L’evento dell’anno, non solo per gli americani ma anche per molti altri Paesi del mondo, è che starebbe per partire in Usa la più grande campagna di deportazione della storia. Almeno nella visione dei suoi protagonisti. Un termine, deportazione, che da noi epidermicamente provoca un senso di repulsione perché riveste un significato sinistro rievocando in qualche modo le persecuzioni ebraiche sotto il nazismo e i Gulag staliniani, ma che in America ha assunto perlopiù il significato di “espulsione”, come viene ricordato e sottolineato dai numerosi interventi sulla sua genesi e la sua storia nel contesto di quel Paese, che oggi fanno da corona alle politiche del nuovo Presidente americano [1].
Si tratta questa di un’operazione tutta in discesa per il nuovo Presidente? Proprio non pare. Il primo problema per chi vuol fare finalmente l’America Great Again sono proprio le ripercussioni economiche. Si è quantificato, per esempio, in 86 miliardi di dollari il costo giornaliero dell’espulsione degli immigrati irregolari, così come preannunciate dal Presidente Trump che nel contempo tranquillizza i suoi elettori perché in questo modo si libererebbero altri posti di lavoro per gli americani. In fondo American First, come promesso nell’acronimo MAGA (Make America Great Again). Sicuri che funziona? Vediamo qualche precedente. Nel 2022, in piena emergenza Covid che impose il rientro nelle rispettive patrie dei migranti, si resero vacanti in agricoltura 100 mila posti. Il governo federale invitò i disoccupati americani ad approfittarne facendo domanda. Quante richieste pervennero? 337! O.k., però questa operazione può riuscire solo a un presidente repubblicano perché più deciso e motivato, potrebbe dire l’americano medio che ha votato per il tycoon di New York. Anche in questo caso facciamo parlare i dati. La più grande “deportazione” di questo inizio secolo è riuscita solo a un presidente democratico e discendente di immigrati, Barack Obama, passato perciò alla storia più recente come il “Deporter–in–chief” (in realtà pare che siano venute a compimento in quel periodo diverse cause pendenti davanti ai tribunali federali che, per conseguenza, statuirono le espulsioni); il Trump I che lo seguì (2016/2020) e che aveva un preciso programma di espulsioni, fece di meno, eguagliato dalla fase finale della più tollerante amministrazione Biden. Perciò gli analisti concludono che il problema non è del colore politico.
Ma “lui”, Trump, non ci crede e prosegue imperterrito anche se i vari Think Tank economici prevedono un crollo del Pil e della produttività in Usa qualora perdesse l’apporto di quella fetta di popolazione straniera che rappresenta quasi il 15% del totale. Basterà tutto ciò a scoraggiare il nuovo Presidente a dare inizio a quella deportazione che ha costituito il leitmotiv della sua campagna elettorale e la chiave del suo successo finale? Altro esempio: poco sembra importare al presidente repubblicano, che dell’Intelligenza Artificiale ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia, se l’iniziativa risulterà ancora più ferale nello Stato della “democratica” California che, se fosse conteggiato a parte, sarebbe la quarta potenza economica del mondo. Tutta la New Economy della Silicon Valley, che per fatturato ha superato Wall Street, è costruita in larga misura dall’apporto di scienziati, manager, ingegneri e tecnici di origine indiana, iraniana (come Steve Job), siriana, cinese, ecc.
In tutti i casi l’attivismo trumpiano, con la raffica di ordini esecutivi, accompagnati sempre da una studiata cornice spettacolare, trova un ostacolo insormontabile nella magistratura, che si sta rivelando l’organo più di altri in grado di assicurare il Checks and balance, i controlli e bilanciamenti, caratteristico del sistema americano. Per primo il caso di quel giudice federale che ha annullato l’ordine esecutivo del Presidente Usa di abolire lo ius soli, posto che ha reputato essere apertamente anticostituzionale che l’amministrazione pubblica possa impedire l’acquisizione della cittadinanza americana, negando il passaporto, a chi nasce nel Paese a stelle strisce, orientamento cui si sono già allineati altri quattro Stati democratici (peraltro i più seri giuristi mettono in dubbio che un provvedimento di tale portata che va a scardinare il 14mo emendamento della Costituzione possa essere adottato con un ordine esecutivo presidenziale, posto anche che anni fa una pattuglia di deputati repubblicani che presentò una legge analoga al Congresso non riuscì a superare neanche il vaglio della Commissione competente). È vero che le relative sentenze saranno impugnate dal Presidente alla Corte Suprema, quasi tutta da lui nominata, ma a parte l’intasamento e i ritardi che ne deriveranno nell’attuazione della volontà presidenziale, non bisogna dimenticare che, sia pure di fede repubblicana (ma non necessariamente trumpiana), sempre di giudici di alto livello si tratta e pertanto più orientati ad agire in punta di diritto che ad assecondare i capricci del Presidente che li mise in quel posto.
