di Emanuela Filomena Bossa
L’Italia presenta un elevato numero di paesi dell’interno abbandonati, villaggi fantasma ormai dimenticati, dove nessuno abita e nessuno torna, veri e propri borghi cancellati dalla geografia, e in questo immenso spazio, la Calabria si configura come un’unica grande rovina, una rovina incompiuta, sinonimo di una terra in fuga, abbandonata e devastata.
Molti borghi, infatti, stanno scomparendo a causa dei terremoti, movimenti tellurici che hanno sempre interessato ed interesseranno anche in futuro la Terra. I terremoti radono al suolo interi borghi e questo per colpa dell’uomo che ha costruito precipitosamente i suoi “rifugi” senza ricordarsi che la crosta terrestre è costituita da placche in movimento su un mantello viscoso:
«Quello che ieri ai locali e ai forestieri appariva troppo pieno, il paese dell’interno pieno di persone e animali, oggi è diventato praticamente vuoto, “vacanti” […]. Spesso nei tanti villaggi dell’interno, quando muore una persona anziana o sola non si chiude solo una storia, si chiudono le storie, si chiude un’epoca, si chiude una casa, si estingue una famiglia, talvolta scompare un cognome» [1].
Intere aree interne, negli ultimi anni, si sono spopolate non solo a causa di terremoti e altri disastri naturali, ma anche a causa dell’emigrazione, della nascita di paesi doppi lungo le coste, della mancanza di servizi, lavoro e vie di comunicazione adeguate e a causa dei difficili collegamenti con i centri maggiori.
I luoghi calabresi che rischiano di essere completamente cancellati e dimenticati sono molti. In Italia, i paesi arroccati tra i monti sembrano quasi dei guardiani che sorvegliano dall’alto le valli e le marine. La Calabria è ricca di piccoli paesi presepe, di paesi “svacantati” (Teti, 2015) che tentano in ogni modo di aggrapparsi ai dirupi:
«I paesi sono quasi tutti collocati su dirupi dai fianchi scoscesi che ne aumentano l’isolamento, dopo aver bene assolto, in tempi lontani, il loro compito di difesa […]. I paesi sono per lo più assai distanti l’uno dall’altro, ma non in linea d’aria, bensì a causa della natura anfrattuosa e dirupata dei terreni, e si guardano indifferenti l’uno all’altro, come poveri che sanno di non potersi nemmeno dare una mano» [2].
Fantino, frazione [3] del comune di San Giovanni in Fiore (CS), è uno dei numerosi paesi presepe4 dell’interno che si stanno progressivamente svuotando. Si trova ai piedi del monte Gimmella e sovrasta la vallata di Carello, tra località Acquafredda e San Giovanni in Fiore. Camminando fra le vie del borgo, ci si rende conto come tutto sia immerso nel silenzio e come le rovine si impongano con forza sul paesaggio circostante. Ci sono rovine ovunque, rovine domestiche, naturali ma anche morali. Sono in rovina anche gli ultimi 5 abitanti con la loro visione apocalittica di una fine imminente e preannunciata. Si avverte il senso del troppo vuoto.
La storia dei paesi abbandonati o in via di abbandono è una storia comune, una tragedia a volte annunciata, a volte improvvisa, collocata in un tempo puro che si riempie di macerie. Sarà poi il fluire del tempo a trasformare le macerie in rovine:
«Le rovine aggiungono alla natura qualcosa che non appartiene più alla storia, ma che resta temporale. Non esiste paesaggio senza sguardo, senza coscienza del paesaggio. Il paesaggio delle rovine, che non riproduce integralmente alcun passato e allude intellettualmente ad una molteplicità di passati […], offre allo sguardo e alla coscienza la duplice prova di una funzionalità perduta e di un’attualità massiccia, ma gratuita […]. Il “tempo puro” è questo tempo senza storia, di cui solo l’individuo può prendere coscienza e di cui lo spettacolo delle rovine può offrirgli una fugace intuizione» [5].
