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Il basilico e le teste di moro siciliane

  (Opera di Antonio Navanzino).


Opera di Antonio Navanzino (ph. Stefano Puglisi)

di Stefano Puglisi

Giuseppe Pitrè in Fiabe e Novelle e racconti popolari siciliani ci racconta di una leggenda ambientata nel quartiere della Kalsa a Palermo. La storia è legata secondo le credenze popolari siciliane alle “teste di moro”, ovvero i vasi tradizionali in terracotta antropomorfi in cui vengono generalmente coltivati gli aromi. La leggenda presenta due versioni, la prima ci racconta di una giovane donna che affacciandosi dal suo balcone, per prendersi cura delle piante, conosce un soldato saraceno del quale si innamora. I due iniziano una relazione sino a quando il moro gli comunica alla ragazza che sarebbe tornato in Oriente da sua moglie e i suoi figli. In preda alla disperazione la ragazza medita una vendetta, nel mezzo della notte decapita il moro e conserva la sua testa per trasformarla in un vaso dove coltivare il basilico, innaffiando la piantina con le sue lacrime. La pianta diventa così rigogliosa tanto che nel quartiere in molti decidono di farsi fare dai vasai teste simili a quella della giovane donna.

In un’altra versione, una giovane di buona famiglia siciliana si innamora di un arabo. Dal loro incontro nasce una relazione clandestina che una volta scoperta porterà alla decapitazione dei due giovani innamorati. Le due teste degli innamorati vengono trasformate in vasi per i fiori ed esposte nel balcone come ammonimento per chiunque avrebbe voluto intraprendere una relazione simile. Questa credenza è confermata anche dal Boccaccio nel Decamerone, nella novella V della IV giornata nella storia di Lisabetta da Messina.

Vaso plastico della Magenta, testa femminile, necropoli del Fusco, III sec. a. C., Museo Archeologico "Paolo Orsi", Siracusa

Vaso plastico della Magenta, testa femminile, necropoli del Fusco, III sec. a. C., Museo Archeologico “Paolo Orsi”, Siracusa (ph. Stefano Puglisi)

La versione di Boccaccio racconta della giovane e nubile Lisabetta che viveva con i suoi tre fratelli mercanti. La ragazza si innamora di Lorenzo, un garzone al servizio dei fratelli. I due iniziano una relazione clandestina che non avrebbe mai trovato approvazione. Quando una notte uno dei fratelli scopre Lisabetta recarsi dal suo amato, in accordo con gli altri due, per salvare l’onore della famiglia, uccidono Lorenzo. Non avendo sue notizie Lisabetta si dilania dal dolore, quando una notte Lorenzo gli apparve in sogno rivelandogli il posto dove si trova sepolto. Il mattino seguente la ragazza ritrova il corpo dell’amato, decide di staccargli la testa con un coltello per poi riporla all’interno di un vaso di basilico che annaffia con le sue stesse lacrime. Saputo dai vicini che Lisabetta passava tutto il giorno a curare il basilico, i fratelli le sottraggono il vaso e scoprendo la testa di Lorenzo, per la paura di essere incolpati di tale morte decidono di trasferirsi lontano. Lisabetta privata di ciò che rimaneva del suo amato finì col morire di dolore. 

Ma che cosa hanno in comune il basilico e la testa del moro? 

Testa maschile di Baal-Hammon, II sec. a.C. Museo Nazionale di Cartagine

Testa maschile di Baal-Hammon, II sec. a.C. Museo Nazionale di Cartagine (ph. Stefano Puglisi)

Gli alchimisti attribuivano al basilico proprietà occulte, considerandola una delle piante sacre del Paradiso. Il basilico nel campo della magia viene utilizzato per appianare i conflitti tra gli innamorati, grazie al suo gradevole profumo è in grado di rendere armonia nella casa. Il basilico ha diversi significati divergenti. Il suo potere è ambivalente e spesso contrastante, in molte culture ed epoche gli sono state attribuite proprietà positive e benefiche, in altri poteri negativi e diabolici. Per gli antichi Egizi e i Greci, il basilico era collegato simbolicamente alla morte, di buon auspicio per accompagnare il morto nell’aldilà, e veniva usato per le imbalsamature. 