Fino a che punto si potrà spingere l’irruenza di un Presidente “picconatore” in un Paese fondato quasi 250 anni fa, caso insolito nella storia, come una democrazia aperta ed equilibrata e non come evoluzione di monarchie assolute, come era capitato alle grandi potenze europee?
Gli Stati Uniti, sappiamo tutti, è un territorio che è stato strappato dagli immigrati europei ai nativi. Esso, pertanto, si è forgiato su un’idea di emigrazione (di cui ancora oggi è leader mondiale ospitando ben 51 milioni di stranieri) come elemento fondante dello Stato, una scelta istituzionale che, nei pochi secoli di esistenza del Paese, ha costituito la sua ricchezza erigendo un sistema basato sui diritti, la libertà personale e di impresa e la valorizzazione dell’apporto di chiunque arrivi in prossimità della Statua della Libertà: un movimento di popoli e di etnie che oggi ne fa di gran lunga la più grande potenza economica del mondo, del quale detiene ben il 26% del Pil.
Su questo sfondo, secondo me, va inquadrato e giudicato l’operato e le prospettive della nuova amministrazione. Ma incominciamo a vedere la nuova (o vecchia, se preferite collegarla al Trump I) politica americana seguendo la ricostruzione che ne fa l’autorevole settimanale britannico, The Economist [2].
Partiamo dai numeri. Intanto l’affermazione di Trump che parla di 15/20 milioni di immigrati irregolari (“undocumented”) contrasta con quelli forniti dalle fonti pubbliche giacché al 2022 il “Department of Homeland Security” ne calcolava 11 milioni, e addirittura, per la società di consulenza “Oxford Economics”, sempre per lo stesso anno, questi scenderebbero a 8.3 milioni prendendo come esclusivo riferimento le richieste di asilo da parte di coloro che hanno superato i controlli ai confini, di cui del resto appena la metà si potrebbero definire tecnicamente migranti. Il numero sarebbe destinato a restringersi ancora di più se si considera il fenomeno dei Removals, ossia i lavoratori stagionali (in genere messicani) che, fermati alla frontiera, preferiscono tornare indietro piuttosto che farsi arrestare, magari per riprovarci un’altra volta. Per quanto riguarda l’andamento delle espulsioni il numero di tutti coloro che erano colpiti dall’ordine di deportazione presenta un andamento ciclico con la tendenza a crescere con la presidenza Bush Jr, conosce il picco con quella di Obama per poi incominciare a scendere proprio nel Trump I, fino ad andare sempre più giù con Biden, da cui però incomincia a rimbalzare nell’ultima fase.
Il seguito di Trump – sostiene il settimanale britannico – comunque sembra consapevole delle difficoltà politiche, legali, logistiche e finanziarie che presenta una Deportazione di massa, tanto che il Vicepresidente Vance, riallacciandosi a quella storica realizzata dal Presidente Wight Eisenhower nel 1954 e che andò sotto il nome di Wetback’s (letteralmente “culi bagnati” perché si riferiva agli immigrati che attraversavano i corsi d’acqua per entrare in Usa) e in cui fu espulso 1.1 milione di immigrati, ha sostenuto che sarebbe realistico incominciare a metterne via almeno un milione… e poi si vedrà. E, comunque, in tutti i casi ben difficilmente si dovrebbe andare oltre il numero degli espulsi da Obama.
Ma anche rispetto alla pretesa di deportare gli immigrati irregolari criminali il direttore dell’iCE (US Immigration Custom’s Enforcement) sotto Obama, John Sandweg, che gestisce ancora queste operazioni, sostiene che è appena dell’1,4% il numero di chi è stato dichiarato formalmente criminale da corti di giustizia americane giacché tali non si possono considerare quelli su cui pende l’accusa di essere entrati irregolarmente. In tutti i casi, calcola l’ICE, ben 1.4 milioni di immigrati condannati sarebbero costretti a rimanere detenuti nelle carceri americane oppure nel Paese in quanto monitorati da braccialetti elettronici o analoghi strumenti di controllo. Non a caso, proprio a fronte di queste difficoltà nell’ultimo anno si è riusciti a espellere appena 38 mila immigrati irregolari.
