per la scuola
di Valeria dell’Orzo
Non avrei pensato, anni fa, di entrare a far parte del mondo della scuola, eppure è successo. Le scoperte sono state molte, la realtà che ho trovato si è mostrata da subito profondamente mutata rispetto ai miei ricordi liceali e non solo per la differente prospettiva che stavo assumendo, ma per un insieme di riferimenti profondamente riformulatosi nel corso degli anni.
A tracciare il profilo contemporaneo del mondo dell’istruzione hanno contribuito le riforme che si sono avvicendate ma, soprattutto, la stessa percezione del ruolo della scuola all’interno della società. L’istruzione non ha sempre coinciso con un diritto esteso, e si è, invece, a lungo caratterizzata come un escludente privilegio di classe, di ceto, come una linea di demarcazione tra le micro-realtà sociali. La scuola è stata, di fatto, per troppo tempo uno spazio di esclusione nei confronti di coloro che per estrazione familiare non potevano permettersi l’istruzione, vista come un lusso dal quale era precluso chi proveniva da una famiglia che non ne aveva avuto accesso e chi versava in condizioni economiche meno agiate.
Una nuova sensibilità, un’estensione del diritto alla costruzione del sé e del principio di equità, ha consentito di trasformare l’istituzione scolastica in uno spazio di trasversale inclusione, fino a divenire un obbligo societario, una garanzia assicurata dalla responsabilità statale, al fine di conseguire la costruzione di una comunità più consapevole e capace di dare spazio alla crescita di ogni individuo e non solo di coloro ai quali, per un iniquo principio di diritto di nascita, era stata predisposta, riservata, una condizione dominante.
Quando la scuola è diventata un diritto di tutti si è intravista la possibilità di lasciare spazio all’affermazione dell’intelletto, delle risorse culturali, del potenziale creativo e innovativo di ogni alunno, dai primi gradi dell’istruzione fino ai più elevati, assicurando una opportunità di crescita diffusa. La realtà si è però mostrata, nei suoi riflessi pratici, ben diversa, la perdita dello status symbol attribuito alla scuola ha fatto sì che si sia iniziato a svalutarla.
La scuola di oggi ha gradualmente perso la sua immagine di rampa di lancio per l’ascesa sociale, è divenuta nell’immaginario comune, e nella rappresentazione pratica, il luogo preposto all’accudimento dei giovani non solo sotto il profilo didattico-educativo ma anche nella gestione dei tempi quotidiani, molte volte utile a ridurre l’incombenza dei genitori del monitorare e allevare i propri figli, demandandone l’intero dovere agli insegnanti. Si è, inoltre, assottigliata man mano al livello dell’utile immediato, spendibile nel produrre, come se quella classe popolare, da sempre esclusa dall’istruzione, dovesse ora pagare, con la riduzione della cultura e la logica del lavoro formativo non retribuito, il privilegio acquisito di potere studiare senza più essere costretta, già in tenera età, a contribuire all’economia del mondo adulto, nelle fabbriche o nelle botteghe, o nei tanti settori del lavoro malpagato.
Il sapere, considerato da sempre un lusso capace di marcare il confine tra il ceto dei potenti e il resto del popolo, è stato progressivamente svalutato e impoverito quando ha iniziato a essere percepito e normalizzato come un diritto. Le trasformazioni veicolate dalle riforme via via succedute sono l’immagine speculare proprio di quella logica escludente e ghettizzante che, una volta contrastata per essere sconfitta, è riuscita a perpetuarsi cambiando la propria forma senza essere nella realtà effettuale abbattuta.
A essere maggiormente aggredite dallo svilimento e dalla dequalificazione sono state, in evidenze, le materie umanistiche, in apparenza le meno utili a un produrre materiale economicamente valutabile. Gli effetti di tale opera di depauperamento balzano agli occhi di fronte alle lacune denunciate dagli studenti che spesso giungono alle superiori con enormi difficoltà nella comprensione di un testo, nello svolgimento autonomo delle operazioni matematiche di base, ma anche e soprattutto nella scarsa dimestichezza con la scrittura in corsivo, ormai sempre più fagocitata dall’uso dei dispositivi informatici, dalla migliore leggibilità per il docente dello stampato maiuscolo e dall’estensione generalizzata delle disposizioni introdotte a tutela degli studenti con disturbi specifici dell’apprendimento.
La macchina della scuola viene descritta, con lucida metafora dal sociologo dell’educazione Luca Argentin nel libro edito di recente da Il Mulino, Nostra scuola quotidiana, come un enorme infrastruttura, complessa e articolata, composta dall’innesto di elementi differenti e disconnessi, assemblati approssimativamente per creare uno strumento imponente e inarrestabile, resistente alla plasticità che la sfera umana richiede, lento nel correggere i movimenti risultati inadeguati e rischiosi, capace di muoversi nella direzione data senza però riuscire a modificare il proprio passo e il tragitto predefinito in base alle effettive asperità del suolo e agli effetti riportati, muovendosi su un campo delicato e importante come quello della crescita dell’individuo e della società (Argentin, 2021).
