1. Una disciplina indisciplinata
Ai più attenti non sfuggirà, nel titolo, il rimando alla definizione con cui, negli anni Ottanta, Cirese intuì il carattere di quelli che oggi sono diffusamente definiti beni culturali “immateriali”: «canti o fiabe, feste o spettacoli, cerimonie e riti che non sono né mobili né immobili in quanto, per essere fruiti più volte, devono essere ri–eseguiti o rifatti» (Cirese 2007: 69), che egli qualificò per la prima volta come “volatili”. Mi permetto, quindi, di riprendere l’espressione per associarla ai caratteri di una transmedialità del patrimonio culturale quale emerge e viene agita all’interno degli ecosistemi digitali associati alla Sardegna, con particolare riferimento a Facebook e agli elementi più facilmente riconducibili all’identità storica dei sardi.
Spazio dell’effimero e del caduco nel senso comune che potremmo definire colto, quello garantito dai devices appare come un piano di interazione, inclusione e produzione semantico–valoriale altamente fertile e mutevole, dove l’utenza si appropria più facilmente di alcuni argomenti costruendovi intorno delle discorsività, dei contatti e dei posizionamenti in continua evoluzione empirica: nel caso che qui interessa, sono i contenuti audiovisivi forniti dagli utenti che rimodulano e riattivano costantemente il confronto in materia di sardità o del pensarsi sardi, i cui temi di riferimento risultano connotati – in virtù di questa “sindacabilità digitale permanente” – da alta variabilità e, potremmo dire, volatilità. Se, d’altra parte, riproducibilità e condivisione sono concetti cari al versante dell’immaterialità demoetnoantropologica, non appaiono certo avulsi da quello digital-comunicativo e della produzione multimediale: nelle communities digitali si discute in live attraverso significati eterei sintetizzati dall’incontro degli utenti e dall’apporto da questi direttamente fornito con i propri contenuti “volatili”, come Cirese ebbe a definire, ad esempio, il suono: foto, video, fonti bibliografiche a supporto, racconti di esperienze e considerazioni personali agiscono, nella loro matericità elettronica, le formulazioni identitarie dibattute nell’ambiente del social network e proiettate esternamente in eventi dedicati, discorsi politici, lezioni universitarie o generici incontri. Fornendo, dunque, la misura della consistenza del social network in quanto spazio di ibridazione e campo di ricerca dalla duplice natura materiale e immateriale, distinzione invero fittizia per gli specialisti che si occupino di temi del campo demoetnoantropologico (Broccolini 2023: 1675).
Ragionando sul rapporto tra new media ed esperienza del luogo, ad esempio, la sociologa Lorenza Parisi nota come non sussistano le condizioni per includere gli ambienti digitali nel mare magnum dei nonluoghi teorizzati da Augé, in linea col meno prudente orientamento degli anni Novanta (Bolter, Grusin 1999), «poiché identità, storia e relazioni si ritrovano iscritte nei network, seppur in forme diverse da quelle tipiche della modernità» (Parisi 2018: 66 e ss.) e secondo inedite prassi di interazione e costruzione di significati; online e offline, nota Parisi, sono concetti coalescenti (ivi: 68): influenzandosi e “realizzandosi” a vicenda, immanenti l’umanità moderna, si compenetrano dando forma ad uno spazio umano nuovo, del possibile e del concreto.
Com’è auspicabile, il patrimonio culturale, coi suoi linguaggi e i suoi argomenti, gode all’interno dei social network di un’attenzione straordinaria, come si vedrà, confermando il vigore di un senso del patrimonio che abita stabilmente le nostre vite e la nostra progettualità politica: oggi c’è troppo patrimonio? si chiede qualcuno, ricordando come un tempo ce lo si dovesse guadagnare. Credo che gli ambienti digitali siano dei campi di ricerca formidabili per esperire e rilevare la pervasività del patrimonio come fatto sociale totale (Cossu 2007) tanto formalizzato e formalizzabile quanto insopprimibile nella forza delle sue motivazioni di fondo, intrinsecamente sociali e relazionali ed economiche. Trovo evidente, infatti, come l’aspettativa di patrimonio di questo apparentemente caotico tornante sovrasti le possibilità del suo disciplinamento funzionale e dell’efficace sviluppo delle sue opportunità: proprio il suo carattere detonante, interstiziale e capillare – tessuto di paesaggi, saperi, valori e persone, che rappresenta la sua forza – lo rende al tempo stesso problematico e conteso.