Parlando, poi, degli immigrati come forza lavoro, per il Pew Research Center, nel 2022, su 11 milioni di migranti ben l’8.3 poteva essere considerata tale, ma, secondo gli esperti, il numero potrebbe raggiungere perfino i 10 milioni che, per inciso, sono concentrati soprattutto negli grandi stati della California, New York, Texas e Florida. Riguardo, poi, all’annuncio di Trump che una deportazione di massa libererà un numero considerevole di posti di lavoro per gli americani, uno studio dell’Università del Colorado e del “Peterson Institute for International Economics”, dimostra che la più grande espulsione di immigrati irregolari, avvenuta sotto la presidenza Trump, ebbe a comportare la perdita di un posto di lavoro per i nativi americani ogni 11 immigrati cacciati via. Ed è ancora il “Peterson Institute” a stimare che, deportando 1.3 milioni di undocumented workers, si avrebbe un calo permanente e strutturale dell’occupazione dello 0,6%. In un paper del “Migration Dialogue” dell’Università della California, Davis, si trova il calcolo che su 2.5 milioni di lavoratori agricoli americani 1 milione sono immigrati irregolari. Significativa è l’esperienza del “National Council of Agricultural Employers” che, come ho anticipato in apertura, sotto il Covid, vide rendersi vacanti 100 mila posti di lavoro su tutto il territorio nazionale precedentemente occupati dagli stranieri che dovevano abbandonare il Paese a causa delle restrizioni dovute al virus. Il governo federale approfittò per invitare gli americani disoccupati a presentare domanda per quei posti, ma solo in 337 si fecero avanti.
Sul fronte dell’incremento delle aspettative occupazionali a favore dei residenti non dovrebbero giovare neanche i minacciati “raid” nel posto di lavoro come li prospetta Trump. I colpiti più che una massa sembra essere un pugno di mosche. Ancora dai dati del Pew Research Center si evince che la percentuale degli undocumented tra la forza lavorativa americana non raggiunge neanche il 5% su 8,3 milioni di immigrati. Il permissivismo è favorito poi dal fatto che gli imprenditori agricoli e delle costruzioni quando vedono presentarsi nel campo o nel cantiere un lavoratore immigrato fanno finta di non vedere che si tratta di un irregolare, da cui lo scarso favore per iniziative come quelle minacciate da Trump. Sostiene in un’intervista al “Washington Post”, Tom Hofman, il cosiddetto “zar” dei confini cui Trump con il Commissioner Miller ha affidato l’incarico delle deportazioni, che i “padroni” sarebbero tutt’altro che felici di perdere questa massa di lavoratori indispensabili per le loro imprese.
Tornando ai riflessi economici l’effetto prevedibile sarà l’aumento dei prezzi al consumo, che si rifletterà soprattutto nel settore lattiero caseario e nell’allevamento del pollame affidati ai lavoratori stagionali che in questo campo hanno una maggiore dimestichezza (tra l’altro oggi sta mettendo in crisi l’amministrazione repubblicana il costo delle uova, alimento base della classe media americana, che è schizzato quasi del 200 per cento). Non disporre di questi lavoratori significa ricorrere maggiormente all’automazione con un aumento dei costi che inciderà anche sulle importazioni. A tale proposito ricercatori della Duke University hanno scoperto che l’esclusione di 500 mila lavoratori stagionali messicani costrinse, negli anni Sessanta, a introdurre una maggiore meccanizzazione nei relativi processi con l’evidente difficoltà per i robot, per esempio, a raccogliere prodotti delicati come le fragole e il conseguente aumento dei costi con l’allargamento del deficit americano sulla voce import-export. Eguali timori si prospettano nell’industria delle costruzioni, dove è impiegato 1.5 milioni di immigrati, quasi un terzo della forza lavoro del settore. Uno studio della Utah University ha dimostrato del resto come le famose deportazioni di Obama non fecero altro che accentuare la carenza di abitazioni.