Le rovine aiutano a conservare il ricordo di ciò che altrimenti verrebbe dimenticato, indicano una sopravvivenza al tempo. Nei luoghi abbandonati o in stato di semi-abbandono, la vita è andata via di colpo lasciando i suoi manufatti, i suoi oggetti quotidiani, dei segni sul territorio. Gli edifici hanno forme obsolete e sconquassate, sono scoperchiati. Le rovine produrranno inevitabilmente altre rovine. La vista delle rovine provoca allo stesso tempo pace e inquietudine, senso di precarietà, di distruzione, del trionfo della natura sull’uomo. Le rovine hanno molteplici e nascosti significati:
«Ogni rovina è, al fondo, infinito contrasto non risolto. Sospesa in una fine, piuttosto che finita. A differenza però della maceria, che è ormai un relitto inerte, scarto nel consumo del tempo» [6].
Fantino è un caso di luogo che non si rassegna a morire, che cerca strenuamente di difendersi e di esistere. La parte inferiore del borgo è completamente abbandonata, resistono solo i muri perimetrali delle abitazioni, mentre il resto è crollato ormai da anni e marcisce al suolo ricoperto dai muschi e dalle erbe spontanee. All’interno di alcune case la natura ha ripreso nuova vita e gli animali notturni le popolano, facendo rivivere un borgo che sprofonda nella terra giorno dopo giorno. Crescono alberi da frutta spontanei: roveti di more e fichi selvatici, testimonianza di una natura che continua a fare il suo corso anche senza l’uomo, di una natura che si riappropria di tutto ciò che l’essere umano le aveva sottratto.
Chi giunge a Fantino e non conosce il territorio circostante non riesce ad avere subito una visione d’insieme; le abitazioni, che non hanno i tipici tetti spioventi delle case di montagna e non sono in legno, ma in cemento o muri di pietra (soprattutto locale) a secco con poca calce e tegole per i tetti, sono sparse sulla rupe di tufo scoscesa. Alcune di esse, pochissime, sono ancora abitate, altre abitabili, altre marciscono nel silenzio e nella dimenticanza. Molti sono i ruderi. Gran parte delle case è stata costruita con la calce viva, prodotta in loco, nelle cosiddette carcare.
Nella parte superiore del borgo, detta “Fantino Soprano”, abitano oggi gli ultimi tre nuclei familiari rimasti: le famiglie Cortese-Loria, Loria, i Ciccone. Ivi è stata costruita nel 1975 la nuova chiesa dal parroco Don Carlo Arnone e nel corso degli anni sono state ristrutturate gran parte delle abitazioni, dove periodicamente alcuni dei vecchi abitanti tornano per pochi giorni. I fantinesi che abitano a San Giovanni in Fiore non hanno reciso il loro legame con Fantino, non sentono di essere sangiovannesi, ma fantinesi a tutti gli effetti. La residenza a San Giovanni in Fiore è solo civile, ma non emotiva.
I primi fabbricati sono sorti intorno al 1830-1835, quelli dei Loria nella zona più bassa del borgo e quelli dei Talerico nella zona più alta. Da questo momento sino al 1950, la crescita demografica è stata rapida. Intorno al 1835 abitavano stabilmente a Fantino 10-15 persone. Controverse sono le notizie relative all’origine di Fantino: o lo sviluppo a inizio Ottocento grazie a due famiglie che impiantarono degli stazzi e ortalizi, o la fondazione da parte di un “eroe eponimo”, in questo caso un contadino di Pedace o Spezzano o un monaco del vicino Monastero dei Tre Fanciulli, oppure la nascita grazie all’azione che l’ordine dei Florensi esercitò su quelle terre. La questione resta perciò aperta, certo è che l’origine di Fantino è legata a quelle due attività che permettevano agli uomini di sopravvivere: allevamento e agricoltura.
Il piccolo borgo si potrebbe considerare come una sorta di centro storico di San Giovanni in Fiore (De Paola, 2011), la sua festa patronale San Giuvanniellu riprende quella del santo patrono San Giovanni Battista a San Giovanni in Fiore. È avvenuto quindi, per Fantino, uno spostamento verso la montagna, anziché verso le marine, una sorta di migrazione in circolo che poi si è conclusa negli anni ’50-‘60 del Novecento con l’inizio dello spopolamento di Fantino e il “nuovo appaesamento” nel paese doppio.
