di Fulvio Cozza
Alcuni anni fa ho vissuto per qualche tempo nella zona nord di Roma, proprio a ridosso di una cosiddetta marana, termine che a Roma indica sempre un ruscello o un pantano e che in questo caso si riferisce ad un fosso che scorre verso il Tevere dividendo il quartiere di Prima Porta da quello di Labaro.
Proprio in questa area capitolina solevo fare lunghe passeggiate ammirando quella peculiare dimensione nella quale gli spazi umani coesistono quasi sempre armoniosamente con un rigoglioso ecosistema fluviale. Un giorno di inizio estate, passeggiando su uno dei ponticelli pedonali che attraversano la marana di Prima Porta, mi imbattei in una scena molto interessante. Giù nel fosso c’era un airone cinerino (Ardea cinerea) che stazionava in acqua a una distanza calcolata dallo sfiatatoio della pompa idrovora installata lì per prevenire eventuali allagamenti nel quartiere. A intervalli regolari – circa 15 minuti – la pompa si azionava e per qualche minuto rilasciava un gran quantitativo di acqua che, gettandosi nel fosso, causava il movimento inconsulto dei pesci e degli anfibi che lo popolavano. A quel punto, l’airone cinerino, essendo il naturale predatore di tali animali, interrompeva la sua elegante stasi per dedicarsi alla caccia (naturalmente con esiti non sempre fortunati).
Rimasi per diversi minuti, forse più di un’ora, a osservare la scena, e tornai a curiosare anche nei giorni successivi, constatando ogni volta che, con grande probabilità, l’airone aveva trovato in quell’agglomerato inestricabile di macchine e natura un luogo propizio per accumulare risorse prima di ripartire per la sua meta stagionale (ovviamente mi piace associare l’improvvisa sparizione dell’airone alla sua ripartenza per le rotte migratorie verso la Scandinavia).
Il comportamento di quel volatile mi colpì molto, specialmente perché, essendo io probabile vittima di un latente specismo, mi impressionò il fatto che tale animale era riuscito a decifrare il ritmo della pompa idrovora e, dunque, comportandosi come una persona umana, aveva cominciato ad agire seguendo uno schema interpretativo complesso. Pur non disponendo di conoscenze etologiche specialistiche, sono certo che questo genere di comportamento sia tutt’altro che unico nel mondo animale (ho pensato agli orsi nordamericani che si appostano lungo i torrenti nella stagione dei salmoni). Tuttavia, da antropologo culturale, vorrei concentrare la discussione sul potere della ripetizione e su quanto questa sia fondamentale per naturalizzare le azioni che svolgiamo ogni giorno in quanto frutto di un adattamento a contesti complessi. In buona sostanza, anche se le pompe idrovore non nascono, non crescono come piante e non si trovano sotto forma di roccia, queste invenzioni umane possono facilmente entrare a far parte di un ecosistema e dunque divenire natura grazie al fatto di esser divenute parte di una routine.
Tutto ciò deve spingerci a ragionare sul fatto che la cultura è parte stessa del mondo nel quale siamo tutti immersi. Prendiamo il caso di un cane chihuahua che è tanto imparentato con la specie dei lupi tanto quanto è il frutto di un paziente lavoro culturale di addomesticamento e selezione. Qui non regge più quella distinzione forte tra natura e cultura, tra simboli e materia, tra essenze e invenzioni che nella visione occidentale si tende a individuare durante l’esperienza di vita quotidiana. Anche tale distinzione, che magari possiamo percepire come ovvia, è frutto appunto di un processo ripetitivo. Sin da piccoli ci viene insegnato che un chihuahua, in quanto cane, è un animale domestico e che dunque senza gli umani non potrebbe esistere, ma del resto gli umani sono pur sempre parte della natura poiché la loro natura è proprio quella di avere una cultura. È proprio un chihuahua che si morde la coda.