È opinione largamente condivisa, infine, che questa politica si risolverà anche in un danno per la finanza pubblica. Infatti, i numeri degli immigrati irregolari sono troppo imponenti e gli interessati ormai troppo radicati nel territorio perché non vi siano contraccolpi in anche in questo ambito. L’impotenza delle istituzioni, nel 2022, si scontrò già col fatto che l’80% degli immigrati irregolari da almeno dieci anni viveva nel Paese e circa 5.7 milioni di americani (cittadini), in gran parte bambini (per ius soli, perché nati in Usa), aveva un undocumented genitore. Per cui, a rigor di logica, si sarebbe dovuto procedere a una divisione spietata delle famiglie.
Alla luce di questi elementi, l’obiettivo del presidente Trump potrebbe essere non tanto di realizzare una deportazione di massa ma, come ventila l’Economist, di creare una deterrenza, che lo stesso Presidente rafforzerebbe con la politica del bastone e della carota (vale a dire di accordi sui dazi e le minacce di intervento militare nei Paesi confinanti e l’eventuale occupazione di terre come la Groenlandia e il Canada). Tuttavia, lo stesso settimanale britannico fa notare come l’analoga operazione degli anni Cinquanta, la Wetback’s di Eisenhower, che aveva l’obiettivo latente di scoraggiare gli ingressi di immigrati irregolari, venne frustrata dal fatto che già dopo alcuni anni i flussi nel Paese ripresero con forza.
Il piano di deportazione appare di difficile attuazione anche per ragioni logistiche, esigendo, per esempio, 100 mila letti di detenzione, ossia il doppio di quanti se ne dispongano tuttora. Non solo, ma sono necessarie anche giustificazioni legislative: laddove, per esempio, il Presidente volesse utilizzare, come annunciato, le basi militari dovrebbe dichiarare lo stato di emergenza con ulteriore richiesta di fondi non trascurando anche il fatto che l’esercito per legge non può intervenire nelle dinamiche della vita civile. Vi è da aggiungere che trasportare i migranti nei relativi Paesi comporta problemi di non poco conto, per primo l’accettazione dei governi locali (cosa che attualmente Trump cerca di risolvere con accordi diretti, come con l’India e il Messico, cui mescola minacce con proposte commerciali). Per esempio, solo in Canada e in Messico l’espulsione può avvenire attraverso i corridoi stradali, per gli altri occorrono gli aerei. Nel 2023 il Capo dell’ICE dichiarò al Congresso che, a parte che non tutti gli Stati americani avrebbero accettato di collaborare al trasferimento dei migranti, la media del costo di un mezzo aereo all’epoca era di 17 mila dollari l’ora, portando nel complesso l’operazione a 88 miliardi all’anno ossia, con valori del 2024, più dei bilanci messi insieme delle tre agenzie preposte, l’ICE, la Frontiera e la Protezione dei confini. Come dire, il gioco vale la candela? È opinione di molti economisti che l’effetto congiunto dell’applicazione delle tariffs (i maggiori dazi all’import) con quello dell’espulsione di una forza lavoro molto importante come quella immigrata si tradurrà nel tempo in un danno per l’economia americana.
Non solo, ma per organizzare le deportazioni l’amministrazione federale ha bisogno della collaborazione delle autorità locali, sinergia questa che rese possibile tra il 2014 e il 2017, secondo uno studio della Syracuse University, l’arresto di tre quarti dei ricercati. Ma oggi si sa che molte amministrazioni statali e cittadine, segnatamente quelle rette da esponenti democratici, si sono dichiarate “santuario” e rifiuteranno di mettere a disposizione le relative forze dell’ordine per queste operazioni.
Ultimo problema. come reagirà l’opinione pubblica americana a questa politica? Un sondaggio del 2024 del Pew Center stabilì che il 56% degli immigrati regolari, vale a dire i Documented, approvava l’espulsione degli Undocumented, ma che il 58% di loro, per esempio, era d’accordo che dovesse restare in territorio Usa chi aveva un coniuge con cittadinanza americana. È importante la reazione dell’opinione pubblica alla realizzazione di queste politiche, ricordando come al tempo delle prime deportazioni trumpiane produsse forte indignazione vedere dei bambini messi in gabbia. Perciò, ritiene l’autorevole settimanale britannico, che i responsabili di questa, Miller e Homan, sapranno bene che cosa converrà fare e non fare e regolarsi di conseguenza.
