La metafora del grano nell’alterna vicenda del morire sottoterra e rinascere a primavera in una spiga verde, è il tema di un video realizzato dalla Filmoteca del Centro Regionale per il Catalogo e la Documentazione. Un accurato lavoro di montaggio, opera di Maurizio Spadaro, con l’intento di scegliere e ritagliare fra le molteplici ore di ripresa, le unità più significative nella costruzione di un racconto visivo.
Autore della ricerca è Mario Sarica, etnologo, curatore del Museo Cultura e Musica popolare dei Peloritani di Messina, che ha saputo fissare con la cinepresa – malgrado le grandi trasformazioni delle campagne siciliane – la storia di una singolare permanenza. Siamo alla fine degli anni Ottanta del Novecento, in contrada San Basilio a Galati di Mamertino, nell’altipiano nebrodense, dove una famiglia contadina, in regime di piccola proprietà, pratica ancora la cerealicoltura con mezzi arcaici e col sistema dell’aratro a chiodo. Così, il capostipite di quell’azienda, Salvatore Truglio, conservatore e custode di un patrimonio di saperi e tecniche già da allora in declino, decide di raccontare la sua esperienza, mostrando le fasi più salienti del ciclo lavorativo. Il fine è didascalico, presentare in una sequenza narrativa di brevi schede l’aratura e la semina, la germinazione e il raccolto, e infine la trebbiatura. Alle immagini si accompagna puntuale il commento dell’anziano bracciante che, stimolato dal ricercatore, spiega il funzionamento dell’aratro, le sue parti componenti e tutto quanto concorre a determinare, nella coltura del grano, quel miracoloso equilibrio di tre elementi che hanno garantito, per secoli, la sopravvivenza del mondo contadino: la terra, il bestiame e l’uomo.
Ne è nato un documentario di circa mezzora, che a distanza di trent’anni, restituisce al pubblico la dimensione simbolica del lavoro tradizionale in Sicilia. Appunti visivi di una ricerca sul campo – così recita il sottotitolo – a voler richiamare il ruolo determinante delle immagini, come forma particolare di scrittura nelle pratiche etnografiche.
Ma ciò che risalta con maggiore forza è la struttura dialogica del racconto, l’interazione e il confronto fra i due protagonisti principali, l’antropologo e l’informatore. Mentre Sarica tenta di sistematizzare le conoscenze facendo appello alle chiavi di lettura della demologia e offrendo come spunto all’interlocutore proverbi e modi di dire propri della cultura popolare, l’altro sfugge continuamente al tentativo di codificare una materia su cui è difficile operare deduzioni conclusive. Il suo argomentare è scettico, aperto ad ogni possibilità, consapevole che fino all’ultimo momento le cose sono imprevedibili, subordinate al dictat della natura. Truglio si appella alla tradizione, l’unica certezza, il ripetersi di tecniche ed espedienti consolidati perchè appresi e messi in atto sull’esempio delle generazioni passate – di quello che hanno detto e fatto gli antichi: «Verità o menzogna che sia – dirà a un certo punto – ma noi dobbiamo fare quello che hanno fatto i nostri padri». L’amara consapevolezza e la rassegnazione di dover rappresentare un universo culturale dominato dal peso schiacciante delle forze naturali, domina tutta l’intervista con quel fatalismo che è proprio della cultura contadina.
L’ouverture ha un suo incipit musicale, il canto del cacciante che sotto il sole cocente di luglio, dà il ritmo al mulo che gira per l’aia durante la battitura del frumento. Il primo capitolo annuncia l’aratura con i suoi preliminari, la messa a punto degli strumenti di lavoro, sullo sfondo di una campagna arida e assolata di fine estate. Lavurari è intesa questa prima operazione, complessa e faticosa, che riassume l’intervento della prassi umana, l’azione determinante della cultura sulla natura (Nicosia 1980:216). Due buoi sotto il giogo trainato dall’uomo attraversano i campi, in lungo e largo, con passo lento e pesante, facendo sì che la punta del vomere dell’aratro penetri la terra, rompendo le zolle in superficie e creando dei solchi.
È il tempo della semina autunnale secondo la tecnica a spaglio: Truglio procede preliminarmente al trattamento dei chicchi col “celeste”, solfato di rame che impedisce il deterioramento e poi, munito di coffa, inizia con passo deciso e con azione rotatoria della mano a distribuire uniformemente il seme lungo i solchi. I due giovani figli, in testa al siminzieri, stanno alla guida dell’aratro, in coda lo staffuniaturi con la zappa per completare i lavori. Si apre così la lunga stagione del riposo vegetativo, che contrassegna l’inverno, la più incerta e rischiosa perchè soggetta alle imprevedibili mutazioni atmosferiche. Una pioggia improvvisa e violenta potrebbe compromettere in breve tempo la fatica di un duro anno di lavoro; di contro anche una siccità prolungata andrebbe a tutto danno del raccolto. Qui entrano in scena le donne, vigili nel controllo dei campi e intente nella sarchiatura, con zappature leggere per eliminare le erbacce infestanti e assicurare il buon esito dei germogli.
