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Il buffone sul trono in nome del popolo. Per un’antropologia culturale di Donald Trump

0_gqisd6q4lhjlftmmdi Pietro Vereni 

Trump come trickster politico: una figura mitologica per la modernità

La rielezione di Donald Trump non è un fenomeno inspiegabile né una deviazione anomala dal percorso politico tradizionale degli Stati Uniti. Al contrario, può essere letta con le lenti dell’antropologia religiosa e del simbolismo, che ci offrono strumenti più adeguati per comprendere il significato culturale e politico della sua ascesa. Lontano dalla figura carismatica delineata da Max Weber, Trump si avvicina di più al trickster, una figura mitologica presente in numerose culture, che rompe le regole e ne crea di nuove, sovvertendo il senso comune. Questa interpretazione è stata avanzata già nel 2016 da Rosario Forlenza e Bjørn Thomassen, che nel loro breve testo Decoding Donald Trump: The Triumph of Trickster Politics (Forlenza e Thomassen 2016) hanno sottolineato come il fenomeno Trump possa essere meglio compreso alla luce delle teorie di Agnes Horváth sul trickster politico (Horváth 2013; Horváth, Marankudakēs, e Szakolczai 2020).

Il trickster è un archetipo culturale presente in molte tradizioni religiose e mitologiche. Non è necessariamente un distruttore puro, ma piuttosto un agente del cambiamento attraverso il paradosso e l’eccesso. Carl Gustav Jung descriveva il trickster come una figura che incarna la parte più caotica e imprevedibile dell’animo umano, quella che si manifesta quando le società sono in crisi e cercano un punto di svolta. Nel caso di Trump, la sua capacità di infrangere le regole e contemporaneamente imporne di nuove ha creato un paradosso politico: egli è stato percepito (ed eletto!) come un ribelle antisistema, pur essendo un miliardario molto influente ben prima della sua elezione alla Casa Bianca.

Questa ambivalenza lo differenzia dalle classiche figure carismatiche weberiane. Trump sembra all’opposto della personalità carismatica: non possiede la grazia retorica di un grande oratore, né incarna una visione trascendente della politica. La sua forza sta nella capacità di sfruttare il caos e l’incertezza, usando un linguaggio elementare e ripetitivo che genera un senso di partecipazione immediata nei suoi sostenitori. Non è un leader nel senso tradizionale, ma un “trickster-in-chief”, che con le sue boutade, il suo stile comunicativo esagerato e il suo disprezzo per le regole stabilite, mette in crisi le stesse fondamenta del potere politico tradizionale.

horvathL’idea del trickster è quindi fondamentale per comprendere il fenomeno Trump. Come hanno scritto Forlenza e Thomassen, il successo di Trump risiede nella sua capacità di mobilitare emozioni e simboli in modo caotico e imprevedibile. Egli è un sovvertitore di ruoli, un mistificatore che crea instabilità proprio per trarne potere. La sua relazione con i media è emblematica: mentre i leader carismatici tradizionali cercano di controllare la loro immagine pubblica, Trump sembra trarre forza dagli scandali e dalle controversie, alimentando costantemente un ciclo di attenzione mediatica che rafforza la sua posizione.

Questo modello di leadership ha profonde radici antropologiche. Il trickster è spesso una figura liminale, situata ai margini della società, ma capace di esercitare un’influenza straordinaria su di essa. Nel caso di Trump, questa dinamica è stata evidente nel modo in cui si è posto come outsider politico, nonostante abbia occupato il centro della scena per decenni. Il suo ritorno alla presidenza non è solo un evento politico, ma un fenomeno culturale che segna la persistenza della sua capacità di riscrivere le regole del gioco.

Non possiamo infatti sottovalutare la resilienza della base elettorale di un trickster di vecchio corso come Trump. Invece di considerare il suo successo come un’anomalia, dovremmo interrogarci su quali siano le condizioni culturali che rendono una figura del genere così efficace in un contesto politico contemporaneo. La crisi della fiducia nelle istituzioni, la percezione diffusa di un’élite distante e scollegata dalla realtà quotidiana, e il bisogno di un linguaggio politico che risuoni con le emozioni più profonde del popolo (comunque lo si intenda) sono tutti elementi che concorrono alla sua longevità politica. 