Il problema, come sottolineano molti commentatori, non saranno tanto gli Stati Uniti, il cui sistema di Checks and Balance ha incominciato a funzionare fin dalle prime mosse del neo eletto Presidente contrastato per prima dalla magistratura americana; e lo sarà forse ancora di più, a parte lo schieramento del media in larga misura contrari alla sua politica, se le elezioni di Midterm del Senato e del Congresso non confermeranno l’equilibrio attuale che oggi è favorevole a Trump. Avranno difficoltà a essere attuati non solo interventi come quelli che abbiamo appena citato sullo stravolgimento dello ius soli, ma anche contro i licenziamenti in massa nel caso dell’Usaid e, in generale nell’amministrazione centrale in nome del DOGE (Department of Government Eficacy), oltre che le pretese dell’apparato di governo di mettere le mani nel Dipartimento del Tesoro già bacchettate dal giudice federale. In buona sostanza il sistema americano ha forti anticorpi, per cui, dopo un quadriennio (tempo assai breve), uno come Trump che tecnicamente è un criminale (già condannato dalla Corte di giustizia di New York per il caso della escort) e dopo potrebbero riprendere le accuse su cui è stato indagato per l’assalto al Capidoglio e quelle dei documenti secretati di Mar – a -lago, su cui le corti non si sono pronunciate anche per non consentirgli di esercitare su sé stesso il potere della grazia presidenziale, potrebbero riprendere il loro corso alla fine del suo mandato (non dimentichiamo, che trattasi del secondo, anche se si discute il fatto che non sia consecutivo). E tutto ciò senza contare che un ribaltamento dell’equilibrio politico potrebbe portare anche a un impeachment per tutte le stramberie e irregolarità che questo singolare presidente fa o si accinge a fare.
Il problema maggiore, dunque, si avrà all’esterno dove le iniziative provocatorie del Presidente, frutto di un narcisismo al limite del patologico che porta all’estremo l’esibizionismo del protagonista, fatto di attenuazioni smentite o ripensamenti del giorno dopo, creano instabilità e insicurezza. In realtà, ritengono gli osservatori internazionali, il comportamento di Trump si spiega col fatto che è un trattativista che parte con una proposta molto elevata per giungere a un accordo per lui abbastanza vantaggioso. Un riflesso esterno di questa politica lo si vedrà sicuramente riguardo al problema degli ingressi cosiddetti illegali e delle “deportazioni”, in cui, a parte ogni piccolo sbilanciamento a favore di una chiusura più netta dei confini da parte di governi amici o alleati può rafforzare la convinzione, anche in Paesi come l’Italia, che nel mondo occidentale si stia affermando una tendenza favorevole al rigetto e all’espulsione dello straniero.
Su quest’ultimo tema anche noi italiani, siamo esitanti, perplessi, impauriti, incerti tra le ragioni del cuore per la sorte di tanti sventurati che cercano rifugio nel nostro Paese e il timore che possano stravolgere le nostre vite e le nostre culture. Forse anche noi dovremmo incominciare a ragionare diversamente. Grant Soosalu e Marvin Oka, nel loro libro Armonizzare i cervelli (edizione italiana), dicono che il cervello umano non ha sede solo nella testa, ma ve ne è uno nel cuore e un altro anche nell’intestino, che spesso entrano in conflitto tra loro e che il modo migliore di utilizzarli è tentare di coordinarli. La metafora mi sembra applicabile al nostro caso se dividiamo idealmente la popolazione italiana in due parti, una che sembra avere del fenomeno migratorio una visione ispirata alle ragioni della pancia per cui si tratterebbe solo di volgari invasori e profittatori della nostra civiltà e l’altra metà a quelle del cuore che li induce a invocare pietà per i derelitti. Quindi, più che mai sarebbe opportuno che le tre diverse sedi del cervello si coordinassero tra loro lasciando la scelta preferibilmente a quella che risiede nella testa.