2. Antropologia digitale
L’antropologia digitale è una disciplina giovane ma non certo giovanissima, apparentemente svezzata dall’introduzione dei social media, in grado di potenziare enormemente quella che il sociologo Manuel Castells definì network society o “società delle reti”, forma spirituale della nostra epoca. L’evoluzione tecnologico-sociale indotta da questi strumenti così permeanti incalza infatti una disciplina della quale si riconosce un compiuto orientamento metodologico nella netnografia di Robert Kozinets (2019), ovvero «un modo per fare antropologia sul Web utilizzando informazioni pubbliche, frutto della condivisione spontanea degli utenti sui social media» [1], integrazione di un approccio quantitativo con uno qualitativo, qui più consistente. La maturità del tema è comprovata, io credo, dagli stessi modi in cui si tende più frequentemente a valutare la portata del “digitale”, descritto come uno tsunami improvvisamente abbattutosi sulle nostre placide vite e concepito ora come vantaggio assoluto (sulle note della “innovazione”), ora addirittura come regressione e, più prudentemente, in quanto sfera “culturalizzata” meritevole di una critica attenta (Benanti, Maffettone 2024).
Nel quadro dell’esistenza digitale, i social network hanno rimescolato le carte della partita che ormai da diversi anni si gioca sul piano del dibattito pubblico, cibernetico e politico, quindi della comunicazione, con risultati a volte clamorosi. Nell’economia di questa complicata articolazione di fenomeni interconnessi, Facebook rappresenta un denso e problematico spazio di luoghi, insieme strumento e alcova familiare, dove tanti/e hanno modo di impugnare le redini della propria sfera di mondo mantenendo i contatti personali e immaginandone di nuovi. La “grande piazza” che siamo così certi abbia immaginato Mark Zuckerberg è parte di tanti di noi su diversi livelli di conoscenza e produzione relazionale: legami familiari, gossip, offerte di lavoro, riti pubblici e privati, dibattiti, sport, che necessariamente intercettano i nodi dell’identità e della reciproca e collettiva costruzione del senso simbolico delle cose e delle connessioni.
Nondimeno, più volte mi è capitato di notare, anche fra gli scienziati sociali, antropologi compresi, una certa enfasi nelle considerazioni riguardanti l’uso personale di Facebook, in assoluto il network più “sociale” di tutti e alle cui funzioni anch’essi sono soliti fare ricorso per raccontare e promuovere il proprio lavoro. Ciò che si avverte è quasi una forma di esotico compiacimento verso un medium ormai così scontato eppure così degno di sopravvalutare l’esistenza professionale di uno specialista, apparentemente affascinato – forse proprio in quanto tale – da una qualche valenza trascendentale del dispositivo. Eppure, vezzi stilistici a parte, quando si tratta di elevare i social network a campi di ricerca – ovvero quali ambienti peculiari di produzione relazionale e possibilità interattive plurime, parte del nostro habitus – non solo la prudenza non è mai troppa, ma fa addirittura capolino una certa sufficienza semplicistica. Mi sono quindi chiesto: forse Facebook è troppo vicino, scontato, praticamente nelle nostre tasche, e quindi meno interessante come richiederebbe invece l’antropologia del campo lontano e dell’esotico? Forse, addirittura, è ancora troppo “nuovo”?
Per un antropologo “dell’ultim’ora” come me, nativo e abitante digitale in dovere di schiudersi ai problemi irrisolti della disciplina, ragionare di umano e digitale non desta grosse preoccupazioni, ma proprio in quanto implicito nel farsi della quotidianità si rivela stimolante e urgente decodificare il rapido sviluppo di questo rapporto in ogni direzione: su quelle strade percorse adagio fino ad oggi e lungo quelle che, con lungimiranza o azzardo, ci apprestiamo ad intraprendere e che forme nuove e più dinamiche di meccaniche sociali prima neanche pensabili si cristallizzano, fissate nella loro veemente visualità e dando vita a forme di negoziazione e scambio di indiscussa efficacia. I social network, in primo luogo, non consistono quindi in ciò che le rappresentazioni ufficiali di essi forniscono.
2.1 Dentro le communities del patrimonio culturale fra divulgazione e revanscismo digitale
L’antropologa Rossella Cirrone (2020) ha osservato che a «rendere lo spazio digitale un luogo culturale osservabile dall’etnografo contribuisce il fatto che gli attori sociali che lo frequentano vi creino relazioni e producano testi, tenendo conto di regole e modelli che fanno parte unicamente di quel sistema» (ivi: 158).