Originario dell’Asia Tropicale, in particolare dell’India e Africa, viene introdotto in Europa da Greci e Romani attraverso il Medio Oriente dai tempi di Alessandro Magno, intorno al 350 a.C., mentre l’uso culinario massiccio nel bacino del mediterraneo risale soltanto al XV secolo. Secondo la tradizione, si racconta che la tomba di Cristo fosse adornata con piante di basilico e infatti, ancora oggi, il basilico viene usato per addobbare gli altari delle chiese ortodosse. I Crociati riempivano la stiva delle loro navi di basilico al ritorno dalla Terra Santa perché, secondo loro, la pianta teneva lontano insetti, malattie e cattivi odori.

Kantaros con figura antropomorfa di testa di satiro, Atene V sec. a. C., Museo archeologico nazionale di Napoli

Kantaros con figura antropomorfa di testa di satiro, Atene V sec. a. C., Museo archeologico nazionale di Napoli (ph. Stefano Puglisi)

Il basilico, conosciuto e apprezzato tardivamente in cucina, ha accompagnato diverse credenze e superstizioni dal periodo antico al medioevo. Così la leggenda sembra suggerire che la connessione tra il basilico e la testa del musulmano hanno un’equivocabile relazione con il trapasso nell’aldilà. Ed è questo sostanzialmente il significato originario delle teste di moro siciliane, ovvero dei vasi che rappresentano teste umane stilizzate, spesso dipinte con colori vivaci e decorazioni elaborate.

Le origini esatte delle teste di moro siciliane non sono del tutto chiare, ma si ritiene che abbiano radici nel periodo della dominazione araba in Sicilia tra l’VIII e il XIII secolo. Durante questo periodo, l’arte e la cultura araba hanno avuto un’influenza significativa sull’Isola, e se consideriamo le teste di moro così come si presentano adesso con la ormai classica invetriatura piombifera, tecnicamente la manifattura riporta al periodo arabo. In particolare Caltagirone diventa un centro della ceramica stilisticamente variegato, in cui le tecniche orientali, come quella dell’invetriatura, sostituiscono gli ingobbi di epoca classica. Grazie alla qualità e all’abbondanza di argilla, ma anche alla vicinanza di boschi necessari all’approvvigionamento di legna per la cottura, nel medioevo l’industria del vasellame invetriato cresce notevolmente.

Nella collezione del Museo della Ceramica di Caltagirone, nella sala dedicata ai manufatti medievali sono esposte ceramiche siculo-arabe e normanne dal X al XV secolo. Fra le più antiche quelle ben documentate rinvenute ad Ortigia, nell’area del Tempio d’Apollo, dove si trovavano fornaci per la produzione ceramica in età medievale. In particolare una ciotola del X secolo, con invetriatura piombifera e decorazione dipinta in giallo, verde e bruno; ciotole in protomaiolica decorate in bruno e verde o in policromia del XIII secolo, e un terzo gruppo decorato in bruno del XIV secolo; e poi brocche, anfore e boccali. Nei reperti a partire dal XV secolo l’invetriatura del rivestimento delle ceramiche diviene più brillante e corposa, assumendo le caratteristiche dello smalto. È nata la maiolica, generalmente utilizzata per la produzione di ciotole decorate in blu con motivi fitomorfi, o in blu e lustro con motivi floreali. 

Busto di Persefone, Morgantina, 325-320 a. C., Museo archeologico regionale di Aidone

Busto di Persefone, Morgantina, 325-320 a. C., Museo archeologico regionale di Aidone (ph. Stefano Puglisi)

Ma soffermiamoci per un attimo sugli aspetti formali e iconografici, di certo i racconti popolari riassunti precedentemente appartengono già ad un tempo in cui i musulmani avevano lasciato la Sicilia. E come accade nella genesi di molte leggende, quando in virtù di processi culturali si è dimenticato il significato di un oggetto se ne reinventa il senso, si cercano dei collegamenti per giustificare la capacità di quella forma di superare i cambiamenti cosmologici. Allora partiamo dal considerare che il vaso antropomorfo non è senza dubbio una invenzione araba, è interessante infatti osservare che in diverse religioni della cultura araba come l’ebraismo e l’islam si esercita l’aniconismo. Diversamente nella cultura egiziana ed etrusca, si è sempre fatto largo uso di icone antropomorfe.