9492007089_c6daf292bb_oDal trickster al buffone: il marginale si avvicina al trono

Questa lettura del trumpismo come fenomeno tricksteriano non si esaurisce nella sua figura individuale, ma si estende al modo in cui la politica americana e globale sta mutando. In un’epoca in cui i confini tra realtà e spettacolo si fanno sempre più labili, il trickster diventa una figura chiave per comprendere come il potere venga esercitato non attraverso il dominio diretto, ma attraverso la capacità di riscrivere la percezione stessa della realtà.

L’analisi di Trump come trickster politico, proposta nel 2016, si è dimostrata efficace nel catturare il suo stile di leadership basato sulla rottura delle norme e sull’imprevedibilità. Tuttavia, il modello mitologico del trickster non basta a spiegare l’evoluzione del suo potere nella sua seconda presidenza. Seguendo David Graeber (Graeber e Sahlins 2019 cap. 7), possiamo vedere Trump non solo come un sovvertitore dell’ordine, ma come un “buffone sacro”, una figura che nel rito sovverte le regole per poi riaffermarle sotto nuove forme.

il-potere-dei-re-3018Il buffone sacro, secondo Graeber, non è solo un elemento di rottura, ma un dispositivo politico che può trasformarsi in un agente del controllo sociale. Il suo potere, inizialmente limitato a momenti rituali di sovversione, può consolidarsi e istituzionalizzarsi. Nel caso di Trump, la sua ascesa si è costruita sulla negazione delle convenzioni politiche e sulla deresponsabilizzazione del discorso pubblico. Tuttavia, nella sua seconda presidenza, questa capacità di rovesciare la norma si sta trasformando in una nuova forma di autorità, dove la trasgressione stessa diventa la regola.

Questo spostamento dal trickster al buffone sacro istituzionalizzato aiuta a comprendere come Trump sia riuscito a normalizzare la sua stessa anomalia. Se nel 2016 la sua retorica era vista come un’eccezione, oggi la sua influenza sul Partito Repubblicano e sulle istituzioni mostra che il buffone ha smesso di essere confinato al ruolo di sovvertitore e ha assunto una funzione di comando. Il buffone rituale, una volta accettato, può diventare il nuovo sovrano.

L’analisi antropologica suggerisce che il buffone sacro può evolvere in un’autorità politica in contesti di profonda insoddisfazione verso l’establishment. Nel caso di Donald Trump, la sua rielezione può essere interpretata come una risposta al malcontento diffuso nei confronti dell’amministrazione Biden-Harris. Secondo il New York Magazine, la vittoria di Trump non riflette un rinnovato entusiasmo per la sua figura, ma piuttosto un rifiuto dell’operato dell’amministrazione precedente, caratterizzata da una gestione percepita come inefficace su temi come inflazione e immigrazione (Chait 2024). Inoltre, Le Monde evidenzia che la campagna di Kamala Harris è stata segnata da incoerenze e da una mancanza di connessione autentica con gli elettori, contribuendo alla disaffezione verso il Partito Democratico (Nardon 2024). Questa dinamica ha permesso a Trump di consolidare il suo ruolo, trasformandosi da figura di rottura a leader accettato (che ha vinto anche il “voto popolare”, questa volta), in un processo che rispecchia l’evoluzione del buffone rituale in sovrano. 

xunFuga nel sogno o bisogno di realtà?

Jianwei Xun (2025) ha interpretato Trump come un operatore di trance, capace di alterare gli stati di coscienza collettivi e inaugurare un nuovo regime di realtà attraverso strategie ipnotiche e simboliche. Secondo questa lettura, Trump non sarebbe un politico tradizionale, ma uno sciamano contemporaneo, un manipolatore del reale che plasma la percezione pubblica come un illusionista. Tuttavia, questa ipotesi ci sembra eccessivamente mistica, dato che la forza di Trump non sta tanto nella creazione di una nuova realtà, quanto nella sua capacità di risvegliare un senso fittizio di concretezza politica e sociale in un elettorato sempre più alienato dal discorso progressista.