Praticare il patrimonio culturale, ambito che si presta a questa introduzione ed interesse del presente contributo, è un fatto sostanzialmente immanente agli ambienti digitali, dove più evidente emerge la pratica del cultural heritage come insieme di tutte «quelle forme culturali – nel senso antropologico del termine – vissute e agite nel contemporaneo da “comunità, gruppi ed individui” che le riconoscano come tali.» (Broccolini 2023: 1671)
A ben vedere, patrimonio e digitale sono due concetti citati spesso assieme, quasi fossero intercambiabili e addirittura complementari; in effetti, sembra essere così anche alla luce della dialettica più recente, che avoca ai professionisti del patrimonio o aspiranti tali la necessità di una solida formazione digitale per l’esercizio della professione, quale che essa sia. Questo in ragione, fra gli altri motivi, della intrinseca capacità visuale del suo paesaggio estetico, eminentemente rappresentato dal tessuto strutturale “interessante” intorno ad ognuno di noi: monumenti, evidenze archeologiche, paesaggi e contesti ambientali, riti e pratiche, codici linguistici ed oggetti di riconosciuta profondità storica sono quanto, oggi, comprenderemmo volentieri nel pacchetto di una gita domenicale; sono, più generalmente, ciò che una visione erudita del mondo intende come insieme di elementi “identitari”, ovvero tali da basarvi narrazioni incentrate sulla profondità storico-culturale di un contesto antropico che si ritiene individualmente e collettivamente fondante.
Questa pluralità tematica, in cui si riconosce una “digitalità” – ovvero un modo di farsi digitale – a ciascun argomento fruito, si amalgama all’interno delle tante communities sul patrimonio culturale che popolano l’ecosistema Facebook secondo la forma del gruppo, “chiuso” o “aperto” a seconda che sia necessario richiederne l’accesso, o della “pagina”, sezione virtuale fruibile liberamente e senza particolari restrizioni, salvo quelle previste dalla “moderazione” del suo gestore o amministratore, per lo più legate alla segnalazione e cancellazione di contenuti offensivi (principalmente commenti ai post).
Se le osservazioni netnografiche qui proposte attengono ad una specifica tipologia di modello virtuale, è opportuno sottolinearne la coesistenza storica con la formula del blog, un particolare tipo di sito web varato nel 1997 di cui Facebook sembra rappresentare il diretto discendente: il blog è infatti uno spazio digitale all’interno del quale uno o più blogger, pensatori e amministratori della piattaforma, si preoccupano di pubblicare, periodicamente, dei contenuti – ugualmente in forma di post – relativi a determinati argomenti che generalmente incrociano il senso del blog; Facebook, con marcato riferimento alle sue communities, si configura come step evolutivo rispetto al blog, di cui potenzia le pratiche dialogiche portandole a capacità di interazione mai viste prima. La rigidità interattiva del blog, raramente mitigata dalla possibilità dei commenti di chi legge i contenuti pubblicati, si infrange contro il dinamismo di Facebook, che propone inedite possibilità di scambio (cfr. Granieri 2011). Nondimeno, nel tempo in cui le cosiddette ICT (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) si presentano come i più potenti strumenti del sé ai quali siamo mai stati esposti (Floridi, 2017), ad essere ridimensionata ma allo stesso tempo enfatizzata da Facebook è la cifra individualistica che dirige l’origine del blog in quanto strumento di auto-rappresentazione, attivato solitamente da quanti volessero raccontarsi o raccontare qualcosa di riconoscibile interesse comune (come hobbies, passioni o stili di vita; si pensi allo schema nome blog_di_nome autore come motivo dominante della linguistica cibernetica in fatto di “siti personali”).
Con le sue “bacheche”, come vengono definite le sezioni entro le quali collocare i propri post condivisibili ed esperibili dall’intera community, estendibili sia ai gruppi che ai profili personali, Facebook rappresenta uno spazio ad alta capacità interattiva e immediata reciprocità, dove il contenuto proposto viene discusso e vagliato rapidamente e risulta soggetto – nel caso di temi che presentino una forte carica visuale – a conferme o smentite da parte di osservatori diretti o conoscitori; confermando, quindi, la sua volatilità. Nel caleidoscopio digitale si registrano, inoltre, quelle che potremmo definire soluzioni ibride, in cui – in tal caso – personalità note del dibattito archeologico socialmediatico identificano col proprio nome delle community il cui obiettivo è, invece, il tema ben più vasto comunque proposto nel titolo della pagina; ottenendo di ”personalizzare”, piò o meno volontariamente, in certo modo, il confronto dialettico [2].