Una visione più ragionevole può emergere dalla constatazione che nel nostro Paese il problema dell’invecchiamento produrrà per consunzione non solo l’esaurimento della civiltà che oggi vi regna ma anche la compromissione dello sviluppo economico a causa di quella spinta e innovazione che possono assicurare solo le energie giovanili, le cosiddette intelligenze fluide. Secondo le proiezioni EUROSTAT l’ultimo italiano nascerà tra 200 anni e morirà fra 300 anni circa, spegnendo così la luce dell’etnia nazionale. Dopo di ciò il Bel Paese continuerà a esistere ma sarà consegnato verosimilmente a etnie che oggi incominciano ad affacciarsi ai suoi confini. Infatti, considerando che i flussi migratori sono inarrestabili sarà inevitabile la sostituzione dell’etnia attuale con altre provenienti più da lontano che probabilmente riserveranno alla nostra civiltà le attenzioni che, non solo noi italiani, ma anche europei abbiamo rivolto in veste di colonizzatori agli aborigeni australiani, ai nativi nordamericani o alle grandi civiltà del Centro e Sud America: un qualcosa da cui trarre vanto ed esibire e difendere, tutt’al più, come ancestrali (d’altro canto da quanti secoli non ci lustriamo le penne della Civiltà romana, di cui è rimasto in piedi solo qualche grande realizzazione e molte macerie?).
In realtà, sulla possibilità di realizzare sogni e divieti sta la realtà sempiterna dei flussi migratori, davanti ai quali storicamente si sono sempre infranti o rivelati velleitari i tentativi delle varie amministrazioni pubbliche di arrestare la pressione di chi vuole sfuggire alle guerre, alla fame, alla desertificazione del territorio o ambisce semplicemente a migliorare la propria condizione, avendo difronte solo l’alternativa della morte o dell’infelicità perenne (almeno economica e sociale). Davanti a una realtà apparentemente così ineluttabile gli Stati, presi d’assalto dalla massa dei migranti internazionali, prima o poi saranno costretti ad adeguarsi e a prenderne atto, come avvenne in uno dei primi e più celebri casi storici dell’epoca romana quando, con l’Editto di Caracalla del 212 d.C., l’Imperatore estese la cittadinanza romana riservata ai residenti in Italia agli immigrati trasformandoli nel contempo in contribuenti, soldati e contadini e così si riuscì a tamponare un flusso che stava travolgendo i confini dell’Impero. Anche il Grande Paese, come viene trattato nella filmografia l’America, sarà costretto a confrontarsi con l’inevitabilità che nei prossimi decenni la metà della forza lavorativa disponibile nel pianeta sarà costituita dai più prolifici africani, una realtà per effetto della quale molti Stati al mondo si stanno mostrando pragmaticamente disponibili ad affidare i lavori manuali prevalentemente alla massa di immigrati più poveri e meno formati e le attività di più alto livello all’offerta di cervelli e professionalità che giunge dai numerosi giovani che varcano le frontiere del proprio Paese alla ricerca di una migliore realizzazione e di gratificazioni economiche.
Un modo ragionevole di affrontare questi problemi sarà, ad avviso di chi scrive, coordinare democraticamente tutti i punti di vista esistenti nel Paese, superando la divisione in due blocchi che oggi la caratterizza politicamente tenendo presente che la realtà è più sfaccettata di quanto non presuma l’attuale manicheismo politico. Davvero possiamo credere che, per esempio, un cattolico che vota a destra perché non vede di buon occhio l’aborto o la negazione della famiglia tradizionale basata sull’unione tra uomo e donna si possa tramutare in un assertore del bando di qualsiasi immigrato contro il principio evangelico “ero straniero e non mi avete accolto”? Oppure, sull’altro versante, davvero si riesce a pensare che il lavoratore dell’industria o dell’edilizia, con tutto il suo retroterra culturale sindacale e politico di sinistra possa accettare a cuor sereno l’ingresso di lavoratori stranieri che, sia vero o no, nella tradizione sindacale europea e occidentale, erano coloro che portavano via il lavoro ai residenti? Pensiamoci sopra. Probabilmente sarà necessario parlarsi, confrontare le ragioni degli uni e degli altri, anche come cittadini e votanti, in nome del problema che tutti oggi sembrano accettare, ossia che senza l’apporto di forze nuove e giovanili in questo Paese non c’è futuro per nessuno. Non sottostimare, per esempio, che tra chi entra vi possono essere dei criminali o tali possono diventare coloro che si radicalizzano nelle carceri e nell’emarginazione o semplicemente che impongono con eccessiva esuberanza la propria presenza, che sono le maggiori preoccupazioni di chi avversa l’ingresso degli stranieri; ma anche facendo capire che un’azione di accoglienza, di socializzazione, di informazione e di istruzione a favore degli ospiti aiuta a capire che l’obiettivo della maggior parte di loro non è demolire ciò che trovano quanto di ricercare uno spazio umano, sociale e lavorativo in cui inserirsi e dare un contributo alla società che li accoglie (già grande dal punto di vista economico non solo in Usa ma anche in Europa), per cui è nell’interesse di tutti investire in questa direzione.