Il canopo ad esempio è un’urna funeraria, fatta in terracotta a forma di vaso ovoidale, le braccia appena abbozzate e il coperchio a forma di testa rappresentante il defunto. In Egitto venivano usati quattro canopi destinati alla conservazione dei visceri mummificati. I più antichi di legno hanno il coperchio con la testa di una divinità, in seguito diventano di terracotta smaltata a testa d’uomo, sciacallo, falco, cinocefalo, i cosiddetti “quattro figli di Horus”. Il canopo è sicuramente la versione più ancestrale del vaso antropomorfo, se non si vuole intraprendere un viaggio simbolico primitivo sull’idea stessa del vaso in terracotta, diffuso in tutte le culture del mondo sin dalla preistoria, legato simbolicamente alla sua funzione uterina, largamente diffuso nel culto della Dea Madre neolitica del Medio Oriente.

Testa di Demetra/Kore, Morgantina, 350-300 a. C., Museo archeologico regionale di Aidone

Testa di Demetra/Kore, Morgantina, 350-300 a. C., Museo archeologico regionale di Aidone (ph. Stefano Puglisi)

Il vaso è un utero, rappresenta la madre, è il ritorno laddove tutto ebbe inizio. La tipologia con volto antropomorfo è riscontrabile in Oriente come nelle culture precolombiane, ma è soprattutto nella cultura greco-romana che ne ritroviamo diverse forme e utilizzi. Nella cultura greca antica è presente il vaso a forma di testa, o diversamente con la testa dipinta frontalmente. La figura del moro, come quella della fanciulla sono riprodotte nei crateri, nelle anfore, nei kantharos, negli oinochoe. In molti casi è possibile riconoscere il volto di una divinità in particolare, in generale la figura, sia maschile che femminile, si presenta nella maggioranza dei casi incornata, decorata regalmente con gioielli e copricapi fastosi. Ciò sembrerebbe suggerire che l’iconografia più tarda del maschio e della femmina, che si diffonde nel vasellame in genere, ha delle radici iconografiche divinatorie.

Statuetta ex voto, rappresentante Ade o Dioniso, Boezia, IV sec. a. C., collezione privata

Statuetta ex voto, rappresentante Ade o Dioniso, Boezia, IV sec. a. C., collezione privata (ph. Stefano Puglisi)

Basta guardare agli aspetti iconografici degli ex-voto utilizzati per il culto di Demetra-Kore in Grecia antica. Il modio, l’acconciatura regale, l’utilizzo di simboli di fecondità, hanno di certo più di qualcosa in comune con le teste femminili arrivate ai nostri giorni sotto l’etichetta di “teste di moro”. Anche Ade come Dioniso, incoronati, con la fulgida barba, iconograficamente si presentano come i prototipi delle forme vascolari antropomorfe della Grecia ed oltre. Certo con il tempo tali sintesi antropomorfe hanno assunto significati diversi, adattandosi alle trasformazioni cosmologiche imposte dal carrefour di civilizzazioni che contraddistingue le culture del mare Mediterraneo. Per esempio appare chiaro che nel mondo romano la ritrattistica assume aspetti naturalistici non riscontrabili nella cultura greca. Ma l’accostamento delle figure di Demetra/Persefone e di Ade non ha delle verosimiglianze esclusivamente formali. È evidente negli aspetti simbolici che l’iconografia delle “teste di moro” si riallaccia alla tematica della vita e della morte raccontata nel culto di Demetra. Allora a questo punto mi sembra doveroso ripartire dalla domanda di partenza. Che cosa hanno in comune il basilico e le teste di moro siciliane?  

Testa di uomo, Taranto, IV sec. a. C., Collezione privata

Testa di uomo, Taranto, IV sec. a. C., Collezione privata (ph. Stefano Puglisi)

Questa forma di vaso viene anche definito in dialetto “rasta”. Partendo dal presupposto che nella cultura contadina il vaso da giardino era prevalentemente usato per gli aromi, per piante medicali, appare chiaro che il basilico, pianta che cresce in primavera per fiorire alla fine dell’estate, rappresenta il momento della rinascita, ovvero quando Demetra, grazie all’intercessione di Zeus, ottiene di liberare sua figlia Persefone sei mesi l’anno dalla prigionia di Ade. Non a caso queste “raste” antropomorfe sono sempre in coppia, esse sono infatti considerate nella cultura popolare di buon auspicio, come già abbiamo detto per il basilico, per l’armonia della famiglia.