Ovviamente, non tutte le community che si occupano di patrimonio culturale tendono verso la cifra interattiva di cui ci si occuperà in queste righe, più sbilanciata verso flessioni oppositive di un confronto spesso esasperato da toni e visioni radicali dei fenomeni. Com’è plausibile, infatti, simili “collettività digitali” tendono a riunire un numero enorme di appassionati, più e meno esperti, che si pronunciano riguardo a degli argomenti dominanti e particolarmente radicati nell’immaginario comune dei sardi, alcuni dei quali caratterizzano la loro presenza all’interno del social network proprio rispetto ai modi di intendere quei temi, contribuendo – attraverso la pubblicazione di contenuti – allo sviluppo di idee, visioni e forme di slacktivismo. Nondimeno, e come già visto, emerge come diverse fra queste communities rimandino ai suddetti argomenti già col nome che scelgono per rappresentarsi, e che pertanto questo risulti un primo fondamentale elemento di scrematura nella definizione della composizione dell’utenza ad esse riferibile. Sia d’esempio il caso di PREISTORIA SARDA, uno dei gruppi più attivi e numerosi dell’ecosistema Facebook “sardo”, nella cui descrizione – che riguardo alle community ha il valore di un manifesto – si legge:
«Il Gruppo si è costituito per condividere la passione per l’Archeologia con dialoghi, foto e video di monumenti, siti e territori ancorché di materiali esposti nei Musei o in Collezioni private Ufficiali. La bacheca del Gruppo non può essere usata per la pubblicazione di foto e video riguardanti materiali di chiara natura archeologica, nella fattispecie quelli metallici, per i quali si consiglia di rivolgersi alla Soprintendenza competente» [3].
Queste righe consentono di introdurre gli argomenti sviluppati nei prossimi paragrafi per due motivi:
a) è anzitutto interessante notare come si parli genericamente di “archeologia” – come sappiamo comprendente uno spettro di ambiti disciplinari che, dall’attenzione verso la preistoria, arriva fino alla recente archeologia industriale – per intendere, invece, l’indagine archeologica relativa alla fase nuragica, tradendo un’impostazione che – nello scalzare la pure feconda archeologia medievale sarda – tende a concepire come degno d’interesse identitario soltanto ciò che può ascriversi alla cosiddetta età del Bronzo;
b) il dualismo che ispira questo contributo, ovvero quello fra “scienza ufficiale” e “fantarcheologia”: sebbene possa trasparire, non è specificamente il caso della descrizione proposta, che invece risulta estremamente moderata e conciliante anche in ragione dell’elevato numero e della multiforme composizione dell’utenza, in certo modo in grado di fungere da deterrente per estremismi o radicalismi interpretativi.
Come accennato, il retroterra fondamentale del confronto interno a questi sistemi è animato dal dualismo meglio conosciuto, in Sardegna, nei termini dello scontro permanente tra la “scienza ufficiale” e i cosiddetti “fantarcheologi”, come la prima li qualifica riferendosi alle “congetture complottiste” che questi producono in risposta (avversativa) alle tesi riconosciute dall’archeologia professionale e giudicate da questa categoria parziali e tendenziose, quando non del tutto false perché atte a negare supposte “verità occultate” sul passato dei sardi, come si vedrà. A questo proposito, è opportuno sottolineare come considerazioni e deduzioni sul “glorioso passato dei Sardi” (enfaticamente maiuscolo nella retorica del genere) solitamente adottino un terminus post quem precisamente collocabile nel periodo nuragico, che si fa iniziare grosso modo verso il principio del II millennio a.C..
Come ebbi a notare in questa stessa rivista:
«i caratteri ideali di uniformità e unicità riconosciuti a questa fase abbiano contribuito a definire una narrazione permeante i processi di auto–identificazione del sardo contemporaneo, che vede radicalizzarsi le sue posizioni soprattutto davanti alle retoriche che il palinsesto comunicativo digitale mette in opera, giornalmente, nei suoi ingranaggi di uso e consumo di luoghi, suggestioni, leggende, dicerie e luoghi comuni particolarmente apprezzabili nel ring dell’utenza, una cui larga frangia risulta generalmente scettica davanti alle acquisizioni particolarmente accademiche. Viceversa, tanti accademici prestano il fianco ad una importante nebulosità conoscitiva» (Atzori 2023).