Più che un ipnotizzatore di massa, Trump assomiglia a un terapeuta inconsapevole, simile al medico narrato in Risvegli di Oliver Sacks: un agente che spezza l’apatia sociale, ma con effetti potenzialmente destabilizzanti. Il suo ritorno è stato accolto, anche da molti Repubblicani dieci anni fa più sospettosi, come una scossa contro la stagnazione culturale e politica dell’amministrazione Biden-Harris, che molti americani hanno percepito come eccessivamente ideologica e distante dalla realtà concreta. L’imposizione nel discorso ordinario di una visione politica fondata su costrutti sociali fluidi – dalle questioni di genere alla ridefinizione vittimizzante delle identità culturali ed etniche, fino alla concezione stessa di “America” – ha spinto molti elettori a cercare una leadership che riaffermasse confini più stabili e rassicuranti, e lo slogan MAGA, nella sua banalizzazione del mito nazionale, sembra offrire soddisfazione a una domanda latente e profonda di solidità della struttura sociale.

Con questo secondo mandato Trump si è così trasformato, da trickster, nel “buffone sacro”, a sua volta transitato nel “poliziotto rituale” che, dopo aver sovvertito le regole, diventa custode dell’ordine che prova goffamente e confusamente a ricostituire. Il suo messaggio è chiaro: il mondo è quello che è, e non può essere continuamente ridefinito da costrutti artificiali. La sua presidenza è stata percepita come una lotta per il ripristino di un realismo politico condiviso, contrapposto al sogno progressista di una società completamente plasmata da narrative orientate dalla agency di minoranze sempre più esclusive. In questo senso, la sua rielezione non è stata una fuga nel mito, ma un tentativo di riconnettere la politica alla realtà oggettiva, per quanto controversa essa possa essere.

Le decisioni di Trump nella sua seconda presidenza sembrano orientate a un riavvicinamento della politica al senso comune, opponendosi a quella che molti dei suoi elettori percepiscono come un’eccessiva sofisticazione ideologica. Il primo esempio è la crisi con la Colombia, in cui Trump ha imposto dazi e restrizioni immediate quando il governo di Petro si è rifiutato di accettare voli con migranti deportati. Questo intervento intende riaffermare il primato degli Stati Uniti nelle relazioni internazionali, trasmettendo il messaggio che le nazioni più piccole non possono sfidare la potenza americana senza conseguenze. Questa politica di imposizione della propria forza economica ha pochissime possibilità di riuscita se applicata sistematicamente, e le tensioni doganali crescenti con Messico, Cina e Unione Europea proprio mentre scriviamo non promettono nulla di buono, foriere come sono di guerre commerciali che probabilmente rallenteranno la già asfittica crescita economica del pianeta.

Il secondo esempio è l’ordine esecutivo “Defending Women”, con cui ha smantellato le politiche di “gender affirmation care” per i minori. La misura riafferma una concezione biologica del sesso, opponendosi alla fluidità identitaria tipicamente assunta dagli orientamenti progressisti e rispondendo a una parte significativa dell’elettorato (non solo conservatore) che chiede una politica basata su criteri oggettivi piuttosto che su autoidentificazioni soggettive. È del tutto paradossale che Trump, notorio per lo stile tossico con cui ha gestito la sua mascolinità, si trovi ad assumere il ruolo di difensore delle donne, ma anche questo assurda inversione dei ruoli è tipica del trickster investito delle prerogative del sovrano.

original-political-society-800x568Infine, la cancellazione delle politiche DEI (Diversity, Equity, and Inclusion) segna un altro ritorno simbolico al realismo politico. Trump ha ribadito che la protezione dei diritti civili deve basarsi sul merito e sulle capacità individuali, non su criteri identitari. E poco importa, sul piano delle rappresentazioni, se la DEI diventa il capro espiatorio di tutto, spiegando perché gli incendi californiani sono stati così feroci (perché i vigili del fuoco non erano uomini e/o bianchi…(Peduzzi 2024)) o il perché dell’incidente aereo sopra il fiume Potomac (perché il personale del controllo aereo viene selezionato per quote etniche e non per competenze…(Shapiro 2025)).

