.
Avere un impiego significa poter essere e sentirsi veramente parte di una società produttiva, di poter manifestare ed esprimere le proprie opinioni e le proprie idee su una cosa o sull’altra, perché si contribuisce alacremente alla loro formazione e unitamente alla costruzione e allo sviluppo di una società. Disporre di un impiego significa avere dalla propria quella certezza di una stabilità economica certo, ma anche di un riconoscimento sociale: quella percezione inappagabile di essere qualcuno, di saper fare qualcosa, di essere partecipe di un Paese da cui invece, sovente, ci si sente esclusi come reietti, proscritti o peggio ancora immigrati all’interno della propria patria. Una patria in cui si nasce, si cresce, si coltivano progetti, un Paese che si ama e si odia allo stesso tempo come un’amante che ci rifiuta ma di cui non possiamo fare a meno. Perché ci ha donato i natali, la lingua, la cultura: una memoria primordiale, che spesso siamo costretti a cancellare, a resettare del tutto per potervi riscrivere sopra e divenire così nuovi soggetti senza storia né passato: neo-individui pronti ad assumere nuove identità linguistiche, politiche, culturali.
Sono neo-individui, ad esempio, tutti quei poveri immigrati che per sfuggire ad un infausto e certo destino di violenza, stenti e morte giocano il tutto e per tutto per affrontare una traversata che può costare la vita, ma che nel migliore dei casi darà loro la possibilità di costruirsene una nuova. Alcuni vivono esperienze anonime di disperazione e di annullamento della propria identità di uomini, vittime di brutale sfruttamento in condizioni di schiavitù. Ci sono tuttavia immigrati che con vero spirito imprenditoriale intraprendono attività autonome riuscendo a riscattare l’immagine pauperistica di sans papier e mettendo in gioco la propria definizione di sé. Ne ho incontrati alcuni in una mia ricerca a Palermo, laddove strade, vicoli e mercati storici sono ricchi di presenze multiculturali.
Stephen e Willy sono due ghanesi approdati in Sicilia tramite una rete solidale di connazionali che, dopo averli sommariamente istruiti su lingua, cultura e buon costume locali, li hanno aiutati a prendere in affitto un magazzino in via Casa Professa per farne un mini-market di prodotti africani, i cui guadagni, seppur miseri, bastano per provvedere alle esigenze quotidiane dei due ragazzi e per riuscire a mandare anche qualche spicciolo in patria. Sami è un tunisino musulmano a Palermo da dieci anni insieme alla madre, proprietario di una macelleria in via dell’Università, che ancora non riesce a tagliare del tutto quel legame embrionale che lo lega alla sua terra dove abitano moglie e figlie. Abul, un musulmano del Bangladesh, oggi lavora presso una rosticceria asiatica in via Maqueda. Cuoco di grande intelletto, Abul ha lungamente studiato nel proprio Paese d’origine ed è approdato a Palermo con un notevole bagaglio culturale e una straordinaria apertura mentale che però non ha potuto sfruttare nella propria terra. Un “cervello in fuga” insomma, una nozione che oggi fa sempre più parte del nostro lessico abituale.
Suddetti profili appartengono ad una realtà umana e culturale che non possiamo più relegare come “storia di altri”, perchè sempre più ci coinvolge personalmente; specie chi vive nel Mezzogiorno d’Italia, estrema periferia di un’Europa che corre ed insegue i suoi sogni propagandistici e tecnologici su modelli straordinariamente potenti, lasciando indietro chi non riesce a correre alla stessa velocità.
Sono neo-individui anche tutti quegli insiders italiani coraggiosi che, pur di appropriarsi di una qualche umana dignità, alla ricerca disperata di un posto di lavoro, abbandonano le proprie famiglie per intraprendere il grande viaggio verso una delle mature città del Nord Europa. Ingegneri, architetti, filosofi, storici, artisti, persone che hanno dedicato gran parte della loro vita alla conoscenza, con la speranza, forse la sicurezza, che lo studio prima o poi avrebbe ripagato i loro sacrifici, con l’illusione che la meritocrazia avrebbe trionfato sull’arcaico sistema familistico delle raccomandazioni. Brillanti intelligenze che forse in una città cosmopolita come Londra, Parigi o Berlino potranno trovare un lavoro come cameriere/a, come lavapiatti, come colf, come commesso/a di grandi magazzini.
