di Luigi Lombardo
“Husky” è parola ai più incomprensibile e priva di significato. Ma se la leghiamo a “operazione Husky”, tutto comincia ad apparire più chiaro. Con questa espressione si volle indicare la più importante azione militare del Secondo conflitto mondiale assieme allo sbarco di Normandia. Con questa operazione si volle «Costringere, o indurre, l’Italia a deporre le armi come unico obiettivo nel settore mediterraneo che giustifichi la campagna già iniziata e l’entità delle forze alleate disponibili in questo settore. L’occupazione della Sicilia costituisce la premessa indispensabile, mentre l’invasione della penisola italiana e la conquista di Roma sono, evidentemente, le mosse successive. In tal modo si potrà recare il massimo contributo alla causa alleata e al progresso generale della guerra […]». Così parlò Winston Churchill ad Algeri il 29 maggio 1943, annunciando appunto l’inizio dell’operazione “Invasione della Sicilia”.
Ottanta anni fa dunque si decise di dare una svolta decisiva al grande conflitto mondiale, attaccando il nemico italo-tedesco sul fronte meridionale. Ancora una volta la Sicilia diventa centrale, come porta del Mediterraneo, nella strategia delle truppe anglo-americane, che intendono colpire il cuore del territorio nemico. Agli Inglesi fu affidato il settore orientale, da Pozzallo a Siracusa, agli Americani quello occidentale, cioè da Scoglitti a Gela. Le due grandi armate, sbarcate nelle spiagge sud orientali avrebbero mosso alla conquista di Palermo e di Messina, cioè di tutta l’isola [1].
L’operazione ha inizio il 9 e 10 luglio 1943, annunciata da un fittissimo bombardamento messo in atto dalla flottiglia aerea che colpisce i centri del Sudest della Sicilia più vicini alle coste, come Palazzolo Acreide, sede della “gloriosa” divisione “Napoli”. Nel tardo pomeriggio del 9 luglio giunse al comando tedesco di Enna un laconico messaggio di un ricognitore tedesco in volo: «Vedo un mare nero di navi». Ma non fu creduto, considerato uno scherzo di pessimo gusto. Ma era la verità: nella notte toccarono le coste siciliane tra Gela e Cassibile «nel più imponente sbarco militare in tutta la storia del Mediterraneo, 160.000 soldati, 4.000 aerei da combattimento e da trasporto, 285 navi da guerra, due portaerei e 2.775 unità di trasporto, 1.100 mezzi da sbarco, 14.000 veicoli, 600 carri armati, 1.800 cannoni».
L’armata americana sbarca tra Gela e Scoglitti; quella inglese, assieme a un contingente canadese, tra la Marza (Pachino) e Augusta: il tutto senza grosse resistenze, anche se ci fu una certa mobilitazione di molte divisioni italiane che ebbero perdite consistenti. In particolare la divisione Napoli di stanza tra Palazzolo e Solarino oppose una strenua reazione, come leggiamo nei diari del generale. Molti atti di “eroismo” dei nostri soldati furono omessi e taciuti nei resoconti anche giornalistici, per non dire nelle relazioni ufficiali dei comandi anglo-americani: a tutti sembrò una passeggiata quella che fu una battaglia cruenta, come testimonia il cimitero inglese di Siracusa: perché la “storia la fanno i vincitori”.
Le grandi catastrofi, sia causate da eventi naturali (terremoti, eruzioni, uragani) che da fatti storico-sociali (guerre, conflitti armati, carestie ecc.), si imprimono straordinariamente nella memoria. Di esse si conservano i ricordi individuali che presto evolvono in memoria collettiva, tradizione orale, racconto. Il racconto – come si sa – si impreziosisce di immaginario, è esso stesso immagine, al punto che spesso ciò che si evoca è narrazione affabulante. Ne deriva che questa “fabula” si trasforma in racconto esemplare, pedagogico, ammonitore, simbolico. La verità storica si fa insegnamento morale, in quanto la declinazione mitica tende, coll’allontanarsi temporale dei fatti, a prevalere e a mettere in rilievo gli aspetti emblematici e paradigmatici dei tragici fatti. La storia diventa, in qualche modo, ammaestramento etico, severo magistero. Le catastrofi (compresi gli eventi bellici), pertanto, sono attribuite alle colpe degli uomini e alla conseguente punizione degli dèi, del dio.
I tragici bombardamenti di Palazzolo Acreide del 9-10 luglio 1943, se non hanno dato luogo a produzioni poetiche e ai cunti, che di solito si sviluppano da questi eventi, hanno favorito il fiorire di racconti, di storie vere e immaginarie, fondati sui “si dice”, “mi dissero”, che sono già la premessa della “affabulazione”.