Con mosse di questo genere, certificate dal valore legale dell’Executive Order, per quanto probabilmente disastrose sul piano pratico, Trump ha costruito una narrativa politica in cui il realismo e il pragmatismo sostituiscono l’ingegneria sociale progressista. Dal punto di vista della teoria antropologica, il neoletto presidente americano incarna la lotta tra concezione divina e concezione sacra della regalità: 

«La sovranità nel senso di potere regale è sempre stata carica di paradossi. Da un lato, essa è in linea di principio assoluta. I re, se ne hanno la possibilità, insistono sul loro essere al di fuori della legalità o dell’ordine morale, e sul fatto che nessuna regola può essere loro applicata. Il potere sovrano è il potere di rifiutare ogni limite e fare quel che si vuole. Dall’altro, però, i re tendono spesso a condurre vite talmente circoscritte e imbrigliate da consuetudini e cerimonie, che a malapena riescono a fare qualcosa liberamente. Questo paradosso non è mai cambiato nel tempo (Graeber e Sahlins 2019: 457). 

Il potere deve essere divino (cioè sovrumano nella sua espressione) altrimenti non è veramente efficace, ma va sacralizzato (cioè isolato e contenuto) altrimenti diventa distruttivo per la stessa società su cui si esercita. Dopo un mandato presidenziale democratico caratterizzato da forme evidenti di auto-contenimento del potere politico, Trump sta aprendo nuovo spazio per il potere divino, con tutti i seri problemi che questo comporta. Per quanto la cosa possa preoccupare, a ragion veduta, gli analisti politici, non possiamo come antropologi trascurare il fatto che c’è un’effettiva richiesta dal basso, una richiesta genuinamente popolare, di questo potere, inteso come capacità di mantenere saldamente la presa su un reale che a molti cittadini appare magmatico, fluido e pericolosamente inconsistente. Il trickster sovversivo non ha smesso certo i suoi tratti cialtroneschi, ma il popolo ora gli chiede di sedersi sul trono proprio perché i suoi modi da discolo impenitente sono una garanzia (?) che la paura del domani non prevarrà. 

coaching-news-item-dec-sqConclusione: un’antropologia del senso comune

La rielezione di Donald Trump rappresenta una lezione importante per l’antropologia culturale che, come i sovrani sacralizzati, da troppo tempo sembra confinarsi a sua volta in una torre d’avorio di critica ideologica, desacralizzando il reale sociale e quindi azzerando il potenziale creativo e terapeutico delle scienze umane. Anche la nostra disciplina ha lottato a lungo tra una concezione divina di sé (capace cioè di impattare con forza sulle strutture sociali che studiava, contribuendo alla loro costituzione) e una più sacrale, in cui prevaleva invece una lettura delle scienze umane come strumenti di riflessività critica e di decostruzione delle strutture del potere. Da almeno trent’anni l’antropologia attraversa una fase in cui la concezione sacrale è dominante, secondo la quale l’esercizio del potere (di qualunque potere) è visto con sospetto se non con esplicita avversione, in nome di una concezione utopistica delle relazioni umane che non ha alcuna base storica o etnografica (Vereni 2024).

La reazione dell’opinione pubblica progressista, che tende a liquidare il voto per Trump come frutto di ignoranza o populismo, ricorda il giudizio con cui Karl Mannheim minimizzava Hitler come “solo un clown” (cit. in Forlenza e Thomassen 2016). Questo errore epistemologico – la sottovalutazione delle forze simboliche profonde che strutturano il potere – è esattamente ciò che l’antropologia dovrebbe evitare.

Più che un’anomalia, il fenomeno Trump riflette la necessità delle società di riancorarsi a principi di realtà, contro un progressismo che ha imposto con troppa insistenza la propria visione morale, fino a perdere il contatto con il senso comune. La politica del Partito Democratico americano si è spinta verso un costruttivismo radicale, riducendo le differenze sociali, culturali e biologiche a pure convenzioni che possono però essere weaponized in nome di una politica dell’identità sentita da molti come artificiosa. Alla luce di questo, il successo di Trump segnala il bisogno collettivo di un ritorno a una base di riferimento cognitiva e morale più stabile e adottabile con maggior semplicità. Non è dunque una “trance” ipnotica quella a cui assistiamo, come vorrebbe Xun, ma una forma di risveglio, per quanto disordinato e perfino pericoloso, com’è necessariamente il passaggio da un torpore politico gestito da un’élite in nome di minoranze politicizzate, a una nuova “coscienza popolare” che sembra accogliere un consenso trasversale tra quelli che ormai si autodefiniscono con orgoglio i normies.