Nel corso del tempo, la storia del piccolo borgo ha attraversato momenti difficili, ma anche di grande incremento demografico e fioritura economica. Si viveva nella povertà, nell’umiltà, ma al contempo nel rispetto e nella cordialità. Il borgo ha sempre vissuto in un grande isolamento, terminato negli anni ’50 (anni in cui inizia gradualmente e lentamente a spopolarsi) con la costruzione della strada di Gimmella tra il 1950-1960, vedendovi impiegati molti fantinesi. Altri servizi, quali la luce elettrica [7] e la fogna [8], sono arrivati solo più tardi, rispettivamente nel 1959 e nel 1974.
La strada ha portato via dal borgo natìo molti fantinesi, e i pochi rimasti hanno continuato a praticare un commercio interno, scambiando, senza moneta, i prodotti della terra e dell’allevamento. Eppure il progresso ha portato ad uno spopolamento inevitabile. In particolare, si sono verificati alcuni grandi esodi tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento, dovuti ad alcune condizioni imprescindibili: la scuola elementare pluriclasse era stata chiusa, non c’era lavoro, non c’era una farmacia, un ambulatorio, un ufficio postale, una delegazione comunale, nemmeno un cimitero, insomma mancavano tutti i servizi necessari, e per alcuni fantinesi, lasciare il borgo è stato una necessità. Si andava altrove per vivere meglio, perché a Fantino i servizi, anche col passare del tempo, non sono stati forniti. Dunque si emigrava e questo non per il semplice gusto di viaggiare, ma per sopravvivere.
Dal West Virginia, è arrivata a Fantino Saletta Mancina, italo-americana che aveva sposato il fantinese Giovanni Talarico, emigrato lì prima della Grande Guerra e tornato a Fantino con la moglie nel 1925 per occuparsi della proficua azienda agricola familiare. È stato difficile per Saletta Mancina adattarsi ad una vita di stenti e sacrifici, quale era quella che doveva vivere a Fantino; non aveva più gli agi e le comodità di cui aveva potuto godere in America. La donna fu sull’orlo di una crisi di follia nel momento in cui si accorse che nella sua abitazione mancava il bagno; il marito, così, per accontentarla, costruì un bagno appositamente per lei. Eppure era un’altra la caratteristica di Saletta Mancina che tutti i fantinesi ricordano, al di là delle sue eccezionali doti di sarta, ovvero la sua sveglia. La donna era infatti in possesso di uno strumento di misura del tempo sconosciuto ai fantinesi, i quali, scopertolo, non la lasciarono più in pace: ogni passante cominciò a chiederle frequentemente che ora fosse. Molti italiani erano stati attratti dall’America, vista come il paese della Cuccagna.
Le migrazioni possono anche avere un senso inverso rispetto a quello a cui comunemente si pensa. Un viaggio da lineare può diventare circolare, nel senso che un migrante parte e approda in una nuova terra per poi ritornare in quella da cui era partito, per ragioni che possono essere molteplici: economiche, psicologiche, ricongiungimenti familiari, etc. Per quanto riguarda Fantino, chi se ne è andato non è più tornato perché, andandosene, cercava benessere e migliori condizioni di vita, che ha trovato nel posto in cui si è trasferito (ad esempio, a Fantino, d’inverno, la gente si chiudeva in casa per intere settimane e consumava le provviste accumulate durante il resto dell’anno). Ci sono state però delle eccezioni: il ritorno di Giovanni Talarico assieme alla moglie italo-americana Saletta Mancina, il ritorno a Fantino dalla Svizzera della coppia Cortese-Loria che attualmente vive ancora a Fantino e il ritorno recente a Fantino di Antonio Ciccone assieme alla sua compagna Tetyana Oleksiyenko.
A Fantino, come in altri piccoli borghi italiani, c’è una festa del ritorno: la festa di San Giuvanniellu, la quale si configura non solo come un fatto religioso ma anche antropologico. Si tiene, a partire dal 1960, la seconda domenica di settembre. Fino agli anni ‘30 del Novecento si è invece svolta la prima domenica di settembre in concomitanza con quella della Madonna del Trium Puerorum (la notte di sabato si partecipava alla veglia di preghiera [9] nella chiesa della Patìa e la domenica mattina i pellegrini si recavano a piedi a Fantino, dove si tenevano la Messa, la processione e i giochi popolari). La statua oggi venerata «è alta con la base cm 145 e raffigura il Battista senza sandali ai piedi, vestito di una pelle chiara di cammello e di un mantello rosso e con nelle mani il libro e l’agnello simbolici» [10]. Originariamente era portata in processione una tela raffigurante il Decollato, oggi scomparsa, e successivamente una piccola statua di cartapesta a mezzo busto (da qui il diminutivo San Giuvanniellu), sostituita poi dalla statua attuale.