Perciò, tornando a Trump, dando anche per ammesso e non concesso (sicuramente dietro l’irruenza del personaggio e le sue esilaranti proposte vi sono analisti e Think Tank), che si tratti di spacconate tendenti a configurare in modo grezzo una presidenza imperiale da parte di un sociopatico, non sarà il caso di capire perché quasi la metà dei cittadini americani gli ha dato e continua a dargli credito (da un recente sondaggio del Pew il 47% ritiene che stia facendo quanto promesso e il 44% anche troppo) e che certe preoccupazioni che lo spingevano a sostenerlo non siano comuni anche a larghi strati della popolazione europea e italiana, e che sia l’ora di farsene carico anche da questa parte del globo? Perché, per esempio, l’evidenza dei dati macroeconomici del Paese favorevoli alla Presidenza Biden non hanno convinto gli elettori favorevoli a Trump? Ciò è accaduto perché in realtà nel suo piccolo ciascuno si riteneva penalizzato dall’inflazione e riteneva il reddito percepito insufficiente a condurre un’esistenza senza problemi economici. Fabula de te narratur, dicevano gli abitanti che ci hanno preceduto due millenni fa. Non a caso pochi italiani sotto questo e l’altro governo si dichiaravano soddisfatti che i dati macroeconomici e le prospettive di crescita del nostro Paese dopo il Covid fossero positive mentre la maggioranza appariva contrariata che la bolletta energetica e l’inflazione pesassero in modo insopportabile sulla propria testa. Peraltro, anche a vedere le ragioni che lo hanno spinto a parlare ormai di “reciprocità doganale”, le famose tariffs, che inizialmente voleva portare al 20 e più per cento, i dati ci raccontano che oggi gli Usa sono il Paese che presenta la minore protezione doganale, del 3%, contro il 5 dell’Europa e l’8 della Cina e tutti gli altri Paesi del mondo ancora più su; in particolare nelle auto l’Europa tassa al 10% e l’America al 2,5%. Per questo motivo non deve sorprendere che anche WTO possa essere in qualche modo ridiscusso.
Ma anche guardando a problemi più strutturali va capita in qualche modo anche la portata internazionale della promessa rivoluzione del Doge di Elon Musk, che ricorda tanto la motosega di Milei, che mira ad abbattere quello stato profondo, il Deep State anglosassone, che minaccia le fondamenta della nostra convivenza democratica, creando una rete di mandarini insostituibili che rallentano l’erogazione dei servizi, allungano la consegna delle opere pubbliche, mangiano consistenti percentuali del Pil – che nell’America degli anni Settanta era del 20% e in quella attuale del 40%, come in quasi tutte le grandi nazioni europee, eccettuata l’Italia in cui l’apparato pubblico incide sul nostro Pil oltre il Cinquanta per cento. Ebbene, anche di ciò ci stiamo interrogando noi sia in Europa, da tempo accusata di essere solo capace di imporre regole su qualsiasi sciocchezza (e anche per questo l’Inghilterra è uscita), sia in Italia dove da troppo tempo si parla di riforma burocratica facendo ancora molto poco in questa direzione.