Per quanto ogni lavoro sia dignitoso, non è dignitoso che il nostro Stato acconsenta ad una simile situazione e chiuda gli occhi di fronte alla realtà. Accade invece che ciascuno dei mille parlamentari che pretendono di rappresentare la collettività nazionale non siano più in grado di guadagnare la fiducia dei rappresentati. Accade che a ragione o meno la popolazione sia talmente sfiduciata che non partecipa nemmeno più alla vita politica.
La fiducia in quello Stato che aveva fondato i propri valori su sani principi è oggi fortemente compromessa. Come si legge in Capitale sociale e senso civico nel Mezzogiorno, Francis Fukuyama osserva che grandi nazioni come Germania, Stati Uniti e Giappone hanno un’economia caratterizzata da grandi imprese perché dispongono di un capitale sociale che si costituisce della fiducia e della cooperazione generale della gente. Laddove la fiducia e la cooperazione vengono a mancare ecco che l’economia si fonda su piccole imprese familiari, le cui potenzialità di sviluppo sono pressoché inesistenti.2 Ne sono esempi eclatanti l’Italia, la Spagna, la Grecia.
Il capitale sociale dunque, inteso come l’insieme delle relazioni sociali ed interindividuali fondamentali per il buon funzionamento di una società, è una risorsa vincente e strategica anche per creare e trovare lavoro. Ma è necessario cambiare innanzitutto l’approccio che si ha nei confronti del lavoro e dei lavoratori. Il lavoro, al di là del valore specifico in quanto impiego e risorsa economica, è innanzitutto dignità. Non si può pensare di dover accettare quel poco di lavoro che c’è a qualunque costo, con orari e paghe inconcepibili e inaccettabili che della dignità umana non tengono davvero conto. A meno che non si modifichi quella Costituzione che rappresenta la carta d’identità dello Stato Italiano, non essendo più la nostra Repubblica fondata sul lavoro, ma sulla precarietà e sull’assenza di futuro nonché sulla carità dei datori di lavori, visti quasi come dei benefattori che elargiscono lavori di oltre dodici ore giornaliere per uno stipendio che si pone al di fuori di ogni legalità. Si chiami allora col suo nome questo paleocapitalismo che segna la regressione del nostro sistema economico al livello primitivo dello schiavismo. Si dichiari dunque che la sovranità non appartiene al popolo, che non tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge, che la Repubblica non riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, come sancisce l’art.4 della stessa Costituzione.
Spezzato il patto fiduciario, stravolta o negata la Costituzione, lo Stato italiano ha perso con i propri fondamenti statutari la propria storica identità, così come, in uno speculare parallelismo, viene troncata e dimezzata quella individuale dei tanti giovani italiani che, terminato il loro percorso di formazione scolastica e professionale, sono destinati a restare a guardare costantemente e drammaticamente il vuoto. “Bamboccioni” senza più sogni né progetti che, costretti a vivere ad oltranza con i genitori, modificano profondamente la stessa struttura sociale della famiglia, alterano modelli ed equilibri demografici, trasformano alla radice i contesti antropologici delle loro esistenze private. La verità è che siano chiamati “sfigati” o “choosy”, i ventenni e i trentenni disoccupati del nostro tempo sono umiliati e perfino privati dell’autostima e dell’orgoglio personale necessari per riconoscersi e ed essere riconosciuti come persone e come cittadini.
Dialoghi Mediterranei, n.5, gennaio 2014
Note
1 R. Albanesi, L’illusione della certezza, in http://www.albanesi.it/raziologia/illusione_certezza.htm, 2013
2 Cfr. G. Gucciardo, Capitale sociale e senso civico nel Mezzogiorno, S. Sciascia ed., Caltanissetta-Roma 2008, 30-31