È una festa celebrata in mezzo alle rovine, è la vita che si sovrappone, anche se per un solo giorno, ad una morte che potrebbe essere imminente. È un complesso di forze che coinvolge la stessa natura. Il santo, ruotando tre volte su se stesso sulla soglia della chiesa, benedice ogni angolo del borgo e anche il più remoto rudere invaso dalle erbacce.
Alla festa religiosa (Messa e successiva processione) e alla festa intesa anche in senso folklorico (dimensione espressa dalla degustazione di prodotti tipici, dai giochi popolari e dalla presenza di gruppi musicali folk) partecipano un gran numero di persone, sia giovani che anziani. Viene ristabilito un rapporto col passato, si riallaccia il cordone ombelicale con la terra d’origine: «Soprattutto quanti sono nati e cresciuti nei paesi abbandonati mantengono legami sottili e complessi con i luoghi perduti […]. Nel giorno del ritorno, del ricongiungimento, della memoria e della nostalgia i paesi abbandonati perdono di nuovo il loro silenzio, riacquistano voce, colore e canti. Le persone che vi ritornano per le feste si abbracciano, si raccontano, visitano le vecchie abitazioni […]. Molte persone non nascondono il piacere di essere andate via dai luoghi abbandonati, perché considerati, comunque, non abitabili. Nello stesso tempo sono contente di tornarvi, sia pure per un giorno» [11].
La devozione religiosa diventa anche devozione ai luoghi. A Fantino, infatti, la processione non attraversa solo le strade di “Fantino Soprano”, ma anche quelle di “Fantino Sottano”; è come se il santo venisse portato a contemplare i ruderi e gli si facesse la richiesta implicita di salvare quel poco che ancora resta. Durante la processione tutti pregano e guardano al santo per chiedere di alleviare i propri affanni e le proprie fatiche. Dopo la Processione, il santo ritorna in chiesa, dove alcuni fedeli attendono per poter baciare la statua, gesto che diventa simbolo per eccellenza della pietà popolare. Il bacio alla statua è segno di comunione, segno attraverso il quale si entra in contatto direttamente col santo.
Alla vita del borgo è anche legata la vicenda di Agostino Talerico che s’inserisce in un periodo storico davvero difficile per la nazione. Sono gli anni della violenza fascista, della povertà, della miseria, gli anni dell’orrore della Seconda guerra mondiale. Agostino, quando l’Italia entrò in guerra nel 1940, era solo un bambino. Figlio di Giovanni – Domenico Talerico (agricoltore) e Caterina Loria (casalinga) –, ultimo di 5 fratelli (aveva anche 5 sorelle), è nato a Fantino il 16 agosto 1928. Fantino era al tempo della nascita di Agostino un borgo tranquillo che viveva di agricoltura e allevamento, di duro lavoro e cura dell’orto, di aratura, semina e raccolta, di conserve. Agostino era un ragazzino semplice e amorevole ed era molto legato alla sorella, più piccola di lui di tre anni. Era analfabeta, ma aveva un gran cuore, era affezionatissimo al suo cane e soprattutto era gentile con tutti:
«Lasciava trasparire dal suo volto i segni d’amore, di una bontà immensa, di espressione semplice e pulita […]. Il giovane Agostino è stato così chiamato da Dio, che lo ha voluto vicino a sé ed intercede per noi in cielo. Questo perché non cadesse nel peccato che è il vero male» [12].