Nel caso delle “teste di moro” siciliane la loro simbologia nel tempo ha senza dubbio avuto diversi rimaneggiamenti. È plausibile che in origine la scelta del soggetto “moro” sia nata per sottolineare una concordanza più che per una discordanza. Non ci dimentichiamo che la Sicilia bizantina viene invasa dai musulmani dall’VIII e il XIII secolo, e in questa occasione chissà quante donne siciliane sono andate in sposa ai “mori”. Dopo la liberazione avvenuta ad opera di Ruggero d’Altavilla, il fantasma dell’invasione musulmana è rimasto sempre acceso, dando vita a credenze popolari in cui il “moro” è sempre il soggetto della discordanza. Sarebbe bene ricordarlo, soprattutto oggi che il politicamente corretto ha ritenuto le “teste di moro” un simbolo di razzismo e di discriminazione. Una tale fandonia può essere affermata solo da coloro che hanno affidato alla cultura della globalizzazione e del cancel cultur il loro senso comune, rinnegando la stessa storia che li ha resi tali.  

Vaso antropomorfo maschile, musulmano incoronato, sec. XIX, Caltagirone

Vaso antropomorfo maschile, musulmano incoronato, sec. XIX, Caltagirone, Museo Regionale della Ceramica (ph. Stefano Puglisi)

Sui vasi antropomorfi di Caltagirone  

Guardando la collezione di vasi antropomorfi disponibile al museo della Ceramica di Caltagirone ci si rende conto facilmente che l’idea della “testa di moro”, così come si è stabilizzata all’interno della nostra società dei consumi, diventa un concetto duttile e malleabile. Ciò che sorprende nelle diverse versioni di vasi e fiasche antropomorfe è il modo in cui in ogni tempo il manufatto richiama ad una propria identità culturale. Molti di loro hanno la corona ma anche una pronunciata faccia contadina, di uomini e donne del paese. Così per comprendere meglio il fenomeno dei vasi antropomorfi in Sicilia mi sono rivolto all’azienda Ceramica Navanzino, scoprendo che il tema della testa antropomorfa non è soltanto l’ossessiva ripetizione delle “teste di moro” incorniciate dalla moda e dal turismo, esse dimostrano altresì di essere un campo da gioco iconografico ancora in atto, dove tradizione e innovazione si compenetrano, dando vita agli aspetti identitari della cultura siciliana, la quale lungi da essere esaurita continua a sopravvivere nelle botteghe degli artigiani, tra la gente del mercato, in mezzo a coloro che prima di conoscere vogliono sapere, connettendo i brandelli della nostra ancestrale identità.  

Vaso antropomorfo maschile, musulmano incoronato da turbante, 1800, Caltagirone

Vaso antropomorfo maschile, musulmano incoronato da turbante, 1800, Caltagirone, Museo Regionale della Ceramica (ph. Stefano Puglisi)

Unico del genere in Sicilia, nel quale è documentato, sotto il profilo storico, tecnico e artistico, lo svolgimento plurisecolare della ceramica siciliana dalla Preistoria al XX secolo,  istituito con Decreto del Ministero della P.I.–Direzione Generale Antichità e Belle Arti, il 21 febbraio 1957, il Museo Regionale della Ceramica fu aperto al pubblico otto anni dopo, nel luglio del 1965, con sede presso i locali annessi al Teatrino del Bonaiuto, dopo i necessari lavori di adattamento e la fornitura di adeguate strutture espositive. Il primo direttore del Museo è stato il Prof. Antonino Ragona, infaticabile raccoglitore di reperti ed esperto ceramologo calatino. Il nucleo iniziale della collezione museale è costituito per l’appunto dalle ampie raccolte che l’illustre Professore aveva realizzato, a fini didattici, presso il locale Istituto d’Arte per la Ceramica, di cui era direttore.