Quello che è uscito veramente male dalla campagna presidenziale americana è proprio il partito democratico, che ancora dà segni di torpore. E siccome il problema è generale nel mondo occidentale, anche in ordine alle sorti del sistema democratico si impone qualche riflessione. Forse sono mancate le forze di sinistra che, dalle origini ottocentesche, avevano messo al centro delle loro battaglie politiche la condizione delle classi subalterne, di quelle lavoratrici trovando così un collegamento anche con i partiti politici che nascevano dalla tradizione cristiana dando vita ai relativi partiti di massa. Le stesse forze oggi si sono mostrate più attente agli interessi delle élites, al linguaggio del politicamente corretto, ai problemi sessuali, agli stranieri, in buona sostanza alle frange più ristrette o estranee alla società stanziale lasciando che la maggioranza degli elettori andasse a rimorchio dei politici nazionalisti e conservatori che però si dichiaravano interessati a venire incontro alla collettività sia pure riducendo le libertà in cambio dell’accorciamento dei tempi delle decisioni e della concessione di qualcosa di più tangibile. Qualcosa di analogo può essere detta per le spese per la difesa, dando in qualche modo ragione a Trump (e prima di lui a Clinton) quando, nel suo precedente mandato, accusava l’Europa di far spendere tutto all’America per la sua sicurezza. Anche sotto questo punto di vista si stanno rivedendo molte cose. La difesa dell’Europa, in buona sostanza, non è più gratis: con gli Usa impegnati a fronteggiare la Cina nello scacchiere asiatico all’Europa ci deve pensare l’Europa – sostengono – che spenda in difesa almeno quanto l’America, ossia il 3,5% del proprio bilancio. Non si è arrivati a questo punto, d’altronde, a causa dell’aggressività europea e degli Stati Uniti, ma della Russia che, a iniziare dall’Ucraina, intende riportare indietro l’orologio della storia fermo alla cortina di ferro, nonché della Cina che si attrezza per riprendersi Taiwan.
Per concludere, stiano attenti gli oltre 200 milioni di migranti di tutto il mondo censiti dall’ONU a fare i passi giusti nel vasto universo che gli si apre ma che potrebbe risultare sconvolto dall’asse creato tra le personalità “forti” che oggi sembrano dirigere Stati dalle dimensioni geografiche superiori all’Europa (Xi, Putin e Trump), mentre il vecchio Continente va ancora avanti con l’assetto statale ereditato dalla pace di Westfalia del 1648 e lungo la grande spartizione del mondo sancita nella Conferenza di Jalta del 1945. Ma è necessario, soprattutto, che non si perda la calma e la freddezza perché non solo la storia ma anche il futuro è di chi muovendosi reca novità ed economicamente, dicono gli studi di settore, incrementa la ricchezza mondiale. Il mondo andrà incontro a profondi cambiamenti di cui loro saranno i protagonisti. Civiltà e modi reputati abituali di vivere diverranno sempre più ricordo del passato, oggetto di studio e mete turistiche. Popolazioni più giovani ed etnie più prolifiche si accolleranno il futuro del mondo come lo fu per la civiltà occidentale nel Medio Evo in cui statisti e sovrani erano poco più che ventenni e della stessa età erano i costruttori della grande civiltà che ne derivò e sulla quale ancora poggiamo. Tenere la barra dritta e buona dose di pazienza è il suggerimento da dare a chi si accinge a partire mentre mantenere la calma e agire con giudizio è quanto si può raccomandare a chi si trova nella plancia di comando con il destino di ospitare genti sempre più diverse.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1]In proposito segnaliamo l’esauriente sintesi della storia delle deportazioni americane e del loro significato che lìne fail “Corriere della sera”, L’operazione Wetback e Obama Deporter-in-Chief. Breve storia delle espulsioni e deportazioni in America, 3 febbraio 2025.
[2] Deportation fixation. How far Will Donald Trump go to get rid of illegal immigration e The incoming administration. Labour the point. Can America’s economy cope with mass deportation in The Economist, January 11th 2025.
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Aldo Aledda, oltre che esperto di flussi migratori che più di frequente tratta per la nostra rivista, è anche un autorevole studioso del fenomeno sportivo. Dopo una carriera di dirigente e tecnico federale della pallavolo, è stato professore negli Isef e nei corsi di scienze motorie in Italia e Visiting Professor all’estero nelle materie di storia e sociologia dello sport, facendo attivamente parte anche di istituzioni internazionali di etica e cultura sportiva come il Panathlon International. All’attivo ha numerose pubblicazioni, tra le quali alcune premiate al Bancarella Sport e al Concorso letterario del CONI, come I cattolici e la rinascita dello sport italiano (1998), L’importante è vincere. Sport in Usa dal Big Game al Big Business (2000) e Sport. Storia politica e sociale (2002), e altre di maggiore successo editoriale come De Coubertin addio! Corruzione, affari, droga, frode criminalità nello sport (1996) mentre le ultime sono state dedicate soprattutto ai temi etici come Dove va lo sport del 2000? (2003) e The Privacy of Ethics. Also in Sport? (2011).
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