Da ragazzino ha subito iniziato ad aiutare la famiglia, facendo il pastore ai Serrisi. Aveva una grande passione per la musica, suonava infatti una chitarra che aveva acquistato ad una fiera locale e l’organetto. La sorella Rosa ricorda di aver passato insieme a lui il giorno prima della morte e, ancora oggi, lo sente vicino, come se non fosse mai andato via. Quando lei prega, lui l’ascolta, è una presenza costante che non l’abbandona mai. Agostino per la chiesa cattolica, per il momento, non fa parte della schiera dei Beati, ma chi lo ha conosciuto e chi ha potuto godere per sua intercessione della Grazia di Dio, lo considera “Beato”, patrono spirituale di Fantino. La Curia ha comunque in mano documenti e testimonianze delle virtù spirituali del pastorello di Fantino e li sta tuttora valutando per il processo di beatificazione.
Agostino aveva soli vent’anni quando, mentre pascolava il gregge in località Serrisi, un fulmine a ciel sereno lo ha colpito in pieno. Non era solo, con lui c’era anche un compagno di lavoro; ma mentre l’amico è riuscito a salvarsi, Agostino è stato colpito in pieno.
«Le autorità archiviarono il caso come fatto accidentale, ma in realtà Agostino era stato fulminato dalla luce dell’amore di Dio. In quel luogo, dove la gente era solita portare un fiore in suo ricordo, si trova oggi una cappella marmorea» [13].
Agostino riposa nel cimitero di San Giovanni in Fiore. Dopo la morte, nel 1951, si è manifestato ad una giovane del luogo sua amica, da lui scelta per il suo animo gentile. Lei lo vedeva con la coroncina del S. Rosario in mano, inviato a compiere una missione di conversione ad un’umanità che, per la propria realizzazione, non vedeva altro che il duro lavoro e dava poco spazio alla pratica religiosa. Agostino appariva all’ora stabilita, nel posto stabilito e nel giorno stabilito. La ragazza entrava in estasi [14] (estasi intesa come rapimento. Per quanto riguarda l’estasi nel suo significato mistico e religioso, è utile seguire la spiegazione di Santa Teresa d’Avila: “Vorrei saper spiegare, con l’aiuto di Dio, la differenza che passa fra l’unione e il rapimento, o elevazione, o volo dello spirito, come lo chiamano, o trasporto, che è tutt’uno; intendo dire che questi differenti nomi indicano la stessa cosa, che si chiama anche estasi […]. Durante questi rapimenti sembra che l’anima non sia più nel corpo, tanto che questo, sensibilmente, sente che gli viene a mancare il calore naturale e, a poco a poco, si raffredda, anche se con grandissima soavità e gioia […]. In queste estasi si hanno vere rivelazioni, grandi grazie e visioni; tutto serve a rendere l’anima umile, a fortificarla, a farle disprezzare le cose di questa vita e a conoscere meglio l’eccellenza del premio che il Signore tiene riservato per coloro che lo servono” [15].
La giovane era l’unica a vederlo durante l’apparizione e, dinnanzi ad una comunità di presenti, lui parlava e lei riferiva il suo messaggio. Ed è in questo contesto che si inserisce il dialogo “O Dio Beato”, trascritto da due persone con solo la terza e la quinta elementare. «Il dialogo avrebbe dovuto essere più lungo e preciso, quindi più ricco di verità dogmatiche cristiane» [16]. Si tratta di un dialogo avuto con Dio, che Agostino, tramite la giovane del luogo, ha esposto ai presenti. Agostino si rivolge a Cristo con un’invocazione, parlando del Verbo che si è fatto uomo ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. Cristo si è fatto umile, si è fatto Bambino, si è fatto carne, ed è nato fra gli uomini per salvare il mondo dal male e dal peccato. Agostino dice di essersi salvato perché Dio gli ha “dato la licenza”, qui per licenza s’intende il “licere” latino, cioè il permesso, il privilegio di salire al cielo, di essere accolto nella schiera dei Beati. Dio lo ha scelto, perché il Signore sceglie gli umili, i puri di cuore grandi nello Spirito, e lo ha condotto “alle Massime Eterne”, ossia al Paradiso (bisogna considerare che “Massime Eterne” è anche il libro di spiritualità scritto da Sant’Alfonso Maria de’ Liguori), dove è stato presentato alla Celeste, ossia a Maria Madre di Dio. Dio lo chiama “Beato” e lo ha salvato per il suo essere “piccolo”, qui l’aggettivo non è da interpretare in senso fisico, ossia “ragazzino, bambino, piccolo per la sua età”, ma in quanto piccolezza dell’anima, umiltà, bontà e grazia. Agostino chiede poi alla Mamma Celeste di confortare la sua mamma terrena, come è precisato nell’ultima strofa.