Vaso antropomorfo femminile, giovane odalisca con copricapo e reggivelo, 1772, Caltagirone

Vaso antropomorfo femminile, giovane odalisca con copricapo e reggivelo, 1772, Caltagirone, Museo Regionale della Ceramica (ph. Stefano Puglisi)

A queste si aggiunsero i materiali ceramici concessi dal Museo Civico di Caltagirone e dai Musei siciliani di Palermo, Messina, Siracusa, Trapani e Gela. Completano il patrimonio museale l’importante collezione Russo-Perez, acquistata dalla Regione Siciliana allo scopo di incrementarne i beni e colmare le lacune prodotte dalla dispersione dei reperti avvenuta prima della nascita del Museo. I vasi antropomorfi più antichi sono collocati in diverse vetrine ed esposti senza alcuna didascalia o informazione anche minima. I dati, sia cronologici che tecnici, riportati sulle schede sono perciò frutto di comparazione e confronto con esempi e modelli contenuti nelle fonti bibliografiche e di pareri ed opinioni espressi da esperti ceramisti.    

Vaso antropomorfo femminile, 1974, Ceramiche Navanzino

Vaso antropomorfo femminile, 1974, Ceramiche Navanzino (ph. Stefano Puglisi)

L’Azienda di Francesco Navanzino apre la sua attività nel 1974, collocando la sua sede ai margini dell’antico quartiere dei ceramisti. Sin dall’inizio il noto artigiano si pone sulla scia della migliore tradizione calatina, interpretando in modo personale il caratteristico “ornato” in vasellame e oggetti ornamentali e realizzando terrecotte artistiche da giardino come anfore, vasi, bassorilievi e statuaria. Avendo inoltre acquisito i calchi e le forme della scomparsa Fabbrica Vella, le cui terrecotte impreziosiscono edifici pubblici e privati di Caltagirone, l’Azienda è in grado di riprodurre fedelmente i motivi e le opere da quella realizzati, cosa estremamente utile per il loro restauro. L’azienda Navanzino ha partecipato a diverse mostre organizzate dalla Regione Siciliana e fin dagli anni ‘80 esporta i suoi pregevoli manufatti in Italia e all’estero. Dal suo atelier sono usciti tanti giovani ceramisti che lì hanno appreso le tecniche tradizionali dell’arte e che riconoscono in Francesco Navanzino un “caposcuola”.

A partire dagli anni ‘90 nell’Azienda sono stati integrati anche i figli Luigi e Antonio che, avendo maturato studi ed esperienze diverse e personali, hanno ampliato la gamma di prodotti offerti agli acquirenti. Oggi l’Azienda Navanzino coniuga tradizione e contemporaneità e accanto alla produzione dei tipici manufatti calatini, eseguiti con le antiche tecniche, realizza restauro ceramico ed applica procedure innovative come la ceramizzazione della pietra lavica e la cottura a terzo fuoco. Le opere catalogate sono il risultato di uno studio e di una originale interpretazione dei temi e delle figure tradizionali: quelle del padre Francesco, più ancorate alla tradizione, fanno da contrappunto ai lavori di Luigi e Antonio, più audaci e innovativi; ma tutto il gruppo mostra accuratezza di esecuzione, armonia di decori e colori, plasticità e forza espressiva.   

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Riferimenti bibliografici  
Cilia Platamone E./A. Ragona, Museo della Ceramica, Siracusa, Novecento, 1995.  
Fagone V., Arte popolare e artigianato in Sicilia. Repertorio dell’artigianato siciliano – Caltanissetta/Roma, Sciascia, 1966 
Pitrè G., Fiabe e Novelle e racconti popolari siciliani, Il Vespro, Palermo, 1978 
Ragona A., La maiolica siciliana dalle origini all’Ottocento, Palermo, Sellerio, 1986  
Ragona A., Terra Cotta. La cultura ceramica a Caltagirone, Catania, Sanfilippo, 1991   
Ragona A., Il Museo della ceramica siciliana in Caltagirone, Caltagirone, Il Minotauro, 1996  
www.ceramicanavanzino.com 
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Stefano Puglisi, docente di Antropologia culturale all’Accademia di Belle Arti di Catania, insegna anche presso la scuola di teatro classico dell’INDA. Nella sua carriera si è occupato delle emergenze storico-artistiche dell’area culturale del Mediterraneo, sviluppando una proficua ricerca dei modelli di vita antropici. Tra le numerose pubblicazioni ricordiamo Verso una dimensione Ecologica e Prospettive di Antropologia culturale.

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