La nuova stagione primaverile è presentata da una sequenza di immagini suggestive con vaste distese di spighe verdi alte sui campi: si nota il vecchio contadino passare fra le giovani piante facendosi strada con le mani. Alla soddisfazione della rigogliosa vegetazione si accompagna la preoccupazione di una pianta ancora non matura ed esposta a pericoli di ogni tipo. Il richiamo alle offerte primiziali, costituite dai mazzetti di spighe da donare ai santi in segno di devozione, si collega necessariamente al bisogno di protezione di questo clima di attesa.
Prima della mietitura, quando il grano è ormai maturo e pronto per essere falciato, la famiglia si dedica alle operazioni di intreccio della ddisa per formare le liame che legheranno i covoni di spighe da trasportare all’aia. Un breve canto accompagna le fasi del raccolto in cui le donne chine sui campi, con falce e uncino procedono al taglio delle spighe. Man mano si formano i covoni, pronti per essere disposti sulla straula, l’antica slitta a trazione animale, l’unica in grado di attraversare le vie dissestate delle campagne e giungere nei luoghi della trebbiatura. Seguono le operazioni di allestimento della superficie che accoglierà le spighe per il calpestìo: Truglio ne spiega tutta la complessità, dalla scelta del sito, esposto al vento di tramontana, alla preparazione del terreno, che deve essere ben spianato e inumidito con frequenti innaffiature prima di essere interamente ricoperto dal frumento e potere avviare la pisata. L’arcaicità delle tecniche di produzione in uso a San Basilio è ancora una volta confermata dalla presenza dei buoi, più adatti, col loro incedere, alle operazioni di battitura, ma già a quel tempo sostituiti quasi dappertutto dai muli o dagli asini.
La spagliata conclude la mietitura col movimento costante e regolare delle pale e tridenti che spingono le spighe in alto, aiutate dal soffio del vento per separare la pula dal grano. Intervengono i due ragazzi l’uno col grande crivo per la cernita, l’altro per aiutarlo a dosarne la giusta quantità con il tipico contenitore. Una piccola croce di canna viene posta in cima al cumulo dorato a mò di protezione. Il grano è pronto, conservato in grandi sacchi di iuta: a breve sarà sottoposto alla molitura e trasformato in farina. Nello spazio domestico della cucina saranno ora le mani femminili a imprimergli una forma e affidarlo alle arti del fuoco per la cottura del pane (Cusumano 1991: 66 e passim).
Ma è nella chiosa finale che si coglie realmente lo scompaginarsi di quella trama di relazioni comunitarie che caratterizzava il lavoro della terra. Le ultime immagini ritraggono il vecchio contadino nella sua casa invernale mentre – con una punta di malinconia – si lascia andare ai ricordi della sua giovinezza. Rivede intere squadre di mietitori attraversare la Sicilia, dai monti a valle verso la marina. Un canto continuo, corale accompagnava questo movimento di pendolari, alla ricerca di un’occupazione temporanea nei grandi latifondi. «Tutti ittavanu vuci – sempre, tutto il giorno – conclude Salvatore Truglio – perché c’era tanta allegria, ma ora non c’è più nessuno, il silenzio».
Sembra di rivivere la magica atmosfera di Vittorio De Seta in Parabola d’oro (1955), quel clima di festosa socievolezza che accompagnava, malgrado la miseria e la fatica, la fine del raccolto. Un duro anno di lavoro si chiudeva, assicurando, col grano, la sicurezza per l’inverno che sarebbe arrivato. È il simbolismo della falce messoria – come ricorda Ernesto De Martino – che nell’atto di recidere l’ultimo covone provoca la morte vegetale ma al tempo stesso garantisce la continuità della vita (De Martino 1975: 243 -245).
Dialoghi Mediterranei, n.7, maggio 2014
Riferimenti bibliografici
Cusumano Antonino
1991 Grano e pane, in Buttitta – Cusumano ( a cura di) Pane e Festa. Tradizioni in Sicilia, ed. Guida, Palermo: 63-83
De Martino Ernesto
1975 Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Boringhieri, Torino
De Seta Vittorio
1955 Parabola d’oro, [09’ 39’’] in Il mondo perduto. I cortometraggi di Vittorio De Seta 1954 – 1959. DVD + libro La fatica delle mani. Scritti su Vittorio De Seta, a cura di Mario Cappello, ed. Feltrinelli Real Cinema, Cineteca di Bologna, 2008
Nicosia Salvatore
1980 La coltivazione tradizionale del frumento nei latifondi del Vallone, in La cultura materiale in Sicilia, Atti del I Congresso internazionale di studi antropologici siciliani (Palermo 12-15 Gennaio 1978), Quaderni del Circolo Semiologico 12-13, Palermo: 205-273.