Lo scontro dialettico rappresenta, in primo luogo, le questioni archeologiche più dibattute del panorama storiografico sardo, che coinvolgono, oltre agli specialisti, normalmente più prudenti nel ribattere e confutare, anche gli appassionati e una vasta utenza generica. Fra questi temi compaiono alcune configurazioni semantiche di particolare successo mediale, che si illustreranno brevemente di seguito non prima di un’avvertenza: voglio infatti precisare come non sia intenzione del sottoscritto quella di parteggiare e avanzare giudizi qualitativi in ragione delle decantate esigenze di chiarezza da avocare allo specialista, sebbene numerosi siano i temi che incrociano il mio interesse; vi è, invece, come credo sia desumibile dalla missione dell’antropologia, la volontà di illustrare alcune dinamiche che, desunte attraverso la lente netnografica, diano conto degli equilibri in essere fra organi del sapere e sapere fruito, scongiurando i riduzionismi e gli appiattimenti da un lato e dall’altro: sia quelli dell’utenza semplicemente appassionata e meno intellettualmente esposta – ma spesso significativamente impegnata nei territori – che quelli degli addetti ai lavori i quali – non di rado animati da un certo piglio classista – tendono a qualificare chiunque non già respinga ma a malapena dubiti delle tesi ufficiali come “ciarlatano” o da automaticamente escludere dal dibattito.
2.1 Costante resistenziale e indipendentismo da tastiera
La costante resistenziale sarda è il titolo di volume edito da Ilisso nel 2002 e curato dallo storico Antonello Mattone, consistente in una raccolta di scritti di Giovanni Lilliu (1914–2012), padre dell’archeologia sarda per antonomasia. Pubblicati tra il 1946 ed il 1997, essi ricostruiscono la definizione del controverso concetto di resistenzialità, in verità espresso univocamente per la prima volta fra gli anni Sessanta e i Settanta e con cui lo studioso indica quello che descrive come il carattere costitutivo della “cultura sarda”, immaginata come stratificazione di continue dominazioni subìte dagli autoctoni ma capace di °conservarsi° e °resistere° nel tempo mantenendo una propria originalità. Per spiegare la profondità di questo atteggiamento culturale, egli ne situa il principio verso il VI secolo a.C., quando i cartaginesi ebbero ragione dei sardi indigeni ricacciandoli verso l’entroterra montuoso e così innescando – a suo dire – lo storico dualismo tra un “sardismo del centro” o delle zone interne, cosiddetto “barbaricino”, e un sardismo “collaterale” più moderato e promiscuo, meglio esposto al contatto con l’alterità.
Nelle posizioni del Lilliu, pure puntualmente argomentate, tanti hanno voluto riconoscere una prestigiosa legittimazione dell’idea del “sardo vero” (quello “barbaricino”, appunto) come culturalmente resistente e simbolo dell’irriducibile e indomabile valore della popolazione isolana, in secolare opposizione a invasori e mire colonialiste. Un esempio associativo digitale è rappresentato dalla community La Costante Resistenziale Sarda [4], nella cui pagina web dedicata si legge:
«Il resistenzialismo è una caratteristica intrinseca del popolo sardo: è la nostra capacità di passare da una dominazione all’altra senza mai essere domi, senza mai essere completamente assorbiti da altre culture, in definitiva senza mai cedere del tutto. Per questo noi ci sentiamo identitari ma non nazionalisti, consapevoli e non succubi della nostra italianità, europei e anche un po’ africani, occidentali sì ma a modo nostro. Perché alla fine siamo e rimarremo sempre e solo sardi» [5].
2.2 Atlantide e gli Sherdana
Poche cose come il mito di Atlantide ravvivano, per non dire infiammano, la dialettica digitale delle communities del patrimonio culturale. Atlantide è un’isola leggendaria menzionata per la prima volta da Platone (VI sec. a.C.) nei dialoghi Timeo e Crizia, dov’è descritta come una terra maestosa situata oltre le Colonne d’Ercole – ovvero il limite geografico del mondo allora noto – e abitata da un popolo forte e guerriero capeggiato da Atlante, leggendario figlio di Poseidone: una vera e propria potenza marittima in grado di piegare innumerevoli entità politico–militari dell’epoca fino a capitolare davanti ai greci meritandosi l’ira del re del mare, che ne avrebbe decretato la distruttiva scomparsa «in un singolo giorno e notte di disgrazia», sommersa dalle acque.