Tale tendenza a percepire l’ambito umano come disgiunto da quello naturale è un’altra prova di quanto la ripetizione eserciti un potere decisivo persino nel modellare le nostre percezioni, nel definire ciò che diamo per scontato. Nello sterminato campo degli studi sull’apprendimento pratico, molti hanno messo l’accento proprio sulla ripetizione e su quanto la stessa educazione non funzioni come un copia/incolla. Infatti, la trasmissione delle conoscenze si verifica sempre attraverso un’imitazione e un coinvolgimento pratico e ripetuto. Ci vuole del tempo per imparare ad associare quella tipologia di cane al suono “chihuahua”.
Ripetere, ripetere e ripetere: purtroppo o per fortuna, è questo il sistema che fornisce gli strumenti interpretativi necessari a guardare il mondo attraverso il punto di vista di una comunità, a far sì che le cose che una determinata comunità guarda, dice e fa si verifichino “spontaneamente”, cioè senza avere il bisogno di pensarci su troppo, con “naturalezza”, appunto.
Naturalmente, essendo la cultura un affare tutt’altro che granitico e sempre uguale a se stesso, è evidente che ciò che una data comunità percepisce come naturale possa essere soggetto a variazioni anche notevoli (questo non è necessariamente un aspetto negativo). Su questo punto studiose e studiosi di varie discipline hanno scritto pagine magnifiche sui rischi di annullamento del soggetto nel collettivo, così come sui rischi di alienazione dell’individualismo sfrenato. In tal senso, la ripetizione assume un aspetto fortemente politico e profondamente etico, poiché ciò che una comunità si ripete ha delle conseguenze su tutti i suoi membri (umani e non). È dunque necessario scegliere con cura ciò che è opportuno ripetere.
In una comunità intessuta di mezzi di informazione e social media, riuscire a naturalizzare concetti più o meno nuovi è molto difficile, sia perché le voci che ripetono sono molteplici (neppure questo è un aspetto necessariamente negativo, davvero ci piacerebbe vivere in un mondo nel quale tutti devono pensarla allo stesso modo?), sia perché la forza della ripetizione sta proprio nella sua economia da “risparmio energetico”, che tende a guardare alle novità con occhi sospettosi (ad esempio, in Italia è più comodo continuare a chiamare “cane” un cane piuttosto che iniziare a chiamarlo “سگ”).
In questi processi di ripetizione apparentemente banali si annidano alcune delle più comuni insidie del nostro tempo, come l’intolleranza (l’incapacità di accettare ciò che è fuori dalla propria condizione e routine) e la discriminazione (la coltivazione del privilegio verso la propria condizione e routine). In questo senso è immensa la responsabilità di chi ha i maggiori poteri comunicativi, di innovazione e di ripetizione (essenzialmente i media e lo Stato).
E tuttavia, non è da sottovalutare il potere di coloro i quali, ogni giorno, in prima persona, anche solo sui social media, decidono di modificare la propria routine, promuovendo la naturalezza di una forma di comunità più inclusiva ed egualitaria. A furia di ripetere che qualcosa fa parte della natura del mondo si può giungere a naturalizzare quella determinata cosa (e naturalmente la selezione di questi elementi pone dilemmi di carattere politico prima ancora che di biologia analitica).
In fondo, tutti questi processi di naturalizzazione sono qualcosa di assolutamente naturale, come l’airone della marana di Prima Porta il quale, prima di riprendere la sua migrazione, non ha avuto problemi includere nella propria natura il ritmo meccanico della pompa idrovora costruita dagli umani.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
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Fulvio Cozza, PhD in Antropologia culturale ed Etnologia presso la Sapienza Università di Roma, è assegnista di ricerca presso l’Unistrasi – Università per Stranieri di Siena nell’ambito del progetto “Memoria Orale e Etica dell’Archeologia a San Casciano dei Bagni”. I suoi studi riguardano l’antropologia della vita quotidiana, le pratiche archeologiche, i patrimoni culturali e il senso dei luoghi.
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