L’antropologia, se vuole mantenere una funzione utile, deve smettere di interpretare questi fenomeni come patologie da smascherare e cominciare a riconoscere in essi dinamiche a pieno titolo culturali. La lezione è chiara: non è con le analisi politicamente corrette che si comprende dove si spostano le culture. Piuttosto, il compito della disciplina dovrebbe essere quello di individuare le strategie con cui le società tentano di ripristinare un rapporto sentito più spontaneo con la realtà delle relazioni sociali e con il potere, soprattutto quando un sistema politico ha tentato di ridefinire quella realtà e quel potere in termini puramente normativi. La rielezione di Trump non è l’affermazione di un leader individuale, ma il sintomo di un più ampio bisogno antropologico: quello di una politica che torni a essere misurata sul senso comune dei cittadini di cui tratta e a cui deve garantire non solo servizi, ma anche strutture di sentimento sentite come ordinarie, ovvie, maggioritarie. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025 
Riferimenti bibliografici
Chait, Jonathan. 2024. «Americans Didn’t Embrace Trump, They Rejected the Biden-Harris Administration». Intelligencer. 6 novembre 2024. https://nymag.com/intelligencer/article/americans-didnt-embrace-trump-they-rejected-biden-harris.html.
Forlenza, Rosario, e Bjørn Thomassen. 2016. «Decoding Donald Trump: The Triumph of Trickster Politics». Public Seminar. 28 aprile 2016. https://publicseminar.org/2016/04/decoding-donald-trump-the-triumph-of-trickster-politics/.
Graeber, David, e Marshall Sahlins. 2019. Il potere dei re. Tra cosmologia e politica. MIlano: Raffaello Cortina.
Horváth, Ágnes. 2013. Modernism and charisma. New York: Palgrave Macmillan.
Horváth, Ágnes, Manusos E. Marankudakēs, e Árpád Szakolczai, a c. di. 2020. Modern Leaders: Between Charisma and Trickery. Contemporary Liminality. Abingdon, Oxon New York, NY: Routledge.
Nardon, Laurence. 2024. «Election de Donald Trump : “ Le Parti démocrate a ses responsabilités dans l’échec cuisant qui vient de lui être imposé ”», 7 novembre 2024, online edizione. https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/11/07/election-de-donald-trump-le-parti-democrate-a-ses-responsabilites-dans-l-echec-cuisant-qui-vient-de-lui-etre-impose_6380810_3232.html.
Peduzzi, Paola. 2024. «Efficienza scarsa». Il Foglio, 1 febbraio 2024.
Shapiro, Ben. 2025. «Trump, DEI, And The FAA». DailyWire+, gennaio. https://www.dailywire.com/news/trump-dei-and-the-faa.
Vereni, Pietro. 2024. «Sui limiti della profezia in antropologia. Appunti per una discussione a partire dall’Alba di tutto, di David Graeber e David Wengrow». RAC Rivista di Antropologia Contemporanea, fasc. 1: 133–50.
Xun, Jianwei. 2025. Ipnocrazia: Trump, Musk e la nuova architettura della realtà. Roma: Edizioni Tlon.

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Pietro Vereni, professore associato di Antropologia culturale nell’Università di Roma “Tor Vergata”, insegna «Urban & Global Rome» nel campus romano del Trinity College (Hartford, Connecticut). Dal 2018 è abilitato di prima fascia nel settore M-DEA/01 Discipline Demoetnoantrologiche. Ha effettuato ricerche sul campo sul confine della Macedonia occidentale greca (1995-97) e sul confine irlandese (1998-99). Si è occupato di antropologia politica e delle identità e antropologia dei media, e attualmente conduce ricerche di antropologia economica sulla diaspora della paternità bangladese, sul sistema carcerario in Italia, sulla diversità religiosa a Roma e sulla funzione politica delle occupazioni a scopo abitativo. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: “Come si rimane. Diaspore religiose e strategie di permanenza culturale”, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, Rivista trimestrale, 1/2020. “Il nodo gordiano e il filo di Arianna. La forma dello spazio nella crisi del Covid-19”, in Documenti geografici, 1 (ns), gennaio-giugno 2020. “De consolatione anthropologiae. Conoscenza, lavoro di cura e Covid-19”, in F. Benincasa e G. de Finis (a cura di), Closed. Il mondo degli umani si è fermato, Roma, Castelvecchi, 2020; Perché l’antropologia ci aiuta a fare politica (e a vivere meglio), Roma, Castelvecchi, 2021.

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