Dimenticato fra antichità classica e medioevo, bisogna attendere l’età moderna per la riscoperta del mito di Atlantide, che innesca una vera e propria “corsa alla localizzazione” nella quale le proposte di attribuzione geografica sono innumerevoli. Se questa non è certo la sede per ripercorrerne l’esegesi, potenzialmente interminabile, è per noi invece importante risalire all’innesco mediatico della strenua teoria dell’equazione Atlantide = Sardegna, avanzata in una prima sistemazione dal giornalista Sergio Frau nel suo libro Le colonne d’Ercole (2001), le quali dovrebbero identificarsi con il canale di Sicilia e, conseguentemente, la Sardegna con isola di Atlantide, abitata dal mitico popolo degli Shardana o Sherdana (dai quali, appunto, si vorrebbe che la Sardegna abbia preso il nome) citati tra i “popoli del mare” che secondo le cronache animarono il Mediterraneo verso la fine del II millennio a.C. (cfr. Ugas 2016).
La fortuna popolare del termine Shardana, che compare estesamente nella nomenclatura sarda (ristorazione, esercizi commerciali, società sportive) [6], conferma il solido interesse – nell’immaginario isolano – di questa vicenda pseudo-mitica, la quale si sostanzia nella convinzione della corrispondenza mitopoietica tra il “glorioso popolo” degli Shardana e i sardi del periodo nuragico, della cui “grandezza” l’archeologia ufficiale tenderebbe a voler cancellare le tracce. In generale, per quest’ultima Atlantide e Shardana sono termini scientificamente nefasti, e di tale risentimento si trova facilmente traccia online, ad esempio fra le recensioni alla pagina Sardegna, l’Isola di Atlantide [7]:
«pagina che contiene insulti contro gli archeologi professionisti accusati di far parte di un non meglio identificato “regime di Stato”, ma se si commentano, confutandoli in modo scientifico, le varie farneticazioni dei post pubblicati dalla pagina si viene immediatamente censurati. Alla faccia del regime di Stato».
2.3 La scrittura nuragica
Le questioni della lingua e della scrittura nuragica sono cruciali nell’economia delle impressioni digitali e nel posizionamento dell’utenza, e restituiscono fedelmente il senso della distanza tra addetti ai lavori dell’archeologia e platea social con esiti quantomeno controversi come nel primo caso [8].
Confutata ufficialmente, la tesi secondo la quale la cultura nuragica fosse dotata di una scrittura propria viene invece sostenuta fermamente dagli accusatori dell’archeologia professionale, che individuano anche un simulacro totemico della rivalsa digitale: la Stele di Nora, testimonianza epigrafica in pietra arenaria rinvenuta in Sardegna nel 1773 e di importanza capitale per la ricostruzione storica perché considerata, quasi unanimemente, la prima testimonianza di alfabeto fenicio, invece riferito alla cultura nuragica dai cosiddetti “fantarcheologi”. Nel gruppo privato Testimonianze e creatività sulla Sardegna antica, ad esempio, si legge:
«L’incompetenza di certi archeologi feniciomani. Definiscono la prima forma di scrittura in Sardegna, quella fenicia della stele di Nora. Questo per cercare di demolire la scrittura nuragica più antica appunto rintracciabile in diversi siti nuragici, ceramiche e bronzi. Il problema che giustamente viene sollevato a questi archeologi così tanto “sicuri”, è che tutti sanno che le scritte della stele di Nora non sono traducibili in fenicio, neanche in quello arcaico e Ancor meno in punico, ma … sapete cosa si risponde a tale problema della non traducibilità? .. si risponde che essa è molto antica rispetto alle scritte fenicie tradotte secoli dopo. A questo punto la domanda viene spontanea: come mai si afferma di non essere in grado di tradurre la stele di Nora perché del IX sec. a.C., quando tutti sanno che il fenicio è traducibile fin dalle scritte del XI sec. a.C.?».
In questo passo individuiamo un altro elemento fondamentale: l’uso dell’aggettivo feniciomani per etichettare, stigmatizzandone la posizione, coloro che, solitamente esperti, vengono tacciati di enfatizzare l’importanza dell’ingerenza culturale fenicia nell’economia della storia della Sardegna nell’età del Bronzo, così contribuendo – a detta degli accusatori – alla svalutazione “colonialistica” della cultura nuragica nello specifico. Risulta interessante notare come la causa della scrittura sarda venga non solo affrontata nella community poc’anzi citata, ma a partire da questa ripresa da alcune testate giornalistiche online [9].