In effetti la ‘goffaggine’ della scuola traspare con chiarezza a chiunque rimanga impigliato nelle maglie delle scartoffie burocratiche, della compilazione di documenti marchiati da ridondanti acronimi, vincolati all’applicazione di una logica complessiva fuorviante che, nei fatti, produce una sostanziale riduzione delle offerte e delle richieste, delle conoscenze, senza esitare in un concreto aumento delle acclamate competenze. Si scivola, così, nell’assuefazione all’idea di una scuola deposito di futuri lavoratori, figli di un sistema produttivo che poco tiene in conto le esigenze individuali e quelle sociali di responsabilizzazione dei giovani, di educazione al diffuso esercizio di un diritto che sia giusto e non solo comodo negli anni che anticipano l’età adulta, che assecondi e predisponga una crescita armonica, risanata dall’eccesso di tutela e di protezione, dall’educazione appiattita al produrre, dalla riduzione dell’aspettativa che rende i giovani meno autonomi e meno consapevoli delle loro capacità. Si cade nella riduttiva logica dell’utile più vicino e a tale sistema vengono abituati gli studenti, attraverso un subdolo ridurre, semplificare, banalizzare, comodo riparo nel tumulto della giovinezza quanto depauperante nel loro costruirsi da futuri adulti.
Dalla legge Casati del 1859 alla Buona scuola del 2015 che continua a riadattarsi ciclicamente, passando per la riforma Moratti, la scuola delle tre i, inglese, informatica, impresa, e attraverso i tagli della riforma Gelmini, gradualmente sono filtrate nel tessuto scolastico una serie di riformulazioni della didattica, il più delle volte supportate dall’intento di fornire un sostegno là dove la struttura mostrava delle falle o degli scricchiolii. L’esito di tale percorso rivela, però, una mancata capacità di proiezione sul futuro. L’offerta e la richiesta interne alla scuola sono state riscritte seguendo un evidente assottigliamento del sapere e un apparente, ingenuo e ottimistico slancio verso il saper fare. In realtà, come ha osservato l’antropologo Fabio Dei, è sufficiente entrare in una classe delle superiori per rendersi conto del disastro che è stato compiuto nel corso dei loro studi.
La capacità di comprendere un testo appare assai precaria rispetto a quanto ci si aspetterebbe in relazione alla classe raggiunta, ma anche la dimestichezza con le norme di condotta più elementari, la tenuta dell’attenzione, le tecniche nell’ascoltare una lezione prendendo appunti, selezionando dunque quelle informazioni più rilevanti all’interno di un discorso ampio, si rivelano davvero ridotte e incerte.
Occorre dunque chiedersi il perché di questa condizione, come si è giunti a questa nuova realtà che interessa milioni di giovani e che modella il presente e il futuro della società. Nella scuola odierna molta attenzione è posta su un principio che in evidenza si mostra corretto e auspicabile: l’inclusione. È però facile rilevare quanto questo apprezzabile obiettivo della crescita comunitaria sia stato trasformato in una sorta di cavallo di Troia capace di introdursi nel mondo della società adulta del futuro attraverso il livellamento alla mediocrità di prestazioni e valori.
La necessità di tutela dei giovani, e delle infinite forme di difficoltà che l’esperienza personale o uno specifico disturbo possono comportare, si è trasformata, purtroppo, in un esteso eccesso di assistenza che passa dall’organizzazione scolastica alla visione delle famiglie, sempre più tese a proteggere da ogni incombenza e da ogni responsabilità i propri figli, rimuovendo o esorcizzando i conflitti familiari tipici dell’adolescenza e impedendo, di fatto, ai giovani di procedere in modo armonico e graduale verso le sfide del mondo adulto e le asperità della vita. Questo fenomeno a sua volta ha assunto la forma deleteria della deresponsabilizzazione e della riduzione delle richieste, fonte invece di stimoli per la crescita e lo sviluppo delle capacità e delle potenzialità dell’alunno, se gestite correttamente nel rispetto delle relazioni con gli altri e delle regole di convivenza della classe.
Apportare le trasformazioni adeguate alla risoluzione delle criticità della scuola sembra rivelarsi un’urgenza inascoltata, nell’inconsapevolezza che l’abbrutimento di un luogo di crescita e apprendimento tanto importante non può che rivelare una labilità sociale e culturale più estesa, fragilità esistenziali e povertà culturali. Le ripercussioni dell’indebolimento in conoscenze e responsabilità etiche e civili sono ravvisabili sul piano sociale, possiamo rintracciarle nell’insoddisfazione dei più giovani, nella noia diffusa che colpisce quella che invece è l’età della scoperta, ma anche nell’esteso analfabetismo funzionale tanto abile a produrre inconsapevolezza, quanto utile a creare porzioni sempre più ampie di popolazione deprivata nel proprio spirito critico, nell’analisi e perfino nella tutela personale. Possiamo osservare gli effetti di questa delegittimazione della scuola nell’assuefazione al ribasso, che ingiustamente affligge i giovani e inevitabilmente si riverbera nel senso comune della collettività.
Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
Riferimenti bibliografici
Gianluca Argentin, Nostra scuola quotidiana, Il Mulino, Bologna, 2018.
Fabrizio Dal Passo, Alessandra Laurenti, La scuola italiana. Le riforme del sistema scolastico dal 1848 ad oggi, Novalogos, Anzio, 2017.
Fabio Dei, Ancora sul saper scrivere all’università. La scuola progressista e i suoi critici, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 53, gennaio 2022
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Valeria Dell’Orzo, antropologa culturale, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee, con particolare attenzione al fenomeno delle migrazioni e delle diaspore e alla ricognizione delle dinamiche urbane. Impegnata nello studio dei fatti sociali e culturali e interessata alla difesa dei diritti umani delle popolazioni più vessate, conduce su questi temi ricerche e contributi per riviste anche straniere.
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