Per dare il suo conforto ai genitori, dopo la morte, all’imbrunire, la chitarra di Agostino suonò alla stessa ora tre corde, per un po’ di tempo. Ogni anno a Fantino, nel mese di giugno e ai Serrisi nella chiesetta del SS. Crocifisso, dopo Ferragosto e da qualche anno per l’anniversario della sua morte il 30 agosto nella chiesa del SS. Hecce Homo (dove si trova anche una sua effigie), si celebrano delle Messe in suo onore. Agostino avrebbe dato diversi segni della sua presenza e della volontà di Dio e avrebbe compiuto alcuni miracoli, che in questa sede non vengono trattati, in quanto in mano alla Curia e in corso di verifica. Agostino è apparso in sogno, ha manifestato più volte la sua vicinanza e presenza offrendo conforto.
Conclusioni
Fantino è un borgo rurale che vive ormai di tre diverse istanze: un abbandono inarrestabile, lento e continuo, la nostalgia dei vecchi abitanti e un ritorno improbabile ma non impossibile. Forte è il senso d’identità dei vecchi abitanti, ma i ritmi, le esigenze e le mode della società attuale, votata alla tecnologia, al virtuale e alla velocità, non rendono possibile purtroppo il totale ripopolamento di un borgo rurale, a ciò si aggiunga il terribile stato in cui si trovano gli edifici, soprattutto della parte inferiore del borgo. Un progetto di riqualificazione delle strutture abitative potrebbe attrarre nel borgo quanti necessitano di un’abitazione (stranieri, contadini) ma si tratterebbe comunque di presenze effimere che non rendono luogo un paese.
I paesi possono dunque sprofondare nell’oblio e sparire, ma non i luoghi. Essi non muoiono anche quando ormai non è rimasta alcuna presenza umana, i luoghi continuano a vivere nel ricordo, nella memoria, sulla pagina scritta. Sono le persone che danno plasticità ad un luogo. I luoghi sono mobili, hanno una loro dimensione storica e temporale, sono sempre antropizzati e relazionali:
«Il luogo è ciò che di esso hanno fatto le persone che lo hanno abitato e che lo abitano, quelle partite e quelle che arrivano. Il luogo ha una storia. Il luogo ha un senso, ci sente, ci avverte [...]. Il luogo dell’uomo ha a che fare con il tempo, con la memoria, con i ricordi, con l’oblio [...]. Il luogo antropologico è abitato, umanizzato, riconosciuto, periodicamente rifondato dalle persone che di quel luogo fanno o si sentono parte» [17].
Fantino è un paese in disfacimento, ma allo stesso tempo un luogo convalescente. Un paese è ciò che tiene attaccato l’uomo ad un luogo, il segno fisico e tangibile, il composto materiale dove l’uomo lascia il segno del suo passaggio. Un luogo è invece elemento non fisico, che rientra nella sfera delle emozioni, delle relazioni e interazioni fra uomini appartenenti alla medesima comunità sociale e continua a vivere anche dopo la morte di un paese.
L’unico destino per tutti i piccoli paesi dell’interno, compreso Fantino, pare il medesimo: o lo spopolamento definitivo e il degrado (anche se ultimamente si assiste al fenomeno dei paesi in vendita) [18] o lo stanziamento di immigrati (come è avvenuto a Riace) [19] o il ripopolamento da parte di turisti in alcuni periodi dell’anno, ma non è questo che rende un luogo nuovamente un paese. Nei luoghi vivono le memorie, nei paesi le persone, quali però presenza costante e non effimera e vacanziera. I paesi richiedono presenza, i luoghi un paese vivo con una comunità umana attiva.
Per restare bisogna mutare sguardo, interrogarsi con nuove prospettive sul senso dei luoghi. Tuttavia, il destino di un luogo è difficile da definire, non ci sono regole assolute che permettano di segnalarne un futuro che non è prossimo, ma ancora lontanissimo.