I temi proposti nei punti precedenti sono complementari; in verità, essi risultano convergere addensandosi nel quadro semantico della preistoria sarda, sul versante relativo al periodo nuragico che, come già sottolineato, configura un fertile paesaggio dialettico e semiotico che sembra orientare una solida volontà mitopoietica: finalizzata, quindi, alla reinterpretazione ideologica dei fatti culturali che da quelle stesse distorsioni tentano di affrancarsi. Discorso a parte merita l’ambito conoscitivo e storiografico medievale, con la guerra sardo-catalana solidamente radicata nell’immaginario collettivo dei sardi come irripetibile momento nello sviluppo storico dell’isola, con questa a un passo dalla completa indipendenza politica per mano del giudice Mariano IV, padre di Eleonora d’Arborea e fra i personaggi cardine del palinsesto identitario “resistenziale” sardo: considerato, assieme ad Ampsicora, animatore e protagonista della guerra antiromana del III sec. a.C. (nota come Bellum Sardum), il simbolo umano dell’opposizione sarda all’invasore, principio che meglio degli altri concreta il radicalismo della retorica dell’identità in Sardegna.
In effetti, il bias intorno al quale s’ingenera lo scontro è strettamente connesso al riconoscimento del “reale valore storico” della Sardegna rispetto ad una ricostruzione dei fatti, quella ufficiale, spesso ritenuta insufficiente o parziale quando non apertamente mistificatoria. Pertanto, la missione della divulgazione della “vera” storia dell’isola, all’interno dei social network, sarebbe avocata a ricercatori o appassionati indipendenti dall’ambiente accademico e generalmente scientifico. Si attiva, per così dire, una forma di revanscismo digitale dalla doppia finalità: da un lato quella di “ribaltare” divulgativamente un’idea di Sardegna ordinaria, costretta nell’angusto meandro di una scienza accademica orientata a ridimensionare una presunta superiorità culturale particolarmente riconoscibile nel periodo dei nuraghi; dall’altro, quello dell’argine all’istituzione e del posizionamento reazionario in chiave antipolitica e anti-ideologica, in aperto contrasto con chi nega quella stessa grandezza culturale celata da una ricerca accusata di faziosità e sudditanza intellettuale.
Riguardo, ad esempio, alla citata questione dell’occultismo archeologico e alla mia personale esperienza, ho potuto constatare la diffusa convinzione che “qualcuno dall’alto” – nell’immaginario identificato con “la soprintendenza”, che la vulgata tende a personificare riferendovi facoltà umane – abbia fatto sparire, in fase di scavo archeologico, le “ossa dei giganti” rinvenute in diversi siti preistorici e note anche grazie ai racconti di diversi personaggi del territorio non di rado animati da obiettivi personali. Non solo: «CHE FINE HANNO FATTO I REPERTI EMERSI DURANTE I LAVORI DEL RIFACIMENTO DELLA VIA ROMA A CAGLIARI?», ci si chiede in maiuscolo su un post pubblicato in una pagina aperta, chiosando: «IL SILENZIO È ASSORDANTE.» e addirittura ricorrendo a espressioni come “dittatura culturale” [10]. Non a caso, l’esasperazione degli equilibri dialettici e la conseguente polarizzazione determinano, oltre alla definizione di fazioni riconoscibili sul piano lessicale (nell’uso, ad esempio, di espressioni come feniciomani), l’attivazione di spazi di deterrenza come nuove community finalizzate ad arginare i prodotti di quella nota nel senso comune colto come “fantarcheologia”. Il caso, eloquente, è quello della pagina che così descrive il suo ruolo:
«FANTARCHEOSARDISMO nasce con lo scopo di condividere e discutere contenuti riguardanti il ciarpame fantarcheologico sardo, con particolare attenzione allo spreco di quattrini pubblici. Il gruppo è pubblico ed è regolato da un semplice disciplinare: si può pubblicare e scrivere ciò che si vuole, salvo opinione contraria dei moderatori. Insindacabile. Astenersi perditempo, grazie» [11].
Più generalmente, lo scontro retorico risulta esacerbato da un meccanismo che ho definito “guerra logica di logoramento”, già citato in un contributo comparso in questa rivista e di cui scrissi:
«con l’ausilio di suggestioni astratte ma prodotte da supposizioni che agiscono sul piano del ragionare induttivo (“siccome…e quindi…”), si procede a confutare ciò che risulta stridere con la causa dell’affermazione intellettuale del predominio della Civiltà Sarda; ad esempio, l’assenza di una scrittura organica, imputata alla cancellazione sistematica delle sue prove e la cui esistenza sarebbe motivata da quella, nel resto del bacino mediterraneo, di culture già ampiamente strutturate dal punto di vista espressivo e comunicativo» (Atzori 2022).