Così, parlando nello specifico dei bombardamenti del 1943 a Palazzolo, la tradizione dei morti a centinaia sul piano della Guardia (un quartiere di Palazzolo), magari non corrisponderà al vero, o le fedi strappate a morsi dalle dita dei morti saranno un’immagine topica generata dalla fantasia ricreatrice della fabula; sta di fatto però che continuano a raccontarsi e a persistere nella memoria dei superstiti. La verità è che la storia trapassata nel mito non appare meno vera né sembra meno storia, poiché è vissuta, percepita e partecipata come tale.
Ci sono, in tutta evidenza, alcuni eventi storici che più degli altri si prestano a essere solennizzati, celebrati, “monumentalizzati”. Le guerre giocano sovente questo ruolo di marcatore e costruttore di memoria, essendo esperienze fondanti di elaborazioni narrative e commemorative. Da qui scaturisce il valore non solo simbolico delle testimonianze orali, la densità antropologica di certe soggettive ricostruzioni di avvenimenti e di vicende.
Certo che la guerra e le stragi conseguenti generano una sovreccitazione, e la realtà dei fatti storici ne risente. Questa “distorsione” dei fatti risponde probabilmente a una esigenza avvertita dall’uomo dinnanzi alla minaccia del negativo o a fronte dell’evento luttuoso. Disinnescare il negativo, placare l’inquietudine, esorcizzare l’irruzione della morte: questo è ciò che sembra muovere il processo di costruzione e d’invenzione del racconto, della “fabula”. Magari si finisce col fantasticare sul probabile “untore”, il traditore di turno, ritenuto responsabile e colpevole del fatto tragico. Così è avvenuto anche a Palazzolo laddove si è indicata in un personaggio locale la causa del bombardamento, cosa che la verità storica non ha per nulla confermato. Il problema è che quando questi fatti raccontati e tramandati si fanno verità storica, senza il minimo riscontro di prove, il “si dice”, distorcendo la realtà, travolge degli innocenti, che a mo’ di untori sono additati al pubblico ludibrio, se non alla irrimediabile condanna, alla maledizione perpetua.
La raccolta di memorie tramandate ha l’apprezzabile significato di consegnare alle future generazioni il pathos, stimolando l’empatia che il fatto trascina con sé. Ma certe verità “vere” o certi più profondi misteri stanno dietro o dentro le notule documentarie, nei grandi archivi segreti americani, ancora parzialmente indagati, perché parzialmente disponibili.
Chi come me della raccolta delle documentazioni orali ha fatto un motivo di studio ne conosce i limiti, come d’altra parte gli enormi pregi, se correttamente interrogate e interpretate: le stesse fonti si rivelano preziose e spesso insostituibili, a patto però di saperle contestualizzare. Ragionando sulle complesse relazioni tra oralità e scrittura, la “fabula” può aiutare la storia, e questa si fa palpitante racconto di un vissuto umano altrimenti definitivamente obliato.
Tra i meccanismi di placamento del negativo rientra anche il gioco infantile: la simulazione delle battaglie, scontri tra cavalieri per una dama, rievocazione di fatti storici, decaduti a scherzo, tiritere e filastrocche recitate per evocare fatti cruenti. In particolare sui bombardamenti del 1943 io stesso ricordo una tiritera che cominciava così: «L’apparecchio americano: butta bombe e se ne va». A parte l’evidente confusione tra inglesi e americani (per il popolo erano tutti miricani!), il terribile evento quasi si depotenzia, diventa motivo di gioco, e attraverso il gioco quasi si accetta, proiettato nei luoghi della memoria collettiva.
La verità è che lo sbarco fu preceduto dal lancio di centinaia di paracadutisti, molti dei quali uccisi in volo, o catturati appesi agli alberi. Uno ne catturarono a Palazzolo, alto, biondo, mortalmente ferito fu portato all’obitorio e disteso che sembrava un Cristo morto. Una processione mosse dal paese per vederlo disteso sul bianco marmo, bianco e di gentile aspetto, e l’unico commento, come mi racconta mia madre, fu «Poviru figghiu, pari n-Cristu mortu».
Per perpetuare la memoria e ad essa consegnare le innocenti vittime, proprio a Palazzolo, grazie alla generosissima offerta in denaro della famiglia Giompaolo, emigrata in Australia, è nato il “Viale dei caduti” (un tempo “Parco della Rimembranza”), dove su alti ceppi in pietra calcarea sono stati raccolti e incisi tutti i nomi dei morti palazzolesi nella Prima guerra mondiale e appunto nella Seconda guerra [2].
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
Note
[1] Cfr. uno degli ultimi lavori sullo sbarco, cioè A. Lo Cascio, 1943: la “reconquista dell’Europa: dalla conferenza di Casablanca allo sbarco in Sicilia, Terme Vigliatore (Me), Giambra, 2020.
[2] L’iniziativa è partita da un giovane cittadino palazzolese, Salvo Caligiore, cui la cittadinanza deve essere grata.
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate di recente ha pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa (2019); Taula Matri. La cucina nelle terre di Verga (2020); Processo a Cassandra (2021).
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