La logicità del conflitto dialettico risiederebbe, insomma, nella scontata consequenzialità che per l’osservatore intercorre tra due elementi storici, geografici o genericamente “culturali” auto-evidentemente collegati. Ad esempio, sempre nel quadro della conflittualità pseudoscientifica, si è recentemente sviluppata una diatriba digitale che vede alcune persone supporre, attraverso l’auto-evidenza della geomorfologia di alcuni paesaggi, l’esistenza di vere e proprie piramidi di stampo egizio al di sotto di colline solitarie che ne ricorderebbero la fisionomia. Un contenuto esemplifica efficacemente quanto sostenuto:
«il fatto che in Sardegna si continui a ignorare tutte le migliaia di colline artificiali perfettamente conico–piramidali che spesso e volentieri spuntano fuori anche in zone di pianura. È un’elementare deduzione logica quella che ci spinge a pensare che tali colline non siano naturali, ma frutto di costruzioni antiche sepolte dalla terra in decine di migliaia di anni di storia».
Sul fronte della guerra logica, più precisamente, è trincerata una frangia di utenza marcatamente maschile che, più soggetta alla frequentazione dello spazio campestre in chiave professionale e ricreativo (agricoltori, pastori, cacciatori), fa leva su un bagaglio di abitudini e pratiche dalla solida matrice storica e, nel caso sardo, particolarmente ascrivibile all’ambito culturale contadino o precapitalistico, meglio conosciuto come “tradizionale”. Allo stesso tempo, è possibile documentare un’intellighenzia “marginale” – rispetto al blocco degli addetti ai lavori – estremamente sensibile alle tematiche del patrimonio culturale, che spesso tende ad agire da “promotore culturale” o “esperto/a del territorio” – secondo etichette solitamente riconosciute dalle comunità agli appassionati ed ai ricercatori indipendenti locali – per attivare delle iniziative sia in sintonia che in opposizione rispetto ai dettami della scienza ufficiale, confermando il grande dinamismo anche antropologico dietro la frequentazione del caleidoscopio patrimoniale sardo.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1] https://www.internationalcommunicationsummit.com/it/ics-newszine/ics-academy/la-netnografia-spiegata-dal-suo-fondatore-robert-kozinets
[2] https://www.facebook.com/groups/974221773163037/?hoisted_section_header_type=recently_seen&multi_permalinks=1393008394617704
[3] https://www.facebook.com/groups/192933174109569
[4] https://www.facebook.com/Resistentzia
[5] https://netbox.altervista.org/resistentzia/?fbclid=IwY2xjawIgeaVleHRuA2FlbQIxMAABHV2Fwkj6z14vxkrJydB0eOQe2SIkd6cM_jSYatNt-uz63RaqEkCQMGIhdA_aem_k8jOiSRqJT5qpsXFfcjYCw
[6] Provate a cercare, ad esempio, su Google, “Pizzeria Shardana”.
[7] https://www.facebook.com/profile.php?id=100045092173529
[8] https://www.youtube.com/watch?v=DL09vHFqfx8
[9] https://www.cagliaripad.it/548966/antico-alfabeto-sardo-la-scrittura-e-stata-inventata-in-sardegna/?fbclid=IwY2xjawIZzlVleHRuA2FlbQIxMQABHbOuNcVqxM3K0DF7-7HQTMGleb6FBMpXj_YW0qh7U1xkzsq668pB47DgPg_aem_2_NY7rJT3hGFkgtRCMitqg
[10] https://www.facebook.com/profile.php?id=100045092173529
[11] https://www.facebook.com/groups/1605894123018633/?hoisted_section_header_type=recently_seen&multi_permalinks=3437464076528286
Riferimenti bibliografici
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Nicolò Atzori, dottorando di ricerca in antropologia sociale presso l’Università degli Studi di Sassari, è una guida museale e didattica (CoopCulture) attiva a Sardara, paese del Campidano centrale. I suoi interessi di ricerca spaziano dall’antropologia del patrimonio – con particolare riferimento all’antropologia museale – all’antropologia digitale, ma non manca di una prospettiva d’indagine incentrata sul paesaggio e sulle tradizioni popolari. Formatosi, fra le altre cose, nell’ambito delle digital humanities, tenta di coniugarne l’approccio a quello della ricerca etnografica ed etnologica in senso classico, secondo l’orientamento dell’antropologica storica. Sta frequentando il master di Antropologia Museale e dell’Arte della Bicocca.
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